TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 20 gennaio 2018

Cadorna, il macellaio


Mio nonno della guerra combattuta sul Pasubio ricordava soprattutto Cadorna. “Era un boia – diceva – faceva fucilare i soldati per un niente”. Una biografia ne ricostruisce la storia, tentando un'improbabile giustificazione.

Raffaele Liucci

Luigi Cadorna. Il «generalissimo» della sconfitta



«Quale disastro più grande del mio? In dieci giorni io, l’idolo dell’Italia e dell’Europa, si può dire, sono giunto al fondo della miseria». La parabola del piemontese Luigi Cadorna (1850-1928), il «generalissimo» travolto da Caporetto, sembra una metafora dell’esistenza umana, spesso soggetta a crolli fulminei. Lui, il capo di Stato maggiore detentore di un potere pressoché assoluto su oltre due milioni di uomini, costretto a subire l’onta d’una Commissione d’inchiesta! Figlio di un generale che nel 1870 aveva liberato Roma, non riuscirà mai a raggiungere Trieste (conquistata invece dal successore, il napoletano Armando Diaz). Nel nuovo clima di concordia nazionale, il regime fascista lo seppellì con tutti gli onori, dedicandogli strade, piazze e un famedio nella natia Pallanza, ma sarà soltanto un modo per rimuoverlo un po’ più in fretta.

Ancora oggi è difficile fare i conti con una personalità tanto ingombrante, scrive lo storico Marco Mondini: autore non di una biografia in senso stretto, quanto di un affascinante scavo nell’universo mentale e antropologico del «cadornismo», basato sulla riscoperta del vastissimo archivio della Commissione d’inchiesta su Caporetto, ma anche sullo spoglio di molta inesplorata pubblicistica militare del tempo. Soltanto adagiandolo su un più ampio contesto storico è infatti possibile affrancare Cadorna dagli stereotipi apologetici o denigratori.

Mondini non tace le innegabili pecche di un uomo reputato dai suoi critici un «macellaio», reo di aver costretto centinaia di migliaia di fanti a una morte inutile. Però scansa anche ogni lettura anacronistica, come quella di Emilio Lussu, autore di Un anno sull’altipiano, uscito per la prima volta a Parigi nel 1938. Celebrato in molte antologie scolastiche, questo memoir «a forti tinte ideologiche» ha imposto definitivamente nell’immaginario collettivo la vulgata della Grande Guerra sul fronte italiano «come un sadico gioco al massacro da parte di una banda di generali psicopatici».


È vero, scrive Mondini, Cadorna fu l’uomo dei tribunali speciali, delle decimazioni, delle insensate e sanguinose offensive lungo l’Isonzo. Ma Cadorna non sbucava dal nulla. Era «un generale tra altri generali», figlio di una cultura militare ultraconservatrice nella quale i coscritti non erano titolari di «diritti», l’esercito restava un corpo separato e chi assaltava un avamposto con la baionetta godeva di una superiorità morale e tecnica rispetto a chi lo difendeva («vincere significa avanzare»).

Gli Stati Maggiori europei, figli dell’Ottocento, assimileranno con estrema lentezza le novità introdotte dalla guerra industriale di massa novecentesca: le fortificazioni rese pressoché inespugnabili dalla precisione e rapidità delle nuove armi difensive; la necessità di governare un esercito di cittadini-soldati guadagnandosi la fiducia della truppa; l’inevitabile sinergia fra il ceto militare e quello politico.


Cadorna commise l’errore tipico di tutti i personaggi imperiosi: circondarsi di un cerchio magico di fedelissimi. Il che ne rafforzò l’isolamento fisico e culturale. Il capitolo dedicato alla sua «corte feudale», pullulante di vassalli e scudieri, è uno dei più suggestivi del libro. Dispotico, impulsivo, solipsista, il misantropo che si aggira nervosamente fra i corridoi e i saloni dell’aereo Castello di Udine (sede del Comando Supremo italiano) silurando in modo compulsivo centinaia di alti ufficiali «inetti», sembra uscito dalla penna di un Gadda o un Thomas Bernhard.

Tra i consiglieri di Cadorna ci fu anche un altro monarca assoluto, Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera», il quale nutrì per il Capo un «feticismo» che imbarazzava persino i fedelissimi. Ma la presenza di Albertini richiama anche il ruolo ricoperto da altri giornalisti e letterati (Barzini sr, d’Annunzio, Ojetti) nella costruzione del mito di Cadorna, accettato supinamente «da una nazione in cronica penuria di eroi», pronta però incolparlo di ogni rovina, una volta caduto in disgrazia.

Esponente emblematico – «per certi versi persino mediocre» – della sua generazione, Cadorna era un cattolico praticante, fatto inconsueto per un generale formatosi in età liberale e proveniente dall’aristocrazia militare sabauda. Riteneva l’irreligiosità diffusa nelle forze armate un ostacolo al mantenimento della disciplina, «fiamma spirituale della vittoria». Giudicherà sempre Caporetto un’autobiografia della nazione. Tracollo dovuto non agli alti comandi militari, bensì al cedimento morale della truppa, complice la «propaganda disfattista» e pacifista nutrita dai «partiti sovversivi che hanno inquinato l’esercito». Una versione autoassolutoria, ormai smentita dalla storiografia.

Il Sole 24Ore -22 ottobre 2017

Marco Mondini
Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna
il Mulino
€ 26