TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 27 dicembre 2018

Italo Calvino scrittore di paesaggi



Ci sono due Ligurie. Una costa fatta di luci, palazzi, rumori e un entroterra di ombre, pietra e silenzi. Lo scrittore sta sul confine.

Giorgio Amico

Italo Calvino scrittore di paesaggi

“Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d'arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l'orina dei muli”.

Forse qualcuno l'avrà riconosciuto. E' l'incipit della sua prima opera importante. Il sentiero dei nidi di ragno (1947).

Il dato è quasi simbolico: la scrittura di Calvino inizia dalla descrizione della Pigna, il centro storico di Sanremo. E' Calvino stesso a spiegarlo ne La strada di San Giovanni (1963), una rimeditazione della sua giovinezza e un omaggio postumo al padre reso, quando, oltrepassata la conradiana linea grigia, si inizia finalmente a capire qualcosa di più della vita:

“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra, a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città con i marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e piazza Colombo lì a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra i muri a secco e pali di vigne e il verde”.


Il paesaggio come punto di partenza, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e significato il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il paesaggio deve poter essere abitato, in qualche modo vissuto. Calvino lo spiega nella celebre introduzione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno:

“Io ero della Riviera di Ponente; dal paesaggio della mia città - San Remo – cancellavo polemicamente tutto il litorale turistico - lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i geometrici campi dei garofani, preferivo le « fasce » di vigna e d'oliveto coi vecchi muri a secco sconnessi, m'inoltravo per le mulattiere sopra i dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i castagni, e cosi ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi liguri. Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos'altro: a delle persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui”.

E' un concetto che ricorda Pavese. Calvino non lo nasconde. In una recensione dell’agosto 1946 il giovane scrittore identifica come centrale nel mondo poetico di Pavese « la sua esigenza di sentire il paesaggio in chiave di un personaggio» staccandolo da una funzione passiva di mero sfondo. Un concetto che egli farà suo fin dalla prima prova importante, quel piccolo-grande romanzo sulla Resistenza vista con gli occhi di un bambino, che lo imporrà all'attenzione dei critici e del pubblico.



Quella di Calvino è una Liguria divisa in due, quasi lacerata: da un lato una costa luminosa ma senza anima, dall'altro un entroterra, aspro e povero, ma ricco di senso. Una terra descritta negli articoli che lo scrittore, giovanissimo, invia al “Politecnico” di Vittorini fra la fine del 1945 e il 1946. Una Liguria “magra e ossuta”, dignitosa nella sua povertà, lontanissima dall'immagine sfavillante di luci della costa, abitata da uomini duri e scontrosi, «stundai» secondo la parlata ligure, proprietari e schiavi » della poca terra disponibile, condannati a una fatica senza redenzione possibile:

“In nessun popolo l’individualismo è spinto alle estreme conseguenze come tra i liguri. La proprietà è frazionatissima e spesso l’azienda è costituita di poche fasce e di un sol uomo che ne è allo stesso tempo proprietario e schiavo. Dovrà zappare la terra secca e dura, ingrassarla di concimi costosi, far scorrere tra i solchi i pochi metri cubi d’acqua che gli spetteranno alla settimana, rifare i muri delle fasce quando le piogge minacceranno di fargliele franare giù per la valle. Egli pensa che il suo grande nemico, dopo la siccità e gli insetti, sia il governo. Ma forse il suo più grande nemico è in lui stesso, nella sua solitudine”.

Una Liguria dell'entroterra fatta di pietra a cui corrisponde una umanità pietrosa:

« In certi paesi sembra non ci siano che pietre. Pietre nei selciati delle mulattiere, case fatte di pietre senza intonaco, muri a secco nelle fasce, la terra dei campi piena di pietre. Anche i vecchi, rimasti nei paesi, sembra siano di pietra. Forse per questo sono rimasti ».

Siamo in presenza di un Calvino giovanissimo, alle prese con le sue prime prove serie di scrittura. Nelle opere successive lo stile evolverà. Il paesaggio sfumerà progressivamente assumendo sempre più tonalità magiche e allusive. Il confine fra le due Ligurie diventerà metafora e simbolo esistenziale. Ma è da questa incerta linea dei monti che sfuma nell'azzurro, da questo sentirsi e viversi come uomo di frontiera che quarant'anni più tardi ripartirà Francesco Biamonti.