Ci
sono due Ligurie. Una costa fatta di luci, palazzi, rumori e un
entroterra di ombre, pietra e silenzi. Lo scrittore sta sul confine.
Giorgio Amico
Italo Calvino
scrittore di paesaggi
“Per arrivare fino in
fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le
pareti fredde, tenute discoste a forza d'arcate che traversano la
striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole,
giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi
di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e
sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a
gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l'orina dei muli”.
Forse qualcuno l'avrà
riconosciuto. E' l'incipit della sua prima opera importante. Il
sentiero dei nidi di ragno (1947).
Il dato è quasi
simbolico: la scrittura di Calvino inizia dalla descrizione della
Pigna, il centro storico di Sanremo. E' Calvino stesso a spiegarlo ne
La strada di San Giovanni (1963), una rimeditazione della sua
giovinezza e un omaggio postumo al padre reso, quando, oltrepassata
la conradiana linea grigia, si inizia finalmente a capire qualcosa di
più della vita:
“Una spiegazione
generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di
com’era situata casa nostra, a mezza costa sotto la collina di San
Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori
del nostro cancello e della via privata, cominciava la città con i
marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e piazza
Colombo lì a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla
porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte e subito si
era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra i muri a
secco e pali di vigne e il verde”.
Il paesaggio come punto
di partenza, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e
significato il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non
è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione
dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato
dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il
paesaggio deve poter essere abitato, in qualche modo vissuto.
Calvino lo spiega nella celebre introduzione del 1964 a Il
sentiero dei nidi di ragno:
“Io ero della Riviera
di Ponente; dal paesaggio della mia città - San Remo – cancellavo
polemicamente tutto il litorale turistico - lungomare con palmizi,
casinò, alberghi, ville quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli
della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i geometrici
campi dei garofani, preferivo le « fasce » di vigna e d'oliveto coi
vecchi muri a secco sconnessi, m'inoltravo per le mulattiere sopra i
dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i
castagni, e cosi ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una
striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi
liguri. Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva
che esso diventasse secondario rispetto a qualcos'altro: a delle
persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra
paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a
scrivere, è qui”.
E' un concetto che
ricorda Pavese. Calvino non lo nasconde. In una recensione
dell’agosto 1946 il giovane scrittore identifica come centrale nel
mondo poetico di Pavese « la sua esigenza di sentire il paesaggio in
chiave di un personaggio» staccandolo da una funzione passiva di
mero sfondo. Un concetto che egli farà suo fin dalla prima prova
importante, quel piccolo-grande romanzo sulla Resistenza vista con
gli occhi di un bambino, che lo imporrà all'attenzione dei critici e
del pubblico.
Quella di Calvino è una
Liguria divisa in due, quasi lacerata: da un lato una costa luminosa
ma senza anima, dall'altro un entroterra, aspro e povero, ma ricco di
senso. Una terra descritta negli articoli che lo scrittore,
giovanissimo, invia al “Politecnico” di Vittorini fra la fine del
1945 e il 1946. Una Liguria “magra e ossuta”, dignitosa nella sua
povertà, lontanissima dall'immagine sfavillante di luci della costa,
abitata da uomini duri e scontrosi, «stundai» secondo la parlata
ligure, proprietari e schiavi » della poca terra disponibile,
condannati a una fatica senza redenzione possibile:
“In nessun popolo
l’individualismo è spinto alle estreme conseguenze come tra i
liguri. La proprietà è frazionatissima e spesso l’azienda è
costituita di poche fasce e di un sol uomo che ne è allo stesso
tempo proprietario e schiavo. Dovrà zappare la terra secca e dura,
ingrassarla di concimi costosi, far scorrere tra i solchi i pochi
metri cubi d’acqua che gli spetteranno alla settimana, rifare i
muri delle fasce quando le piogge minacceranno di fargliele franare
giù per la valle. Egli pensa che il suo grande nemico, dopo la
siccità e gli insetti, sia il governo. Ma forse il suo più grande
nemico è in lui stesso, nella sua solitudine”.
Una Liguria
dell'entroterra fatta di pietra a cui corrisponde una umanità
pietrosa:
« In certi paesi sembra
non ci siano che pietre. Pietre nei selciati delle mulattiere, case
fatte di pietre senza intonaco, muri a secco nelle fasce, la terra
dei campi piena di pietre. Anche i vecchi, rimasti nei paesi, sembra
siano di pietra. Forse per questo sono rimasti ».
Siamo in presenza di un
Calvino giovanissimo, alle prese con le sue prime prove serie di
scrittura. Nelle opere successive lo stile evolverà. Il paesaggio
sfumerà progressivamente assumendo sempre più tonalità magiche e
allusive. Il confine fra le due Ligurie diventerà metafora e simbolo
esistenziale. Ma è da questa incerta linea dei monti che
sfuma nell'azzurro, da questo sentirsi e viversi come uomo di
frontiera che quarant'anni più tardi ripartirà Francesco Biamonti.