Domenica 30 settembre al Monastero di San Pietro in Lamosa a Provaglio d'Iseo (BS) si svolgerà una giornata di approfondimento sulla figura di Francesco Biamonti nel contesto di una più complessiva riflessione sulla poesia, musica e cultura ligure del Novecento. Un luogo bellissimo per un'iniziativa di grande spessore.
Marco
Ciriello
Biamonti
e il vento largo verso il mare
La
Francia è oltre la valle. A uno sbuffo di vento. Stesso cielo. Mondo
diverso. Se sai ascoltare si vede già, come la Shanghai che scorgeva
Paolo Conte guardando a orecchio in fondo ai viali di Vienna. È una
questione di musica, atmosfere, sensazioni. Passaggi e passaggi di
genti. Un solo salto. Per andare a star bene. Salvarsi. Dire addio a
errori e malefatte. Vite sbagliate, delitti. Senti la scia della
fuga. La libertà nei campi. Scontri, sangue e amicizie che stanno
intorno. Respiri trattenuti. Attese di luna. Inganni e amori. Uomini
che si sbarbano alle fontane per strada. E gambe di donne da guardare
e riguardare. Naviganti in fuga. Stranieri in marcia. Fuggiaschi e
turisti. Pescatori e contadini. Malviventi che si giocano l’ultima
carta. Passeur e migranti. Belle di giorno che tentato la svolta.
Ville, palme e lingue che si mescolano. Prima del passaggio c’è il
peccato da commettere, consumare, bruciare. Per ogni notte che cala
c’è un copione da rispettare.
E se ti va male puoi
sempre scappare a Marsiglia, prigioniera del mare che le sta tra le
viscere. Terra di confine e svolte: la Liguria. Terrazza del nord sul
mare. Attese ed evasioni. Una cerniera. Pazienza e passione. Lenta
costruzione e corse per dimenticare. Una bandiera di terra e colori
differenti. Abitudini e costumi. I paesi dell’entroterra sono scale
di terrazzi. Quelli sul mare: grovigli d’hotel. Entrambi hanno
scavato per sopravvivere. Si sono dovuti conquistare la permanenza. I
primi per farci stare gli ulivi, gli altri per creare alloggi.
Mettere e levare. Ridisporre, inventarsi, costruire e coltivare. Due
modi diversi di allungarsi al domani. Il mare infrange e la montagna
assolve. L’interno è protervo, felice della sua incolumità. Case
e coltivazioni si contendono lo spazio in bilico sul vuoto. Chi si
affaccia sul mare, invece, guarda avanti, sempre alla prossima
stagione, al trucco, al nuovo tratto da concedere. Tira su palazzi e
ragiona, solo, sul come stiparci la gente per l’estate che verrà.
Gli altri, quelli di
terra, stanno lì a curar fiori e difendere alberi. Sono diversi. «Vi
sono due Ligurie... una costiera, con traffici di droga, invasa e
massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di
Castiglia ancora austera; io sto sul confine». Tutta qui la
differenza. Coppia a incastro. Chissà fino a quando funzionerà. San
Biagio della Cima (Imperia) è una cascata di case che dal monte
scende a gonfiare la valle. E di fianco nastri su nastri di terra,
intervallati da muri a secco. In mezzo costruzioni alte, snelle, dai
colori pastello. E sotto i carruggi: passaggi fra case. Cunicoli da
talpe. Un sali e scendi di valli, imbuti, costruite su un fianco o su
entrambi. In testa i paesi e sotto le strade e le serre. O arroccati
a picco sulla valle o distribuiti lungo la costa montuosa, c’è
poco da scegliere, le linee impervie liguri questo concedono, ai
paesi non resta che adeguarsi. Rocce che fanno da pareti ai torrenti.
Il paesaggio è arido. Scosceso. O trovi un piano e ti arrocchi come
Apricale, oppure scavi, tentenni, terrazzi, ci provi e ti sistemi
lungo la linea che da monte scende a valle come San Biagio. Una curva
di tetti e finestre che scivola giù in una pozza: cemento, pietre,
asfalto, morendo sulla strada: tortuosa, quasi sempre.
A valle di San Biagio sta
la casa di Francesco Biamonti. Un vero grande scrittore. Uomo pieno
di malinconia e umorismo. Una barca fra questi due mari. Uno di
quelli che incontri e ti accende la vita. Svolti, diventi un altro.
Silenzioso, riservato, reticente. «Sono asociale ma socievole, mi
piace meditare un po’ ecco». La sua scrittura è un esperimento
singolare. Leggerezza che sembra disfarsi sotto i colpi della
lettura. Né eredi né allievi. Puoi leggerlo, compiacerti, ma se non
hai radici, sguardo, e soprattutto se non ti sei perso in queste
valli o arrampicato fra gli ulivi, non vedi, né scrivi.
Erminio Ferrari ne ha
fatto un personaggio di un bel romanzo, così è diventato Fransè
(Casagrande editore), ma le sue notti chiuse in fitte e leggere
costruzioni sono inimitabili. Meccanica per parole. Poche invidiabili
parole. Nate da una sottrazione paziente. Scarni fogli. Frasi secche,
opportune, mai fastose. Una scrittura pulita come ossa. Passata al
setaccio. Depurata. Vista e rivista. Un duro esercizio di rinuncia.
Sapiente taglio del superficiale. Occhio. Respiro. Ritmo. Pagine
precise. Masticate, meditate, a lungo. Dialoghi asciutti. Descrizioni
minuziose di un rigo solo. Cielo, mare, luce, natura. Prima di lui il
paesaggio ligure era Ossi di seppia di Montale, i versi del Caproni
genovese, Biamonti li affianca e non solo, offre anche una lingua
nuova. Lirica sì, ma condensata di silenzi, omissioni. Giocata sul
non detto. Spazi da guadagnare. Scorgere. Cercare. Il suo mare è
contraltare al cielo, da meritare. Ricordo lontano. I suoi personaggi
si muovono fra rocce e arbusti da lasciarsi alle spalle, perlopiù.
Stanno in equilibrio sul confine. La loro è attesa prima della vita
nuova. Occasione, ultima. Pronti anche a cadere. Perdere, scomparire.
Corse in salita. Su strade rubate al cielo.
Passi come quello «della
morte» da superare. Natura che evolve. Maniacale attenzione al
variare di questi segni: alberi, foglie, fiori. Muto stupore da
cogliere. Serbare, portarsi dietro. Lo stesso che albeggia negli
occhi, velati da una montatura d’osso, di Giancarlo Biamonti, il
fratello. Un giardino di viti lo separa dall’abitazione che fu
dello scrittore. Una casa regolare, bassa, spartana, in pietra. A
sinistra la scuola gialla, intono: un timo, un cedro del libano e un
limone. Sopra c’è il paese di San Biagio.
Giancarlo Biamonti
somiglia tantissimo a Fransè, anche nella dolcezza dei modi.
Pensionato che si è gettato a capo fitto nella cura della campagna,
per anni ha viaggiato. Prima facendo la spola dalla Somalia
all’Italia, commerciava banane, e la sua nave aveva un nome
magnifico, FrigoAfrica, un ossimoro. «Il ricordo più bello? Stare
per ore sul fiume Giuba in attesa, per vedere gli animali venire a
bere, mentre il giorno si spegneva». Poi in giro per il mondo come
delegato di una società di gasdotti. Tutto per tornare qui. Di
nuovo. Felice. Il motivo lo andiamo a vedere insieme. «Cian de Cui»
il luogo di Biamonti. Un meraviglioso pezzo di terra sotto la roccia
di Santa Croce, sì, quella de L’angelo di Avrigue. Dietro ci sono
la val Nervia, poi la val Roja e dopo la Francia. È questo lo sfondo
dei romanzi. Solo che Biamonti ha accorciato le distanze. Ma lui
aveva geografia e nomi immaginifici, sporcati appena dalla realtà.
Qui veniva a vedere,
prendere, riflettere. Un piccolo bosco. Dal quale si domina la valle,
e non basta la vista a farne un posto da non lasciare più. Intorno
ci sono ulivi colossali, biforcati, incantevoli, solenni,
ultracentenari. Frondosi, larghi, barocchi vanno in alto, si fanno
largo, salgono al cielo, e sotto hanno radici che gradasse imperiose,
escono. «Sono piante minerarie» diceva a Giulio Einaudi, mentre
l’editore abbracciava gli alberi come un bimbo. «Che ne sarà un
giorno dei miei ulivi con la loro purezza francescana? Dei loro
licheni, delle loro muffe? Lavorano notte e giorno, sotto il sole e
sotto le stelle per aggiogare la terra al cielo». E poi mimose che
spuntano da vecchi muri a secco di pietre gialle e marroni e tane di
tassi che bucano i ciglioni. E cipressi, pini, sorbi, limoni, fichi,
in disordine solo apparente. Qua e là c'è qualche palma - un vezzo
- di cui il fratello quasi si scusa. In fondo invece c'è un nespolo,
solitario, aguzzo, di una bellezza aristocratica. È lui a
congedarci. Torniamo alla casa Biamonti dove c’è l’associazione
e il segretario tuttofare: Gian Luca Picconi, giovanissimo
insegnante, con lui anche Federica Cappelletti, una persona molto
cara a Fransè: occhi azzurri, profondi, languidi, una bellezza che
con gli anni ha cambiato forma ma non l’ha lasciata, donna di
fascino, insegnante, che ci porta nello studio dello scrittore, ma
non riesce a dirci nulla e a noi basta il suo sguardo, la sua
commozione.
Il presidente
dell’associazione sta a Bordighera, è un libraio: Corrado Ramella.
«È un’assenza che pesa, quella di Francesco, che il tempo non
attenua ma appesantisce». Giovane, colto, ha una piccola ma
fornitissima libreria in una piazzetta del paese. In questo posto
Biamonti passeggiava spesso di notte con lui e con altri amici. Fra
lo sfarzo delle ville liberty, che hanno giardini invidiabili, ora
blindati da grossi muri, da cui emergono solo svolazzanti palme che
il vento arruffa. Trent’anni fa dovevano essere meravigliose.
Passeggiarci di notte, poi a maggio, era un’esperienza.
Spesso con lui c’era
Giorgio Loreti, ferroviere in pensione, fulminato da Fransè quando
lavorava alla biblioteca Aprosiana di Ventimiglia. «Correva voce che
ci fosse questo bibliotecario coltissimo che aiutava studenti e
consigliava libri stupendi». Ha un episodio per domanda. Forbito,
acuto, riparte: «Sull’Aurelia, dove adesso ci sono palazzoni, si
coltivavano carciofi, andavamo a cercare di notte i canti degli
uccelli, pensi un po’». Negli ultimi tempi era lui che portava in
giro Biamonti, dall’entroterra al mare, un richiamo: «Sembrava
riempirsi gli occhi del paesaggio. Stava ore a guardarselo». Da qui
si sente il mare respirare, muoversi lentamente. Delicato entrare fra
le nostre parole. Dolore, letizia, delirio. A lui sarebbe piaciuta
questa forzata intromissione.
(Da "Il mattino"
del 5 giugno 2005)