Il primo marzo 1944 gli operai savonesi entravano massicciamente in lotta. Nonostante la durissima repressione lo sciopero riusciva. Centinaia di lavoratori verranno arrestati e deportati in Germania, solo pochi sopravviveranno.
Giorgio Amico
Gli scioperi di marzo e le deportazioni in Germania
Continua, intanto, e si intensifica l'agitazione nelle fabbriche. Nella seconda metà di febbraio in seguito ad uno sciopero vengono arrestati quattro operai della Scarpa & Magnano: Ernesto Miniati, Edoardo Wuillermin, Angelo Canepa e Aldo Manitto. I lavoratori dello stabilimento di Villapiana protestano contro i ritardi della Direzione che non ha ancora pagato gli aumenti salariali strappati con lo sciopero di dicembre.
A dimostrazione dell'importanza che il Partito Comunista attribuisce a Savona che, non va dimenticato, rappresenta uno dei principali centri del triangolo industriale, il 28 febbraio giunge a Savona Giancarlo Pajetta che, assieme a Andrea Gilardi, segretario della Federazione, da una abitazione sita in via Poggi, svolge un instancabile opera di organizzazione e coordinamento dell'ormai prossimo sciopero generale. Uno sciopero, si legge in un notiziario della GNR, «a carattere apparentemente economico ma in effetti politico, di concerto con il movimento partigiano».
Le indicazioni del partito agli operai sono chiare: organizzare la lotta, sabotare la produzione, bloccare le ferrovie, disarticolare la rete di controllo tedesca delle industrie italiane. Nelle fabbriche del Savonese viene capillarmente diffuso il seguente manifesto:
"Lavoratori,
da novembre ci battiamo per assicurare il pane a noi e alle nostre famiglie. Con la nostra combattività e la nostra unità abbiamo strappato agli occupanti tedeschi e fascisti e ai padroni loro alleati, qualche misera concessione e molte promesse. Ma quello che ci è stato formalmente promesso lo si vuole ora negare e le promesse fatte sono già state dimenticate...
Tutto continua peggio di prima. I fascisti e i tedeschi ci vogliono terrorizzare per affamarci. Nelle officine arrestano i nostri migliori compagni, arrestano ovunque i familiari di patrioti. Nelle carceri torturano bestialmente i prigionieri; dei pretesi tribunali ordinano delle fucilazioni in serie e i militi fascisti e le SS tedesche si abbandonano nelle nostre città e nei nostri villaggi a dei massacri di inermi e di innocenti cittadini...
Lavoratori!, Italiani!, dobbiamo avere fiducia nelle nostre forze. Il nemico non è forte: è feroce perchè ha paura e sente arrivare la sua fine. Già vacilla sotto i colpi che riceve su tutti i fronti. Che anche dal fronte interno, che anche da noi, riceva il colpo che lo atterrerà!"
Preparato con estrema attenzione, lo sciopero riesce compattamente anche a Savona. Gia il giorno 2 marzo in un messaggio alla Direzione del PCI Gian Carlo Pajetta segnala il grande successo ottenuto a Savona, tanto più importante considerato che a Genova lo sciopero è fallito, ma anche l’elevato numero degli arresti:
"Da Savona non ci sono notizie dirette. Riuscita totalitaria come si prevedeva. Solo lo stabilimento che aveva scioperato nei giorni scorsi è mancato. I negozi non si sono chiusi e sembra che il CLN all’ultimo momento non abbia marciato. All’Ilva sono entrati i tedeschi, ma lo sciopero è continuato. Anche a Vado sciopero, 40 arresti a Vado e 100 a Savona, secondo le prime notizie."
In effetti il prezzo pagato è alto. Incapaci di impedire lo svolgersi dell’agitazione, tedeschi e fascisti hanno risposto con la repressione più brutale. Alla Brown Boveri di Vado Ligure alcuni operai, considerati promotori dell'agitazione, vengono arrestati. Altri 27 operai vengono arrestati nello stabilimento SAMR, ad essi si aggiungono trenta lavoratori catturati alla Piaggio di Finale, mentre oltre un centinaio saranno i rastrellati all'ILVA di Savona.
Gli arrestati verranno prima trasferiti alla Colonia "Merello" di Spotorno, adibita a campo di concentramento e poi, dopo una sosta a Genova, deportati in Germania. 67 lavoratori, considerati inadatti al rigido regime dei campi di lavoro germanici, verranno direttamente avviati al tristemente noto campo di sterminio di Mauthausen da cui, a guerra finita, solo in otto faranno ritorno a Savona.
Nonostante la brutalità della repressione, lo sciopero generale è un successo. Lo stesso Ministero degli Interni della RSI deve riconoscere in un comunicato che nel savonese gli scioperanti si contano a migliaia. In un lungo articolo su La Nostra Lotta, Luigi Longo esalta il sereno eroismo degli operai savonesi che non si sono piegati alla repressione. Lo riportiamo integralmente:
"A Savona le autorità, a conoscenza della preparazione dello sciopero, avevano fatto affluire in città 300 bersaglieri che, insieme con un forte contingente di tedeschie di fascisti del luogo, iniziarono subito violente rappresaglie contro gli operai, specialmente i giovani.
Alto era lo spirito combattivo delle masse, dimostrato dal fatto che gli operai dell’Ilva, in questi ultimi mesi, dopo lo sciopero di dicembre, per ben tre volte erano riusciti a far sospendere dalla direzione il licenziamento di 1500 operai da inviare in Germania.
Il 1° marzo, gli operai dell’Ilva sono in prima linea ad incrociare le braccia. Nella mattinata, subito dopo l’attuazione dello sciopero, irrompono nello stabilimento due plotoni di tedeschi e molti bersaglieri che, armati di fucile mitragliatore, prelevano a caso dai diversi reparti circa un centinaio di operai e, fattili salire in camion, li portano prima in caserma, poi in questura e infine al campo di concentramento di Spotorno. Il mattino seguente la massa riprendeva il lavoro. Anche alla Servettaz lo sciopero riuscì in pieno il primo giorno, nonostante che anche qui molti operai fossero già stati arrestati e gli altri minacciati con le armi se non riprendevano il lavoro. Tutte le piccole officine di Savona si comportarono benissimo; scioperarono tutto il giorno e non ripresero il lavoro che dopo i grandi stabilimenti.
L’unico grande stabilimento di Savona che non ha partecipato allo sciopero è stato la Scarpa e Magnano. Le maestranze di quest’officina, poco tempo prima, avevano condotto un’agitazione per avere l’indennità di 500 lire in più delle 192 ore promesse dagli industriali. Tale agitazione portò all’arresto di alcuni operai e alla chiusura dello stabilimento per tre giorni. Il giorno 2, a Savona, alla partenza degli arrestati, ha avuto luogo una manifestazione di donne.
A Vado ligure, la mattinata del 1° marzo, alle 8, quasi tutti gli stabilimenti del settore entrano in isciopero, mentre gli altri sospendono il lavoro alle 10. La reazione della polizia fascista ottiene che la Brown-Boveri riprenda il lavoro, ma le altre maestranze restano in isciopero, parte fino a mezzogiorno, parte fino a sera. Si è particolarmente distinto lo stabilimento Materiali Refrattari che, protraendo lo sciopero anche il 2 marzo, veniva chiuso a tempo indeterminato dalle autorità. Alla Siap gli operai preferiscono abbandonare lo stabilimento, piuttosto che cedere alla pressione tedesca. Nell’Ilva Ferro-Rotaie vengono operati 23 arresti di operai, presi a caso. Nella notte fra il 3 e 4 marzo, vari autocarri di cosiddetti bersaglieri fascisti, guidati e informati da elementi traditori del luogo, si recano a Zinola con l’intento di effettuare numerosi arresti. I compagni ricercati tentano di fuggire; alcuni non vi riescono, essendo pressochè bloccate le strade. Nel tentativo di fuga un compagno viene ripetutamente colpito da colpi di moschetto. La sera del 4, egli decedeva all’ospedale: era un ex confinato politico, lascia la moglie e quattro figli.
A Finale Ligure, alle ore 10 del 1° marzo, entra in isciopero compatto lo stabilimento Piaggio. All’irrompere dei carabinieri nello stabilimento, questi sono affrontati con energia e risolutezza da alcuni operai, che rivendicano il diritto allo sciopero per non morire di fame. Dopo varie minacce, i carabinieri procedono ad incolonnare 150 tra operai ed operaie, per portarli fuori dello stabilimento con l’intenzione di incarcerarli; ma l’intervento degli altri operai impedisce questa azione. Lo sciopero continua compatto per tutta la giornata. La sera un manifesto dell’autorità tedesca anticipa il coprifuoco alle ore 19."
Lo sciopero generale, a cui partecipa quasi un milione di lavoratori in tutta l’Italia del Nord, costituisce tra l’altro la risposta degli operai alla legge sulla socializzazione delle imprese del 12 febbraio con cui Mussolini aveva tentato di recuperare consenso fra i lavoratori. La riuscita straordinaria dello sciopero, il fatto che, pur preavvertite, le autorità non siano state in grado di impedirlo, dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che le maestranze delle fabbriche del Nord non credono più alle promesse dei fascisti e che la propaganda del regime non ha più la minima presa su di loro. Anche a Salò c’è chi lo ammette senza reticenze. È il caso di uno dei capi del sindacalismo repubblichino che in una lucida (e coraggiosa) lettera a Mussolini descrive con estremo realismo lo stato d’animo delle masse e al contempo delinea i tratti contradditori di quella che sarà la politica comunista del dopo-liberazione:
"Le masse ripudiano di ricevere alcunchè da noi. […]La massa ragiona, anzi sragiona in un modo assai strano. Addossa al fascismo ed a noi il tracollo sul campo di battaglia, l’alleanza con la Germania che reputa funesta, l’invasione del territorio nazionale, la perdita dei possedimenti coloniali (dimenticando che l’Impero era stato creato da Voi); la distruzione delle città, i lutti sparsi dovunque copiosamente. Insomma, la massa dice che tutto il male che abbiamo fatto al popolo italiano dal 1940 ad oggi supera il gran bene elargitole nei precedenti venti anni, ed attende dal compagno Togliatti, che oggi pontifica da Roma in nome di Stalin, la creazione di un nuovo paese di Bengodi, nel quale, accanto ad un comunismo annacquato, cioè mediterraneo, direi quasi solare, dovrebbe soppravvivere una democrazia di marca anglo-sassone, pronta ad agire ed a frenare il prevalere delle ideologie che vengono da Oriente."
Come già a dicembre, anche in questa occasione la vendetta dell'occupante non si farà attendere. Il 15 aprile, in risposta al ferimento di un soldato tedesco avvenuto qualche giorno prima, tredici antifascisti prigionieri vengono condotti sul promontorio di Valloria e lì falciati a raffiche di mitra. Cadono così Attilio Sanvenero, Matteo De Salvo, Paolo Attilio Antonini, Edoardo Gatti, Francesco Falco, Pietro Salvo, Lorenzo Baldo, Nello Bovani, Mario Gaggero, Giuseppe Rambaldi, Aldo Tambuscio, Giuseppe Casalini, Angelo Galli. Per terrorizzare la popolazione per 22 giorni le salme restano insepolte, nonostante le accorate richieste delle famiglie e gli appelli del Vescovo di Savona. L’eccidio di Valloria avrà un seguito giudiziario nel primo dopoguerra. Il 3 ottobre 1946 un avvocato indirizza al Sindaco di Savona un dettagliato promemoria sull’accaduto chiedendo l’apertura di un’inchiesta e l’individuazione dei responsabili. Ma, come per le altre stragi compiute dai tedeschi, tutto verrà insabbiato. Due mesi più tardi il comandante dei carabinieri di Savona risponde con una nota di poche righe che «nessun elemento utile è stato raccolto» e l’inchiesta viene chiusa. In quel momento le sinistre sono ancora al governo e il comunista Fausto Gullo è ministro della giustizia.
(Da: Giorgio Amico, Operai e comunisti, La Giovane Talpa, Milano 2005)