Una
grande storia operaia, il romanzo corale di di una città (la Savona
delle fabbriche e del porto) travolta dalla crisi. "Gli innocenti” di Guido Seborga. Da leggere, per capire.
Giorgio Amico
Ieri l'ILVA, oggi la
Piaggio. “Gli innocenti” di Guido Seborga
Che Guido Seborga sia
stato un grande scrittore lo testimonia la bellezza folgorante dei
suoi incipit. E “Gli innocenti” non fa eccezione:
“Matteo per ore chiuso
nella fabbrica era straziato dal lavoro; e non poteva permettersi la
minima disattenzione. Doveva curare con sveltezza e abilità che i
lunghi e infuocati fili di metallo incandescente che uscivano dal
forno si deponessero sugli schermi dopo aver paurosamente volteggiato
in aria. I suoi gesti precisi costringevano il filo al suo posto; la
sua fronte era madida di sudore, il suo volto dai tratti salienti
come arrossato dal fuoco”.
Un inizio straordinario
che indica immediatamente il vero protagonista del romanzo: la
fabbrica, il lavoro ai forni e alle macchine. Un lavoro pesante,
feroce, che “strazia”, che può ferire o uccidere. La fonderia è
un inferno dei vivi. Non c'è retorica nel romanzo. Sbaglia chi
sbrigativamente lo etichetta come un frutto un po' tardivo dell'epoca
neorealista. Nelle pagine di Seborga non c'è compiacimento o
retorica. Il lavoro non viene esaltato, tanto meno la fatica. Il
lavoro permette di vivere, ma è una condanna che pesa sull'uomo, un
ergastolo “senza possibilità di evasione”. Una feroce necessità
a cui l'uomo, se davvero è uomo, non può sottrarsi, pena perdere la
propria dignità. Il lavoro connota la condizione umana, crea, pur
nella sua durezza, i presupposti dell'esistenza di una comunità. E'
il lavoro, la vita nel reparto, a forgiare il gruppo, a legare fra
loro gli uomini, a costruire visione condivise.
Grande romanzo corale,
storia (quasi cronaca) della lotta di una città per il lavoro, “Gli
innocenti” è anche la storia di un gruppo di uomini costretti,
ciascuno a suo modo, a confrontarsi con avvenimenti più grandi di
loro di cui fanno fatica a comprendere il senso. Ognuno reagisce a
suo modo alla sfida rappresentata dalla chiusura della fabbrica,
dalla perdita del lavoro.
La fabbrica rende simili
gli uomini. Ma gli operai, nonostante il lavoro, restano
irriducibilmente diversi. L'occhio libertario di Seborga non può che
concepirli così, nella loro assoluta, innocente, individualità. I
gesti sono gli stessi: metodici, calibrati, ritmati sui tempi del
reparto. Ma gli occhi no. Gli occhi degli operai sono diversi, i loro
volti sono diversi, il modo in cui reagiscono alle avversità e alla
fatica sono irriducibilmente diversi. Nella lotta gli operai sono
massa, ma una massa che non è semplice moltitudine, ma che prima il
lavoro e poi la consapevolezza ha reso comunità di uomini liberi
uniti da un patto di fratellanza e di mutuo sostegno. Il pugno che
sollevavano è fatto di dita strette insieme. Una stretta che il
padrone vuole sciogliere.
La lotta è dura,
difficile, soprattutto lunga. Il padrone può attendere. Gli operai e
le loro famiglie no. La mobilitazione lentamente declina. Nascono le
prime divisioni. La comunità operaia inizia a sfaldarsi. Il gruppo
si frantuma. Esclusi dal lavoro, lontani dal reparto, fuori dai
cancelli dello stabilimento, gli operai perdono poco a poco la loro
identità di produttori. La loro vita, interamente centrata sul
lavoro, perde significato. Mutano i rapporti con i compagni, le
mogli, i figli, la città stessa diventa estranea, sconosciuta,
ostile:
“Milano [uno degli
operai licenziati] se ne stava per ore seduto immobile con gli occhi
sbarrati, e con la mente pensava sempre alla «sua» fabbrica e a
compiere il «suo» dovere, le sue orecchie accoglievano stranamente
quei rumori esterni che c'erano intorno e che non conosceva perché in quelle ore aveva sempre udito i suoni della fabbrica. Non osava
uscire. Gli pareva impossibile farsi vedere per istrada in pieno
giorno. Uscire diventava il gioco di un fannullone, di un buono a
nulla. Non poteva andarsene sotto i portici, sedersi ad un caffè,
oppure prendere una delle piccole e tortuose stradette che partono da
Corso Italia, e dove ci sono tante osterie, parlare ad alta voce,
discutere di «lascia o raddoppia», (...) giocare alle carte o al
bigliardo. Queste erano cose che un operaio non poteva fare, che un
padre di famiglia non poteva accettare, questo era un degradarsi.
Meglio era stare chiuso in casa non farsi vedere da nessuno, farsi
dimenticare. «Disoccupato!» Era una condanna. Per ora aveva ancora
qualche lira della disoccupazione, ma dopo?”.
“Gli innocenti” è
del 1961 e racconta la storia della lotta dell'ILVA di Savona del
1950 che l'autore aveva seguito come giornalista. Ma il libro resta
vivo e attuale, nella descrizione di picchetti e dei cortei, ma
soprattutto della sofferenza di quegli operai che escono sconfitti
dalla lotta, derubati della loro vita. Come Milano, la cui esistenza
ha perso significato e dignità, che non osa più “essere padre,
essere marito. Caterina [la moglie] disperata piangeva senza lacrime
ore intere. Una famiglia era stata infranta, distrutta alle radici.
Non era la sola. Ma tutto sembrava naturale”.
“Tutto sembrava
naturale”. Ieri come oggi. L'ILVA come la Piaggio. Chiudere una fabbrica, spostarne altrove
la produzione, licenziarne gli operai. Cosa si può fare? Il mondo
gira cosi.. E invece no. Qualcosa si può fare, si deve fare. Ma
cosa? In questo Seborga ci aiuta. Perché i romanzi di certo non
cambiano il mondo, ma aiutano a capire. E capire è il primo passo...