TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 4 gennaio 2010

Guido Seborga, Conflitti e "sensazioni"


Guido Seborga


Continuiamo il nostro omaggio a Guido Seborga a vent'anni dalla sua morte, riproponendo un suo articolo del 1962 apparso sul quotidiano genovese Il Lavoro nuovo. Perchè Seborga fu anche giornalista importante, autore di inchieste (come quella del 1947 sui clochard torinesi) che fecero scalpore, sempre però restando scrittore raffinato e capace di introspezione profonda. Questo articolo, che si segnala anche per l'omaggio a un allora giovane e sconosciuto Biamonti, scrittore "anche troppo raffinato", ne rappresenta la prova evidente.

Guido Seborga

Conflitti e “sensazioni”

L'educazione dei sentimenti

L'acqua del mare mi attrae come una materia mobile caotica che rompe la noia, ma eccita la fantasia e il corpo inesorabilmente. Quando ero in città a Parigi, a Roma, pensavo sempre al mare, al ritorno ai paesi miei, immaginavo di camminare sul molo del porto, di lasciarmi prendere dal vento del Capo, di starmene sdraiato tra gli scogli e le “caranche”, di prendere una barca, di andare al largo, di nuotare. Ritornato qui la mia vita migliore riprendeva, e nello sforzo sentivo tutto il gusto di esistere in perfetta felicità, l'essere dentro alla materia infida, ostile, che penetra il mio corpo. Inquieto come un ragazzo mi sento sempre giovane; non c'è nessuna ragione perché io non nuoti tanto e come una volta; solo i nervi miei sono più risentiti, sensibili e pericolosi. Remo o nuoto al largo con il gusto di non vedere quasi più la costa, di essere tutto dentro all'acqua. Provo uno sgomento atroce, ma poi anche una gioia senza fine, qui sento e meglio capisco quanto lo spazio sia illimitato, e come infinita indistruttibile la materia. Nel rumore e nella forza dell'onda s'altera tutta la mia natura. Nell'immensità eterna della materia fluida il tempo non ha più senso, Nella distesa blu, solenne e densa, mi pare di poter ancora nascere, di non dover più morire. La mia età non ha più la minima ragione d'essere. Il mio occhio è nudo ed implacabile pieno d'acqua e di luce. Mi sento fresco e in fiamme. Sino a quando può durare la mia tensione, ricca di tutta la vita materiale e caotica di questi mesi pieni di sole di caldo di acqua di cielo?

Le mie ore paiono non avere riposo, non avere sosta, che può condurre al disagio struggente, che mi fu anche troppo noto nella metropoli. Ma questa vita è molto più ricca (eccitante) dell'alcol e di ogni altra evasione, che restano momenti marginali della giornata piena, sfolgoranti sono anche le notti di luna. Amo l'estate perché la vita mi si offre più aperta, più facilmente godibile; per questo d'inverno bevo di più come un compenso artificioso a quello che manca. Ma il vino rossese è sempre presente nella mia giornata che mi diverte. Ora che la stagione comincia ad entrare in fredda agonia penso di sostituire il cognac al whisky gelato. La stagione comincia a morire con la pioggia, e i vicoli, e la grande Aurelia di sera è deserta. Ho ben conosciuto il nero straziante di Genova chiusa e scarna, dal porto fumoso e gobbo. La nebbia di Milano. La solitudine stucchevole e falsamente riservata di Torino. Solo Parigi, e forse un poco anche Roma, sanno spezzare la solitudine e l'inverno. A Parigi i locali, le manifestazioni, la gente varia di tutte le nazioni ed in continuo ricambio, riuscivano a superare un poco la chiusa stagione del grigio e del freddo. La stagione che non ho mai amato. Prediligo il rosso furente delle ore estive sulla costa arida e aspra.

Dovrò partire? Non ne ho voglia. E per dove? Dovrei andare in dieci posti diversi, dove sono stato invitato per via dei miei libri, e non riesco a decidermi. Ora potrei viaggiare abbastanza comodamente e a me ne manca la voglia. Da giovane partivo per il nord e per il sud senza una lira in tasca, partivo con la gioia dell'avventura, e ciò mi permise poi di conoscere tante cose, così superiori all'avventura. Sento già di conoscere forse tutto quello che andrei a vedere a Parigi, Budapest, Praga, Heidelberg; forse solo Cuba mi tenta come forte novità significante al massimo. Ma ora la vita italiana è forse ad una svolta, che profondamente interessa, e sarei troppo insoddisfatto se non potessi seguirla da vicino. Ho in me un libro di critica e di storia di questi anni del dopoguerra, che non ho ancora osato scrivere, ma che spesso mi tenta, quanti miti e misteri da abolire, quanto massimalismo oggi più economico che politico da denunciare, quanto medio ceto fasullo da correggere.... E' possibile che tra una generazione e l'altra si possa comunicare tanto poco? Che ogni uomo nascendo debba rifare sulla sua pelle tanta esperienza e riesca a capire tanto poco il passato nei suoi errori e nelle sue qualità? Un partito oggi per vincere deve indurre al minimo questo grave difetto, l'incomunicabilità o quasi tra una generazione e l'altra.

Con Francesco Biamonti, uno scrittore giovane anche troppo raffinato, ieri sera al caffè abbiamo quasi scritto un piccolo libro, il cui titolo avrebbe potuto essere: Le Turiste. Le due nostre annose esperienze riunite davano dei buoni risultati d'inchiesta giornalistica-narrativa. E le conclusioni, dopo averci descritto reciprocamente molti casi vissuti, furono assai catastrofiche. Risultato: non vale la pena darsi tanto da fare con le turiste. Se trovi una donna eccezionale, lui mi parlava di una francese, io di un'ebrea, la perdi nel giro di pochi giorni, e poi resti male per mesi. Se si tratta delle solite teutoniche possono andare soltanto bene per giovanotti sprovveduti e ancora mancanti di vere amiche. Perciò è meglio non illudersi... Starsene con le italiane. Unica difficoltà, la donna italiana tende ad attaccarsi troppo, ama troppo i calcoli e i programmi, è spontanea in molte faccende, ma poi ci pensa troppo sopra, e perde l'estro. Ma le ponentine e le milanesi si sono rivelate a noi le donne nostre migliori, cioè le più intimamente e profondamente libere.

(Da: Il Lavoro nuovo, 5 ottobre 1962)