Sarà che ci siamo nati o forse il fatto che sia stato il primo paesaggio a riempirci lo sguardo e a darci l'idea di mondo, ma il ponente ligure rappresenta il nostro luogo dell'anima in cui ogni tanto andiamo a perderci per poterci ritrovare. Leggere Lanteri è per noi come passeggiare sul molo lungo del porto di Oneglia o sotto la loggia delle monache a Porto Maurizio, un viaggio nelle nostre radici.
"La conca del tempo" di Elio Lanteri
"La conca del tempo", edito con una prefazione di Bruno Quaranta e una postfazione di Marino Magliani, era il romanzo cui Elio Lanteri stava lavorando quando è mancato, nel 2010.
La storia
In una caletta chiusa da tre lati e aperta sul mare, quattro personaggi vivono dei ricordi della loro vita passata nelle viscere della natura aspra: quella Liguria di Ponente già protagonista de La ballata della piccola piazza e che ancora una volta non si limita a fare da sfondo, ma è elemento essenziale del racconto.
Damìn, Viturìn, Bellagioia, Rosy, Badulìn e gli altri personaggi gravitano intorno a un ecosistema apparentemente immobile ma in cui sono proprio i minimi movimenti, i tempi infinitesimi della natura, a dettare il ritmo dell’esistenza.
E proprio gli elementi naturali – una cornacchia, un vecchio ponte – parlano e pensano per ripercorrere in vesti nuove la leggenda di un nuovo Sisifo e del suo destino, non imposto da una divinità ma scelto consapevolmente.
Perché Damìn ogni giorno risale verso la vecchia casa sulla scogliera? Quale scelta lo condanna, quale dolore lo tiene vivo?
Un racconto che respira tra la danza leggera delle foglie d’autunno e il mare in miniatura che, di notte, culla i sogni fantasiosi di una gioventù lontana.
Le prime pagine
Le prime pagine
Un mattino di fine settembre nella conca riappaiono i fenicotteri. Con ampi giri, lenti, sfruttano l’aria ascensionale, sempre più in alto, senza muovere le ali, finché, minuscoli, puntano il vasto mare.
«Damìn, i fenicotteri» grida dall’affasciato di limoni Bellagioia.
Damìn apre la persiana della sua stanza, davanti a lui il muro di rocce di Grimaldi, i fenicotteri in alto, pronti a spiccare il salto verso l’Africa.
«Arrivo» risponde Damìn e corre incontro a Bellagioia.
«I nostri antenati tutti gli autunni passano a salutare noi che siamo rimasti qui e abbiamo perso le ali» dice commosso Bellagioia.
Il salto della conca: due promontori rocciosi ai lati, scivolati dal Grammondo come dinosauri pietrificati, lambiscono il vecchio ponte, umile, a una sola arcata, circondato da schegge di roccia, ginestre e arastre.
La conca è chiusa e non la scuote il tempo, solo verso il mare la cala apre una finestra e nelle notti calde penetra una leggera brezza.
La casa-trattoria di Bellagioia: la scritta “Zimmer” sopra la porta d’entrata, tre stanze d’affitto, in estate, e sul retro un bar con una grande vetrata, una scalinata in legno scende tra gli scogli della cala.
Damìn viveva in una di quelle stanze, un letto stretto di ferro contro la parete bianca, due finestre ai lati, una di fronte all’altra, a destra verso la roccia, l’altra a trenta metri dalla cala di Mamante.
«È ancora presto, Bellagioia, aspettano che la conca si riscaldi» dice Damìn a Bellagioia. «Sono arrivati all’improvviso, salendo al casone» dà un grido a Badulìn.
«Ben, ci vediamo stasera.»
Risalire il sentiero, tra le rocce, sempre più lento, da tempo gli premeva forte in petto il cuore, raggiungere il casone, sotto la Balma grande, udire che sussurra con malinconia l’ansimare del mare.
Damìn risaliva lentamente, scartando con cura la rada erba che spuntava tra i massi, dandosi una spinta con le spalle e muovendo la testa in avanti come fanno i gabbiani.
«Sono come Sisifo» sorridendo tra sé ripeteva, «sempre lo stesso percorso, per lui una condanna, per me una libera scelta.»
Alla curva alta del sentiero la stradina si addolcisce e scorre quasi piana, solo pochi passi e si giunge al casone…quando udì un fruscìo leggero nell’erba sotto il carrubo: era la grossa serpe che si allontanava dagli intrusi.
Si sedette stanco sulla pietra piana, calò leggermente la casquette sulla fronte, rimase alcuni istanti immobile, poi raddrizzò la schiena, liberò gli occhi e fissò in basso il mondo della conca.
Tutto era immobile, silenziosa la cala, la barca e la casa di Bellagioia; nell’affasciato di Badulìn bruciavano dei rovi, dalla sterpaglia umida risaliva pigramente una spirale di fumo. Pareva il fumo che mandano i naufraghi esausti, senza più forza, disperato, rimaneva sospeso in aria e non superava le rocce, quasi una bolla bianca, una mongolfiera sgonfia.
Elio Lanteri, classe 1929, era nato a Dolceacqua (Imperia) ed è scomparso nell'amata Liguria (Oneglia) nel 2010. Amico di Biamonti, profondo conoscitore di Seborga, di René Char, di Rulfo, di García Lorca, aveva esordito, dopo un riserbo durato vent'anni, con La ballata della piccola piazza (Transeuropa 2009), con cui nel 2010 aveva vinto il premio Biamonti e ricevuto la menzione speciale al premio Città di Cuneo.
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