TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 17 dicembre 2018

Giorgio Bocca nell'Italia del miracolo economico




Torna in libreria “Miracolo all’italiana” del 1962, il primo libro a raccontare l'Italia del boom. Un paese pieno di difetti come oggi, ma ottimista e soprattutto più umano, forse perché nonostante tutto ancora  molto povero.

Fabrizio Ravelli

Il viaggio di Giorgio Bocca nel Paese che cambiava pelle


Al principio fu Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Incipit leggendario, che generazioni di cronisti hanno mandato a memoria.

E comincia da lì, da Vigevano e da quella beffarda contabilità, il libro del 1962 che Feltrinelli ora ristampa (con prefazione di Guido Crainz). Quel Miracolo all’italiana che ai cronisti ha fatto sognare di scrivere come Giorgio Bocca, ma che a legioni di intellettuali e politici (soprattutto gli odierni) avrebbe potuto insegnare come si conosce e si racconta un Paese. L’Italia degli anni ‘50-‘60, del miracolo (la definizione venne battezzata dal Daily Mail) che stava cambiando tutto: economia, industria, consumi, costumi, abbigliamento, ideologie.

Un “miracolo” anche giornalistico, dentro al quale Bocca si muove con la vitalità di chi vede possibile il cambiamento. Ha 40 anni, è un inviato del Giorno di Mattei diretto da Italo Pietra, ex-partigiano anche lui.

E «l’aggressività petrolifera di Mattei» si traduce in linea politica (neocapitalista, riformista, con un occhio di riguardo a socialisti e sinistra democristiana): «E il provinciale che ero», scriverà Bocca nell’autobiografia, «ci ricadde, per le seconda volta tornò a sperare come nella guerra partigiana, in un paese laico moderno in cui il giornale dell’Eni avrebbe dato voce a una nuova cultura industriale, a pensare che saremmo diventati il giornale dell’aristocrazia operaia e della tecnocrazia che stavano facendo dell’Italia un paese ricco e moderno».

Un giornale coraggioso «nei riguardi del vecchio establishment»: «A me il Giorno di Pietra e di Mattei dava via libera per andare alla scoperta dell’Italia». E quindi via, soprattutto verso la provincia industriale, grande sconosciuta, con il suo caos, la vitalità e la volgarità, le conquiste e i rivolgimenti.

Una «miniera a cielo aperto», la chiama Bocca. Che scava e racconta, con un metodo anche quello nuovo per il giornalismo italiano: molta preparazione di dati sulla realtà, molti libri letti alle spalle, un gran numero di persone incontrate (e ben poche citate poi), un approccio molto personalizzato del testimone che dice: «Io questo ho visto e questo ho capito».

Dal vitalismo e dalla volgarità del “miracolo” Bocca è sbalordito, divertito, schifato ma anche affascinato: «Quell’Italia aveva animo lieto e alacre nonostante le difficoltà della vita perché percorsa da un’idea o grande speranza o grande illusione di progresso. L’atteggiamento di un cronista come me rispetto alle prime manifestazioni di consumismo massificato, di benessere diffuso era insieme di critica e di adesione: critica delle forme, adesione per la sostanza».

A deluderlo è casomai quella borghesia che non riesce a essere classe dirigente: «Sembra incredibile che un ceto così ricco di fiuto merceologico, di attaccamento al lavoro, di ardimento commerciale, di gusto manufatturiero non riesca a capire che una società, la società in cui vive, non può continuare senza un solido assetto sociale, senza interessi e iniziative intellettuali, senza un ordine. In altre parole senza una civiltà che non sia quella pura e semplice dei consumi». Calzaturieri di Vigevano, magliai di Carpi, ovunque il “miracolo” accumuli neonate fortune.


Bocca, inutile ripeterlo, non è solo lo spietato indagatore della realtà, e anzi poiché scrive divinamente e ha un occhio infallibile, si concede sprazzi di puro divertimento: Imaièr, i magliai, quei tipi cordialoni, forse troppo, vestiti all’ultima moda, con facce color terra e sangue come quella di un Adamo celtico, appena impastato».

Il “miracolo” ha tante facce: a Foggia «c’è prima di esserci, esiste perché deve venire, è un miracolo sulla parola, la gente cui è stato promesso ha incominciato a anticiparselo».

A Siena il miracolo c’è stato sette secoli prima, e ancora lo si rimembra con nostalgia: il boom c’è anche qui, «ma i parvenus si sono fermati a Poggibonsi». Fra palazzi aviti del Dugento, cacce e arazzi, il cuneese Bocca non si ritrova: «In questi giorni mi sento molto allobrogo. Di giorno sto a disagio fra questi uomini che hanno profili etruschi e nobili fattezze, fra queste donne dai tratti fini e deliziosi. Di sera, nella mia stanza, scopro nello specchio la pesantezza, grossolanità, ottusità dei miei connotati celtici, appena romanizzati».

Il “miracolo” a Milano è quello dei cafoni arricchiti, ma anche quello dei pendolari intirizziti nell’alba che Bocca va a incontrare a Palazzolo sull’Oglio: «Sveglia alle quattro e mezza, stanza fredda, acqua fredda, sacramenti e così fino alla stazione».

E col “miracolo” anche i “miracolati”, i famosi che Bocca ritrae: da Guttuso (un pezzo da maestro), Mina agli esordi, Alberto Sordi e Walter Chiari, un Omar Sivori che sbeffeggia la disciplina savoiarda della Juventus.

La repubblica – 23 novembre 2018