TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 6 gennaio 2010

Di come Vittorio Alfieri, gentiluomo, soggiornasse in Savona nel 1767


Vittorio Alfieri


Dove si racconta come nell'estate 1767 Vittorio Alfieri, gentiluomo, soggiornasse in Genova e poi in Savona, per giungere infine a Marsiglia.

Il porto di Genova nel XVIII secolo

Riuscitomi dunque il soggiorno in Venezia sul totale anzi noioso che no; ed essendo perpetuamente incalzato dalla smania del futuro viaggio d'oltramonti, non ne cavai neppure il minimo frutto. Non visitai neppure la decima parte delle tante maraviglie, sì di pittura che d'architettura e scoltura, riunite tutte in Venezia; basti dire con mio infinito rossore, che né pure l'Arsenale. Non presi nessunissima notizia, anco delle più alla grossa, su quel governo che in ogni cosa differisce da ogni altro; e che, se non buono, dee riputarsi almen raro, poiché pure per tanti secoli ha sussistito con tanto lustro, prosperità, e quiete. Ma io, digiuno sempre d'ogni bell'arte turpemente vegetava, e non altro. Finalmente partii di Venezia al solito con mille volte assai maggior gusto che non c'era arrivato. Giunto a Padova, ella mi spiacque molto; non vi conobbi nessuno dei tanti professori di vaglia, i quali desiderai poi di conoscere molti anni dopo; anzi, allora al solo nome di professori, di studio, e di Università, io mi sentiva rabbrividire. Non mi ricordai (anzi neppur lo sapeva) che poche miglia distante da Padova giacessero le ossa del nostro gran luminare secondo, il Petrarca; e che m'importava egli di lui, io che mai non l'avea né letto, né inteso, né sentito, ma appena appena preso fra le mani talvolta, e non v'intendendo nulla buttatolo? Perpetuamente così spronato e incalzato dalla noia e dall'ozio, passai Vicenza, Verona, Mantova, Milano, e in fretta in furia mi ridussi in Genova, città che da me veduta alla sfuggita qualch'anni prima, mi avea lasciato un certo desiderio di sé. Io avea delle lettere di raccomandazione in quasi tutte le suddette città, ma per lo più non le ricapitava, o se pur lo faceva, il mio solito era di non mi lasciar più vedere; fuorché quelle persone non mi venissero insistentemente a cercare; il che non accadea quasi mai, e non doveva in fatti accadere. Questa sì fatta selvatichezza era in me occasionata in parte da fierezza e inflessibilità d'ineducato carattere, in parte da una renitenza naturale e quasi invincibile al veder visi nuovi. Ed era pur cosa impossibile davvero di andar sempre cangiando paese senza che mi si cangiassero le persone. Avrei voluto per la parte del cuore convivere sempre con la stessa gente; ma sempre in luogo diverso.

In Genova dunque, non vi essendo allora il ministro di Sardegna, e non conoscendovi altri che il mio banchiere, non tardai anche molto a tediarmi; e già aveva fissato di partirne verso il fine di giugno, allorché un giorno quel banchiere, uomo di mondo e di garbo, venutomi a visitare, e trovatomi così solitario, selvatico, e malinconico, volle sapere come io passassi il mio tempo; e vedendomi senza libri, senza conoscenze, senza occupazione altra che di stare al balcone, e correre tutto il giorno per le vie di Genova, o di passeggiare pel fido in barchetta, gli prese forse una certa compassione di me e della mia giovinezza, e volle assolutamente portarmi da un cavaliere suo amico. Questi era il signor Carlo Negroni, che avea passata gran parte della sua vita in Parigi, e che vedendomi cotanto invogliato di andarvi, me ne disse quel vero e schietto, al quale non prestai fede se non se alcuni mesi dopo, tosto che vi fui arrivato. Frattanto quel garbato signore mi introdusse in parecchie case delle primarie; e all'occasione del famoso banchetto che si suol dare dal doge nuovo, egli mi servì d'introduttore e compagno. E là fui quasi sul punto d'innamorarmi d'una gentil signora, la quale mi si mostrava bastantemente benigna. Ma per altra parte smaniando io di correre il mondo e di abbandonar l'Italia, Amore non poté per quella volta afferrarmi, ma me la serbò per non molto dopo.

Partito finalmente per mare in una feluchetta alla volta di Antibo, pareva a me d'andare all'Indie. Non mi era mai scostato da terra più che poche miglia nelle mie passeggiate marittime; ma allora, alzatosi un venticello favorevole, si prese il largo; successivamente poi rinforzò tanto il vento, che fattosi pericoloso fummo costretti di pigliar porto in Savona; e soggiornarvi due dì per aspettare buon tempo. Questo ritardo mi noiò ed afflisse moltissimo; e non uscii mai di casa, neppure per visitare quella famosissima Madonna di Savona. Io non voleva più assolutamente vedere né sentir nulla dell'Italia; onde ogni istante di più che mi ci dovea trattenere, mi pareva una dura difalcazione dai tanti diletti che mi aspettavano in Francia. Frutto in me di una sregolata fantasia, che tutti i beni e tutti i mali m'ingrandiva sempre oltremodo, prima di provarli; talché poi gli uni e gli altri, e principalmente i beni, all'atto pratico poi non mi parevano nulla.
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Giunto pure una volta in Antibo, e sbarcatovi, parea che tutto mi racconsolasse l'udire altra lingua, il vedere altri usi, altro fabbricato, altre faccie; e benché tutto fosse piuttosto diverso in peggio che in meglio, pure mi dilettava quella piccola varietà. Tosto ripartii per Tolone; e appena in Tolone, volli ripartir per Marsiglia, non avendo visto nulla in Tolone, città la cui faccia mi dispiacque moltissimo. Non così di Marsiglia, il cui ridente aspetto, le nuove, ben diritte e pulite vie, il bel corso, il bel porto, e le leggiadre e proterve donzelle, mi piacquero sommamente alla prima; e subito mi determinai di starvi un mesetto, per lasciare sfogare anche gli eccessivi calori del luglio, poco opportuni al viaggiare. Nel mio albergo v'era giornalmente tavola rotonda, onde io trovandomi aver compagnia a pranzo e cena, senza essere costretto di parlare (cosa che sempre mi costò qualche sforzo, sendo di taciturna natura), io passava con soddisfazione le altre ore del giorno da me. E la mia taciturnità, di cui era anche in parte cagione una certa timidità che non ho mai vinta del tutto in appresso, si andava anche raddoppiando a quella tavola, attesa la costante garrulità dei francesi, i quali vi si trovavano di ogni specie; ma i più erano ufficiali, o negozianti. Con nessuno però di essi né amicizia contrassi né famigliarità, non essendo io in ciò mai stato di natura liberale né facile. Io li stava bensì ascoltando volentieri, benché non v'imparassi nulla; ma lo ascoltare è una cosa che non mi ha costato mai pena, anche i più sciocchi discorsi, dai quali si apprende tutto quello che non va detto.

Una delle ragioni che mi aveano fatto desiderare maggiormente la Francia, si era di poterne seguitatamente godere il teatro. Io aveva veduto due anni prima in Torino una compagnia di comici francesi, e per tutta un'estate l'aveva assiduamente praticata; onde molte delle principali tragedie, e quasi tutte le più celebri commedie, mi erano note. Io debbo però dire pel vero, che sì in Torino che in Francia; sì in quel primo viaggio, come nel secondo fattovi due anni e più dopo; non mi cadde mai nell'animo, né in pensiero pure, ch'io volessi o potessi mai scrivere delle composizioni teatrali. Onde io ascoltava le altrui con attenzione sì, ma senza intenzione nessuna; e, ch'è più, senza sentirmi nessunissimo impulso al creare; anzi sul totale mi divertiva assai più la commedia, di quello che mi toccasse la tragedia, ancorché per natura mia fossi tanto più inclinato al pianto che al riso. Riflettendovi poi in appresso, mi parve che l'una delle principali ragioni di questa mia indifferenza per la tragedia, nascesse dall'esservi in quasi tutte le tragedie francesi delle scene intere, e spesso anche degli atti, che dando luogo a personaggi secondari mi raffreddavano la mente ed il cuore assaissimo, allungando senza bisogno d'azione, o per meglio dire interrompendola. Vi si aggiungeva poi, che l'orecchio mio, ancorché io non volessi essere italiano, pur mi serviva ottimamente malgrado mio, e mi avvertiva della noiosa e insulsa uniformità di quel verseggiare a pariglia a pariglia di rime, e i versi a mezzi a mezzi, con tanta trivialità di modi, e sì spiacevole nasalità di suoni; onde, senza ch'io sapessi pur dire il perché, essendo quegli attori eccellenti rispetto ai nostri iniquissimi; essendo le cose da essi recitate per lo più ottime quanto all'affetto, alla condotta, e ai pensieri; io con tutto ciò vi andava provando una freddezza di tempo in tempo, che mi lasciava mal soddisfatto. Le tragedie che mi andavano più a genio, erano la Fedra, l'Alzira, il Maometto, e poche altre.
Oltre il teatro, era anche uno de' miei divertimenti in Marsiglia il bagnarmi quasi ogni sera nel mare. Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori del porto, dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e cosí fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell'onde, io mi passava un'ora di delizie fantasticando; e quivi avrei composto molte poesie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual che si fosse.

Ma tediatomi pure anche del soggiorno di Marsiglia, perché ogni cosa presto tedia gli oziosi; ed incalzato ferocemente dalla frenesia di Parigi; partii verso il 10 d'agosto, e più come fuggitivo che come viaggiatore, andai notte e giorno senza posarmi sino a Lione. Non Aix col suo magnifico e ridente passeggio; non Avignone, già sede papale, e tomba della celebra Laura; non Valchiusa, stanza già sì gran tempo del nostro divino Petrarca; nulla mi potea distornare dall'andar dritto a guisa di saetta in verso Parigi. In Lione la stanchezza mi fece trattenere due notti e un giorno; e ripartitone con lo stesso furore, in meno di tre giorni per la via della Borgogna mi condussi in Parigi.

(Da: Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso)