Armida Lavagna
"Gli amori folli", l'ultimo grande film di Alain Resnais
Alle soglie dei novant’anni, Resnais ci mette di fronte un film anomalo, quasi disturbante mentre lo si guarda. Il titolo, nell’ingannevole traduzione italiana, spinge lo spettatore ad aspettarsi la storia romantica di un amore travolgente, l’ennesima.
Ci si trova invece di fronte ad uno spettacolo surreale, a una commedia nera, o a un noir comico, dove diversi stili narrativi sembrano prendersi gioco l’uno dell’altro. Un film che è innanzitutto una sconfitta.
Protagonista della prima sequenza è un paio di scarpe, in mezzo ad altri innumerevoli simili dissimili scarpe, in ripetizione ossessiva, come saranno dopo gli orologi e il loro ticchettio. Entriamo in un negozio cercando calzature di un certo colore, di un certo modello, e che siano comode. Ma perché tutto combaci è necessario scendere a compromessi. Scendiamo a compromessi, e per lo più acquistiamo le scarpe comode. Usando la ragione, che ci dissuade dall’acquistare la scarpa che tanto ci ha colpito ma che misurata troviamo scomoda, così come ci dissuade dall’osare, ci dissuade dal gridare “affogo”. Due compiti ha la ragione: dissuaderci dal commettere azioni giudicabili come insensate quando agiamo, e spingerci a operare collegamenti logici quando guardiamo un film, leggiamo un libro, seguiamo una storia.
Questo film è dunque una sconfitta per la ragione. Dei personaggi e degli spettatori.
Questo film è dunque una sconfitta per la ragione. Dei personaggi e degli spettatori.
Una sconfitta della ragione per gli spettatori, che si trovano in mano tracce per decifrare un comportamento, per comprendere una scelta, per motivare uno stato d’animo, e poi se le vedono sottratte, scartate dal burattinaio che si diverte a farci balenare davanti agli occhi la possibilità di spiegare la follia, per poi negarcela, per impedirci di eliminarla, per lasciare tale l’aporia. Ci impedisce di strappare le erbacce.
Una sconfitta della ragione per i personaggi, che ad essa abdicano per amore o per forza, per l’arcana necessità di seguire la danza bizzarra che ha assegnato loro la sorte, prima spaventati dal doverlo fare, poi irresistibilmente attratti da essa, tanto che l’incontro o l’oggetto che sentono epifania di quel destino si fa pensiero fisso, appuntamento irrinunciabile, scelta ineludibile.
“Quando sarò un gatto, mangerò croccantini?”
Solo ai bambini è concesso spingere l’immaginazione fino all’impossibile senza percepirlo come tale, senza domandarsi se sono folli, senza essere giudicati folli. A quella domanda innocente, ridiamo, tutti, provando tenerezza per quella inconsapevole e incolpevole fantasia.
Tra gli adulti, è concesso solo ai folli, o folli sono considerati coloro che osano farlo.
“Dunque mi ami?” sulle labbra di George non è domanda tanto dissimile dalla precedente, non fosse che è posta da un adulto. Tutto può accadere fuori da un cinema, tutto può accadere dopo l’immersione in un volo della fantasia, anche di dimenticarsi il confine tra essa e la realtà, perdendolo irrimediabilmente.
I piccoli semi di follia caduti nelle minuscole crepe di un asfalto trascurato sono diventati fili d’erba sottili ma tenaci, capaci di fendere una strada, di aprire squarci immedicabili, di regalare tanto improvvise gioie che riempono la vita, quanto tragedie assurde che la concludono.
Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.