TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 16 gennaio 2018

Donne e rivoluzione. Militanti anarchiche nella rivoluzione russa.


Un libro ricostruisce le storie di un gruppo di militanti anarchiche negli anni infuocati della rivoluzione russa dalla presa del Palazzo d'Inverno fino all'epilogo tragico di Kronstadt.

Giovanna Ferrara

Emma la rossa e le altre, in quel gelido ottobre

È forse nella definizione che Emma Goldman dà di Mollie Stiemer, «dello stesso stampo dei giovani idealisti russi dei tempi dello zar, pronti a sacrificare la vita quando avevano appena iniziata a viverla», che ci è possibile trovare la spiegazione per quella forza biografica che attraversa la storia di un gruppo di donne, quando al sogno del 1905 seguì effettivamente la rivoluzione del 1917 e poi l’inizio di quel terrore culminato nella pazzia stalinista.

DI QUESTE DONNE Lorenzo Pezzica per i tipi di Elèuthera ha ritratto la determinazione, il senso di giustizia sociale e la lotta nel libro Le magnifiche ribelli, 1917-1921 (pp. 195, euro 15), raccolta trasversale di biografie nelle quali solo una tensione mistica per una idea di mondo uguale riesce a spiegare come si sia potuto sopportare tanto senza cedere ma, anzi, rilanciando la propria posizione in quell’emiciclo romantico e struggente che si è sempre chiamato «la parte del torto».

Sono donne che hanno creduto alla presa del palazzo d’inverno abitandone l’evento con slancio totale, avendo avuto la pazienza di tesserlo a partire proprio dalla manifestazione di marzo, otto mesi prima. Operaie e contadine contro cui la polizia decise di non caricare, costruendo cosi il gesto simbolo di quel miracolo che ridisegna una nuova geometria: non più il potere costituito che reprime il malcontento, bensì il malcontento che fa saltare il potere costituito.


FU L’ANNO DECISIVO per portare il treno piombato dritto nei cuori di chi costruiva, da esuli o per le strade di Pietrogrado, l’ipotesi di una vita più degna. La partecipazione a questo processo viene offerto da Pezzica nella forma di una ricerca, in cui le donne raccontano la storia di altre donne, ognuna compenetrata e attratta da quel mettere a soqquadro la propria esistenza di affetti e certezze pur di mantenere seria la postura nei confronti degli ideali che ne hanno ispirato la militanza; dapprima incarnando la trama emozionale degli eventi del 1917 e diventando, poi, tra le più irremovibili voci contro la deriva autoritaria.

Oltre a Goldman incontriamo Ida Mett, Moliie Steimer, Marrjia Spiridonova, Bockareva (combattente a capo del battaglione che mise concretamente in fuga il governo provvisorio Karenskij). Donne che viaggiano negli inverni e nei continenti (alcune dall’America alla Russia passando per la Finlandia e persino per il Giappone), che imparano la durezza delle carceri, gli scioperi della fame, che gridano la loro autonomia fino a quando nel 1921 la rivolta di Kronstdat ne travolge le esistenze che si perdono, dolorosamente, nella risacca con la quale si ritira dalla storia la «rivoluzione del popolo».

    Ida Mett

GUARDARE DALL’ALTO di un centenario l’architettura di queste vite si ha la sensazione di una sorta di martirio. Si impongono domande che fanno paura: esistono delle vite che servono come monito? Ci sono delle esistenze che hanno il compito di raccontare cosa significhi l’irriducibilità di un ideale?

Perché il partito, persino se ha conosciuto la travagliata storia dei confini, il faticoso dispiegarsi di una fratellanza che solo insieme riesce a rovesciare il tavolo degli eventi per sconfessare persino il nazionalismo celebrato con una guerra mondiale, trovando il coraggio di dire che i soldati russi al fronte erano sfruttati proprio come i loro simili sul fronte opposto, ebbene perché questo partito diventa repressione autoritaria del dissenso? Perché sono sempre feroci i dispositivi di neutralizzazione delle voci meno addomesticabili e perché queste voci sono spesso quelle di donne spesso collocate quando non bollate come inadeguate alla comprensione delle ragioni alte e razionali che legittimano la prepotenza del potere?

Queste donne hanno viaggiato, hanno conosciuto la poesia di Victor Serge, sono state bolsceviche e poi anarchiche, hanno fondato circoli e giornali, si sono ammalate e si sono aiutate, hanno subito processi in America (il caso Abrams) perché facevano campagne antimilitariste e in Russia perché facevano campagne sindacali, ci lasciano senza fiato e ci ricordano che «non importa come una rivoluzione vada a finire, l’importante è essere rivoluzionari».


Il manifesto – 3 gennaio 2018