Rockwell Kent, The Trapper (1925)
Paolo Cognetti, autore
di “Le otto montagne” splendido romanzo filosofico sulla
montagna, dalla sua baita di Brusson scrive una lettera immaginaria a Mario Rigoni Stern, da sempre uno dei suoi riferimenti ideali.
Paolo Cognetti
Il mio inverno
solitario in baita sotto una montagna di neve
Caro Mario, come fiocca.
Facendo i conti, da
Natale in poi, direi che ne è venuta più di un metro, e altrettanta
ne prevedono nei prossimi giorni. Una settimana fa era neve ghiacciata, piccoli
cristalli acuminati spinti qua e là da un vento gelido, di quella
che ti frusta in faccia quando vai per strada; oggi che fa più caldo
viene giù fitta, a fiocchi spessi, e si accumula a vista d'occhio.
Benché io passi parte della mia vita in questa baita a duemila
metri, devo confessarti che non ho un buon rapporto con la neve: mi
fa sentire isolato, rende l'andare in paese difficile o a volte
impossibile, e anche camminare nel bosco è faticoso, quando a ogni
passo affondi fino al ginocchio.
Così resto in casa.
Penso ai selvatici rintanati sotto alle barme. Guardo dalla finestra
gli abeti carichi, hanno spalle di monaci curvi nelle tonache ben
chiuse, e i larici spogli e slanciati che sono fragili creature
estive e a volte si schiantano sotto il peso della neve, e nel
pomeriggio ascolto il rombo delle valanghe. Le valanghe, se tutto va
bene, cadono nei punti che sappiamo, e anzi le aspettiamo quando
nevica tanto e loro non sono ancora cadute: è meglio dopo che prima,
quando sono sospese in bilico sui pendii; è meglio quando ormai
ferme e assestate intasano i canaloni. Le conosciamo così bene che
potremmo dare a ogni valanga un nome. Eppure quel rombo è
angosciante lo stesso: assomiglia a un tuono, o a un crollo fragoroso
sopra la testa. Anche quando sai cos'è, viene istintivo cercare
riparo.
Però, caro Mario, sono
contento per i miei amici che lavorano con la neve. Qui tutti, in un
modo o nell'altro, dipendono da lei, perfino chi d'estate pascola le
mucche e d'inverno vende il formaggio agli sciatori. Erano
preoccupati, in novembre, perché dopo un anno di siccità le vasche
dell'innevamento artificiale erano mezze vuote, e non si sarebbe
potuto sparare a lungo. Ora invece sparare non serve più e il mio
amico cannoniere passa spesso a trovarmi, in sella alla sua
motoslitta, sfaccendato in queste notti in cui il cielo fa il lavoro
al posto suo.
Rockwell Kent, The Matterhorn (1955)
Chi si è beccato gli
straordinari sono i gattisti che la sera incontro al bar e che poi
fanno su e giù fino all'alba, perché gli sciatori all'apertura
degli impianti trovino le piste battute: una passa davanti a casa mia
e così a letto, di notte, vengo investito dai fari della grande
ruspa che passa rombando, e se per caso sono in piedi vado alla
finestra a salutare.
Non è un disturbo, anzi:
così come tutta questa neve mi angoscia, il passaggio di qualche
anima mi fa compagnia. I gattisti poi li conosco, d'estate uno fa il
muratore e l'altro sale in alpeggio con le mucche. Se non fossero in
servizio, li inviterei dentro per un bicchiere.
Da me si beve vino e
niente acqua: dopo un anno senza pioggia non solo le vasche
dell'innevamento sono vuote, ma pure la mia fonte si è prosciugata.
L'acqua nella baita arriva, o meglio arrivava, con il sistema più
semplice del mondo: un tubo che parte da una sorgente un centinaio di
metri più a monte me la portava in casa. Qui di acqua ce n'è sempre
stata, non per niente il nome del villaggio è Fontane, eppure
l'altro giorno ho aperto il rubinetto in cucina e ne è scesa sempre
meno, finché l'ultimo filo incerto ha lasciato il posto al verso
gutturale dei tubi vuoti. Allora ho messo le ciaspole, ho preso la
pala e ho risalito la valletta di Fontane fino al punto in cui si
trova, o dovrebbe trovarsi, la sorgente che dà il nome al villaggio;
ho scavato nella neve e ho scoperto che là sotto era tutto asciutto.
Il mio tubo nero sporgeva triste nel solco del ruscello che,
normalmente, scorre estate e inverno in mezzo al pascolo. Avrei
potuto parlarci dentro e salutare qualcuno nel bagno di casa.
Caro Mario, in dieci anni
di montagna ho imparato che in queste situazioni due cose non bisogna
perdere, la calma e l'ironia. C'è del ridicolo nell'essere sommersi
dalla neve e senza acqua. Mi sono ricordato di quel verso del Vecchio
marinaio in cui il naufrago nell'oceano si lamenta della sete:
"Acqua, acqua dappertutto, e non una goccia da bere!".
Naturalmente ho provato la soluzione più romantica, in un tuo libro
famoso l'hai raccontato spesso, ma ho scoperto che sciogliere la neve
sul fuoco non conviene per nulla: impiega molto tempo, consuma troppo
combustibile, e di una pentola di neve fresca non resta che un terzo
o un quarto d'acqua, che poi nemmeno si può bere. Così mi sono
avventurato giù in paese e ho comprato due taniche da quindici
litri, che ora riempio a una fontana e poi trascino su fino a casa,
caricandomele sulla schiena e pensando ai miei portatori nepalesi di
un paio di mesi fa. Di un'acqua così preziosa si riscopre il valore:
ne basta una tazza per lavarsi i denti, una pentola per lavare i
piatti, un piccolo secchio per lo scarico del bagno. Per fare la
doccia chiederò ospitalità a qualche amico.
Ho un lucernario, sul
tetto, grazie a cui riesco a immaginare che cosa si provi a essere
una creatura che vive sotto la neve, come le arvicole di cui trovo le
tane al disgelo.
Sopra il lucernario un
po' di neve si scioglie per il calore della casa, e io immagino che
succeda lo stesso con il calore del terreno: così, anche sotto uno
strato molto spesso di neve, si formano camere d'aria, bolle dalle
strane forme, gallerie che seguono chissà quali linee del calore. Il
soffitto di neve di queste camere diventa più chiaro, se per qualche
ora il cielo dà tregua e il sole comincia a scaldare, e si arriva
quasi a sperare che presto quel soffitto si buchi, e arrivi
primavera. Ma poi comincia a nevicare di nuovo, il soffitto della
camera si ispessisce, sotto diventa buio. Allora le piccole arvicole
e gli scrittori con il naso in su si rassegnano: sarà ancora lungo
l'inverno.
Caro Mario Rigoni Stern,
è cominciato il 2018 e con questo sono dieci anni che non ci sei
più.
Mi manchi moltissimo.
Vorrei leggere i messaggi dalla tua montagna, quello che pensi
guardando il bosco, quello che scopri ancora alla tua età. Vorrei
leggere degli inverni lontani che la neve ti fa tornare in mente, dei
tuoi sentieri che nasconde alla vista, delle storie che ti racconta
al mattino, rivelando passaggi notturni ai tuoi occhi da cacciatore.
Qui da me viene solo la volpe, ogni tanto, a vedere se nella ciotola
del cane è rimasto qualche avanzo. Dicono che siano tornati i lupi,
io però non li ho ancora visti e non ci tengo, se devo essere
sincero, anche se sono contento per loro. Fuori fiocca, caro Mario, e
io bevo un bicchiere alla tua salute e penso a tutte le cisterne e le
vasche segrete della montagna, alle grotte gorgoglianti, ai torrenti
sotterranei, a quel che c'è prima delle sorgenti: a tutti questi
pozzi che un anno senza pioggia ha lasciato vuoti. Penso che la neve
di oggi sarà l'acqua di domani.
Benedetta neve.
La Repubblica – 5 gennaio 2018