TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 15 gennaio 2018

Black marxism. La via nera alla rivoluzione di C.L.R. James



«Non si scherza con la rivoluzione. Marx e Lenin nei Caraibi» di C.L.R James, per ombre corte. Quasi sconosciuto in Italia, James rappresenta una delle voci più importanti del marxismo novecentesco. Ci torneremo.

Miguel Mellino

La via nera al processo di decolonizzazione

La pubblicazione di un testo come Don’t Play with the Revolution di C.L.R James (Non si scherza con la rivoluzione. Marx e Lenin nei Caraibi, ombre corte, cura e introduzione di Gigi Roggero, pp. 133, euro 12) nell’anniversario dei cento anni della Rivoluzione russa è un fatto importante. E questo per una serie di motivi. Innanzitutto, perché, anche se James è stato uno degli esponenti più noti di quello che Cedric Robinson ha chiamato «Black Marxism», in Italia la sua opera resta in buona parte sconosciuta.

DELLA SUA VASTISSIMA, e davvero policroma, produzione, fatta di saggi di critica letteraria, di teoria politica e filosofica, di analisi della cultura commerciale di massa, ma anche di un bellissimo libro sul cricket (Beyond a Boundary, 1963) e perfino di un romanzo (Minty Alley, 1936), solo due testi sono stati tradotti: I Giacobini neri (1938), che resta comunque il suo lavoro più importante, e Marinai, reietti e rinnegati (1953), una formidabile interpretazione di Moby Dick scritta mentre era rinchiuso a Ellis Island come «straniero non desiderato» durante il maccartismo.

Non si scherza con la rivoluzione viene a sopperire in parte questa mancanza. In secondo luogo, perché, anche se si tratta di uno dei suoi scritti meno presenti nel grande dibattito internazionale sulla sua opera, è certamente un testo importante per capire lo sviluppo della sua ricerca teorica e politica. Frutto di alcune lezioni su Marx e Lenin tenute a Montreal tra il 1966 e 1967 per un gruppo di militanti del Caribbean Conference Committe, Don’t Play With Revolution ci consente di mettere bene a fuoco ciò che possiamo chiamare il James «maturo».



Ci consente quindi di afferrare una parte importante del pensiero di James, un’impresa altrimenti non facile, vista la vastità della sua produzione. Infine, perché la sua singolare lettura di Marx e Lenin, e il modo di proporla alle popolazioni dell’Africa e dei Caraibi, alle prese in quegli anni con l’implosione del processo di decolonizzazione, ci mostrano una «via nera» al marxismo un po’ atipica nella tradizione del «Black Marxism», ma anche una concezione del leninismo, pur se del tutto personale e selettiva, oggi affatto scontata.

Non si scherza con la rivoluzione, come tutti i testi di James, non è il frutto di un confronto scolastico con Marx e Lenin. Il suo scopo è un altro, da capire alla luce del suo costante impegno politico, della sua concezione del lavoro intellettuale come «pedagogia militante». Una pedagogia militante, va detto, avulsa da qualsiasi forma di avanguardismo. I suoi grandi testi «storici» non erano destinati soltanto all’angusto mondo della scholarship: nascevano dal suo coinvolgimento con una determinata lotta politica e sono stati concepiti come interventi «tattici» per venire incontro a certe esigenze politiche del momento. The Life of Captain Cipriani (1932), A History of Negro Revolt (1937) e The Black Jacobins (1938) sono stati scritti da James sulla scia dell’immigrazione a Londra (1932) e del suo primo incontro con il trotskismo, ma soprattutto del suo crescente impegno nel movimento politico pan-africanista e nella lotta anticoloniale globale.

    Un comizio di James contro la guerra di Etiopia

JAMES CERCAVA di parlare a quel «presente» portando alla luce diversi esempi di rivolte anticoloniali dei neri, poiché, «l’unico luogo in cui i neri non si ribellano è nei libri scritti dai bianchi». James intendeva così mostrare a neri e caraibici «lo stato delle cose», ma soprattutto ciò che bisognava fare traendo orgoglio e ispirazione politica da queste importanti ribellioni popolari e anticoloniali. Tutto sommato si può sostenere che in questa fase di «ascesa» delle lotte di liberazione nazionale e del movimento pan-africanista, CLR vedeva le masse africane e caraibiche come il principale soggetto rivoluzionario del marxismo. Questa sua visione comincerà ad affievolirsi negli anni successivi, in particolare dal suo primo arrivo negli Stati Uniti nel 1939 (invitato dal Socialist Workers Party), ma soprattutto con la constatazione del fallimento del progetto di emancipazione collettiva incarnato dai movimenti nazionali di decolonizzazione.

Nel 1939 James incontra Trotski in Messico, rimanendo piuttosto deluso dalle sue concezioni «paternalistiche» sul ruolo proletariato nero. James comincia così una revisione del proprio trotskismo, che lo porterà a rompere con il Swp e a elaborare una propria linea, incentrata sulla concezione della necessaria autonomia della classe operaia: la cosiddetta tendenza «Johnson-Forrest».

    James con Raya Dunayevskaja e Grace Lee Boggs

IMPORTANTE in questo percorso autocritico è stato il suo incontro con Raya Dunayevskaja, ex segretaria di Trotski, ma soprattutto una delle principali promotrici di un marxismo umanistico negli Stati Uniti; dalla collaborazione tra i due nasceranno altri testi importanti di James, come Notes on Dialectics (1948). È questo il James di Non si Scherza con la Rivoluzione, un James profondamente influenzato dal Marx dei Manoscritti e che rilegge Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, le pagine del Capitale dedicate alla riduzione della giornata lavorativa e il Lenin di I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotski per rilanciare la lotta di classe come principio politico fondamentale del marxismo, contro ogni oggettivismo ed economicismo, ma soprattutto l’idea dell’autorganizzazione operaia come base della concezione socialista del potere.

LA RILETTURA di James, ancora una volta, è sovradeterminata da quanto stava accadendo nelle ex-colonie, in cui le rivoluzioni anticoloniali non avevano fatto che sostituire il dominio europeo con quello delle élites nazionaliste, eliminando ogni forma di democrazia popolare mediante la concentrazione del potere nel Partito di governo e nello Stato.

Dal Marx del 18 Brumaio, James traeva un’importante lezione di metodo per gli intellettuali militanti impegnati nelle ex colonie: da una parte, suggeriva loro di seguire l’estrema attenzione di Marx per la specificità delle diverse contingenze politiche, la sua esigenza di mettere a nudo i rapporti di forza storicamente concreti come momento essenziale di ogni analisi teorico-politica; dall’altra, proponeva loro un’analogia (non certo priva di limiti storicistici) tra ciò che Marx raccontava sul passaggio da un regime feudale a uno moderno nella Francia post-rivoluzionaria e quanto stava accadendo in molte delle ex colonie: «Marx sembra dire qui che quando un paese coloniale sottosviluppato tenta di trasformarsi in un paese moderno, immediatamente c’è questa enorme concentrazione di potere nelle mani dello stato. È ciò cui ci troviamo di fronte. Non è E. Williams, abbiamo di fronte un processo oggettivo che avviene in qualsiasi circostanza». Attraverso il capitolo sulla riduzione della giornata lavorativa, invece, James ricordava che è solo la lotta di classe a generare mutamenti nel popolo, «a rendere umana e civile la vita degli operai».


ANCORA PIÙ CALZANTE e diretto il riferimento al Lenin critico di Trotski: James seleziona una serie di passaggi in cui Lenin ribadiva che uno stato realmente operaio deve fondarsi sul potere dei soviet, sui sindacati, sulla creazione di istituzioni operaie e contadine di autogoverno e non sulla delega incondizionata del potere da parte degli operai allo Stato o al Partito: «Lenin pensava che anche in una società arretrata, tutte le persone dovessero partecipare nella forma in cui potevano. Dovevano partecipare all’ispezione e al controllo della produzione. Ho mandato una copia di questi passi di Lenin a Nkrumah trentasei anni fa dopo. Non so se li abbia letti. L’ho visto e gliel’ho chiesto, lui dice di non averli ricevuti. Ma anche se li ha letti, non li ha capiti».

James insiste poi sull’organizzazione come elemento chiave del comunismo, ma questa, come insegna Lenin, non può essere pensata come un prodotto meccanico di un certo sviluppo delle forze produttive: va politicamente costruita dalla stessa classe operaia. Il ragionamento di James non è una mera conseguenza del suo storico e viscerale anti-stalinismo e della sua avversione per l’Urss. Si fonda invece su un’osservazione particolare della società industriale dei suoi tempi: secondo James lo sviluppo capitalistico, nei paesi più avanzati, è arrivato a un livello tale che non c’è più bisogno di avanguardie o partito, e meno che mai della delega del potere allo Stato o a una classe dirigente per organizzare un mutamento rivoluzionario della società.

PIÙ AVANZATO è il grado di sviluppo della produzione (industriale) capitalistica, dunque, più possibilità c’è di rompere con qualunque tipo di rappresentanza. Nonostante le diverse prospettive e non secondarie differenze, non è difficile intravvedere qui delle convergenze con il Tronti di Operai e Capitale. Parafrasando Tronti, si potrebbe dire che James avrebbe voluto mandare Nkrumah a Detroit. Il messaggio di James per le popolazioni dell’Africa e dei Caraibi in quella fase storica è certo discutibile, ma chiaro: riprendere la lotta contro i loro governi, non accettare gli stati nazionali nati dalla decolonizzazione, non delegare il potere politico a nessuna rappresentanza, auspicarsi una lenta ma progressiva modernizzazione delle loro società incentrata sulla loro direzione e soprattutto sperare in movimenti rivoluzionari nei paesi avanzati.

LA VISIONE POLITICA del James «maturo» è tutta qui. Come sta qui buona parte del suo «marxismo nero»: anche se forse è il meno nero dei «marxismi neri». Un marxismo-leninismo nero, comunque, che, pur se assai selettivo e parziale, e se si vuole anche permeato da una certa concezione «coloniale» della storia, nel suo richiamo alla specificità delle congiunture, nel suo accento sulla necessità dell’organizzazione politica e dell’autogestione come forma di governo, si presenta sorprendentemente (in)attuale: e come un ottimo antidoto rispetto a certi presunti «comunismi bianchi», poiché capace di ridarci almeno l’estrema dinamicità e storicità del pensiero politico di Lenin. Qualsiasi riferimento a Dardot e Laval è del tutto voluto.


Il manifesto – 12 gennaio 2018