La sinistra comunista ha ancora un ruolo da svolgere? Decisamente si, risponde Paolo Ferrero. Anche perchè la crisi che scuote l'economia globalizzata dimostra il fallimento delle idee liberiste.
Giorgio Amico
Quel che il futuro dirà di noi, ovvero come uscire dal capitalismo in crisi e dalla dittatura del pensiero unico
Cosa succede quando si assume il punto di vista dell'avversario? Quando non si fa nulla per contrastare quella che Gramsci avrebbe definito “l'egemonia” culturale prima che politica delle classi dominanti? A questa domanda risponde il libro di Paolo Ferrero, “Quel che il futuro dirà di noi”,appena uscito per DeriveApprodi, presentando l'immagine impietosa di una sinistra più che sconfitta quasi dissolta, smarrita, priva di identità, del tutto incapace di ridefinire una prospettiva strategica di lungo periodo.
Ma Ferrero non si limita a delineare i contorni di una crisi che è sotto gli occhi di tutti, ma ripercorre quarant'anni di storia italiana a partire dalle grandi lotte operaie e studentesche del biennio 68-69, passando attraverso la sconfitta del 1980 alla FIAT, vera e propria “catastrofe operaia” che muta radicalmente i rapporti di forza fra le classi, la restaurazione moderata, prima craxiana e, dopo tangentopoli e la fine della prima repubblica, berlusconiana, per arrivare alla fase del liberismo trionfante di quest'ultimo decennio e infine alla crisi attuale. Un viaggio effettuato all'interno di una sinistra incapace nel suo principale partito, il PCI, prima di dare risposte alle aspettative di cambiamento suscitate dai grandi movimenti degli anni '70, e poi, dopo lo scioglimento di questo, sempre più subalterna nelle sue successive mutazioni (PDS-DS-PD) ad una destra rampante e aggressiva che troppo semplicisticamente si è voluta ridurre all'impero televisivo berlusconiano. Una sinistra che su tutti i temi di fondo (guerra, privatizzazioni, precarizzazione crescente del lavoro, riforme istituzionali) si è rivelata balbettante, incerta tanto da aprire la strada all'offensiva sistematica e eversiva della destra.
Ma che ruolo ha avuto Rifondazione comunista in questa crisi che pare inarrestabile della sinistra? Non solo, ci dice Ferrero, il PRC non è riuscito ad incidere sulle contraddizioni del centro-sinistra, ma è stata travolto dalla sua sconfitta pagandone il prezzo più alto e rischiando di scomparire oltre che dal parlamento anche dalla scena politica italiana. La decisione di governare con Prodi, pur essendo chiaro fin da subito come in nessun modo fosse possibile condizionarne le scelte, l'aver alimentato tra i lavoratori e i giovani aspettative che non potevano essere realizzate, ha fatto si che proprio Rifondazione venisse, molto più che il PD, travolta dall'onda di ritorno dell'astensionismo e della disaffezione dalla politica di strati crescenti di lavoratori e di giovani condannati ad un eterno precariato e ad una marginalità senza più sbocchi. Al di là di singoli episodi o di errori contingenti era dunque la linea politica complessiva a essere sbagliata. “Una linea -riconosce Ferrero con estrema onestà - che aveva prodotto una situazione ingestibile” politicamente, qualsiasi scelta si fosse comunque fatta. Una situazione drammatica, tale da provocare una spaccatura verticale nel Partito e l'uscita non solo della minoranza trotskista (Turigliatto), ma anche di larga parte del gruppo dirigente bertinottiano (Vendola) che quelle scelte aveva imposto anche a costo di forzature non certo indolori.
Nel suo libro Paolo Ferrero si interroga dunque senza autocensure sul passato del suo partito e della sinistra, e già questo renderebbe “Quel che il futuro dirà di noi” una lettura consigliabile a tutti coloro (militanti e non) che si domandano come sia stato possibile giungere a questo presente così torbido e carico di pericoli, a questa passività diffusa che pare essere il carattere predominante dell'attuale quadro sociale. Certo, il segretario del PRC non è solo in questa opera necessaria di chiarimento politico e storico, basti pensare agli altrettanto recenti “Il sarto di Ulm” di Lucio Magri e a “La rifondazione mancata” di Salvatore Cannavò, opere di diverso spessore e orientamento, ma che cercano entrambe di stabilire un bilancio della sconfitta. La differenza, positiva nel nostro caso, sta che Ferrero non si limita ad analizzare il passato (vedi Magri) e tanto meno, come invece volentieri fa Cannavò, a distribuire torti e ragioni dall'alto di una presunta superiore “chiarezza” politica o storica, ma nella seconda parte del libro prospetta una possibile via d'uscita da questa situazione di frantumazione di impotenza. Anche qui si parte da un'analisi puntuale del presente, andando a investigare in profondità cause e manifestazioni contingenti della crisi profonda del sistema capitalistico mondiale e del caso italiano in particolare. Un'analisi, ovviamente, non fine a se stessa, né slegata dalla realtà del tracollo della sinistra, ma ad essa strettamente interconnessa soprattutto per quanto attiene la frantumazione del quadro sociale, la scomparsa della capacità di trasformazione collettiva, l'atomizzazione di massa.
“Siamo diventati – scrive Ferrero in uno dei passaggi più convincenti del suo discorso – tutti individui tendenzialmente solitari, chiusi alle influenze altrui, consumatori sordi.... E quando si rimane soli, all'interno di un sistema così articolato da risultare incomprensibile, l'unica via di salvezza appare per l'appunto affidarsi a chi il potere, per qualche motivo, già ce l'ha”.
E' proprio questa passività di massa, questa atomizzazione crescente, sintomi evidentissimi della barbarie avanzante, della logica del tutti contro tutti, che alimenta la crisi della politica e il rifugiarsi anche a sinistra in un populismo tanto gridato quanto incapace di produrre effetti positivi, di invertire la tendenza. Un populismo, “malattia senile” di questa Seconda Repubblica fondata sul bipolarismo, che può solo aprire ulteriori spazi alla destra berlusconiana e leghista.
Per riprendere il cammino della trasformazione occorre dunque prima di tutto uscire dalla sindrome della sconfitta, non volgendosi all'indietro per cercare di recuperare spezzoni del passato, ma cercando in questo presente così difficile, dove il capitale è riuscito a frantumare l'unità della classe operaia e a intaccarne profondamente la stessa coscienza di se, su quali puntiforza potere fare leva per riprendere un filo che nonostante tutte le contraddizioni e le difficoltà non appare del tutto spezzato. Un percorso che passa prima di tutto attraverso la ritessitura sul territorio e nella classe di quelle relazioni sociali che sole possono costituire la base fondante di qualunque progetto di ricostruzione di un soggetto politico capace di pensare la trasformazione senza cedimenti all'ideologia dominante. Uscire dal pensiero unico, dunque, come premessa necessaria di ogni futura battaglia per l'egemonia, contro ogni illusione “sviluppista”, privilegiando sempre il valore d'uso sul valore di scambio nella prospettiva non facile né di breve periodo della ricomposizione della classe come comunità di donne e uomini consapevoli dei propri diritti e delle proprie potenzialità di cambiamento.
Giorgio Amico
Quel che il futuro dirà di noi, ovvero come uscire dal capitalismo in crisi e dalla dittatura del pensiero unico
Cosa succede quando si assume il punto di vista dell'avversario? Quando non si fa nulla per contrastare quella che Gramsci avrebbe definito “l'egemonia” culturale prima che politica delle classi dominanti? A questa domanda risponde il libro di Paolo Ferrero, “Quel che il futuro dirà di noi”,appena uscito per DeriveApprodi, presentando l'immagine impietosa di una sinistra più che sconfitta quasi dissolta, smarrita, priva di identità, del tutto incapace di ridefinire una prospettiva strategica di lungo periodo.
Ma Ferrero non si limita a delineare i contorni di una crisi che è sotto gli occhi di tutti, ma ripercorre quarant'anni di storia italiana a partire dalle grandi lotte operaie e studentesche del biennio 68-69, passando attraverso la sconfitta del 1980 alla FIAT, vera e propria “catastrofe operaia” che muta radicalmente i rapporti di forza fra le classi, la restaurazione moderata, prima craxiana e, dopo tangentopoli e la fine della prima repubblica, berlusconiana, per arrivare alla fase del liberismo trionfante di quest'ultimo decennio e infine alla crisi attuale. Un viaggio effettuato all'interno di una sinistra incapace nel suo principale partito, il PCI, prima di dare risposte alle aspettative di cambiamento suscitate dai grandi movimenti degli anni '70, e poi, dopo lo scioglimento di questo, sempre più subalterna nelle sue successive mutazioni (PDS-DS-PD) ad una destra rampante e aggressiva che troppo semplicisticamente si è voluta ridurre all'impero televisivo berlusconiano. Una sinistra che su tutti i temi di fondo (guerra, privatizzazioni, precarizzazione crescente del lavoro, riforme istituzionali) si è rivelata balbettante, incerta tanto da aprire la strada all'offensiva sistematica e eversiva della destra.
Ma che ruolo ha avuto Rifondazione comunista in questa crisi che pare inarrestabile della sinistra? Non solo, ci dice Ferrero, il PRC non è riuscito ad incidere sulle contraddizioni del centro-sinistra, ma è stata travolto dalla sua sconfitta pagandone il prezzo più alto e rischiando di scomparire oltre che dal parlamento anche dalla scena politica italiana. La decisione di governare con Prodi, pur essendo chiaro fin da subito come in nessun modo fosse possibile condizionarne le scelte, l'aver alimentato tra i lavoratori e i giovani aspettative che non potevano essere realizzate, ha fatto si che proprio Rifondazione venisse, molto più che il PD, travolta dall'onda di ritorno dell'astensionismo e della disaffezione dalla politica di strati crescenti di lavoratori e di giovani condannati ad un eterno precariato e ad una marginalità senza più sbocchi. Al di là di singoli episodi o di errori contingenti era dunque la linea politica complessiva a essere sbagliata. “Una linea -riconosce Ferrero con estrema onestà - che aveva prodotto una situazione ingestibile” politicamente, qualsiasi scelta si fosse comunque fatta. Una situazione drammatica, tale da provocare una spaccatura verticale nel Partito e l'uscita non solo della minoranza trotskista (Turigliatto), ma anche di larga parte del gruppo dirigente bertinottiano (Vendola) che quelle scelte aveva imposto anche a costo di forzature non certo indolori.
Nel suo libro Paolo Ferrero si interroga dunque senza autocensure sul passato del suo partito e della sinistra, e già questo renderebbe “Quel che il futuro dirà di noi” una lettura consigliabile a tutti coloro (militanti e non) che si domandano come sia stato possibile giungere a questo presente così torbido e carico di pericoli, a questa passività diffusa che pare essere il carattere predominante dell'attuale quadro sociale. Certo, il segretario del PRC non è solo in questa opera necessaria di chiarimento politico e storico, basti pensare agli altrettanto recenti “Il sarto di Ulm” di Lucio Magri e a “La rifondazione mancata” di Salvatore Cannavò, opere di diverso spessore e orientamento, ma che cercano entrambe di stabilire un bilancio della sconfitta. La differenza, positiva nel nostro caso, sta che Ferrero non si limita ad analizzare il passato (vedi Magri) e tanto meno, come invece volentieri fa Cannavò, a distribuire torti e ragioni dall'alto di una presunta superiore “chiarezza” politica o storica, ma nella seconda parte del libro prospetta una possibile via d'uscita da questa situazione di frantumazione di impotenza. Anche qui si parte da un'analisi puntuale del presente, andando a investigare in profondità cause e manifestazioni contingenti della crisi profonda del sistema capitalistico mondiale e del caso italiano in particolare. Un'analisi, ovviamente, non fine a se stessa, né slegata dalla realtà del tracollo della sinistra, ma ad essa strettamente interconnessa soprattutto per quanto attiene la frantumazione del quadro sociale, la scomparsa della capacità di trasformazione collettiva, l'atomizzazione di massa.
“Siamo diventati – scrive Ferrero in uno dei passaggi più convincenti del suo discorso – tutti individui tendenzialmente solitari, chiusi alle influenze altrui, consumatori sordi.... E quando si rimane soli, all'interno di un sistema così articolato da risultare incomprensibile, l'unica via di salvezza appare per l'appunto affidarsi a chi il potere, per qualche motivo, già ce l'ha”.
E' proprio questa passività di massa, questa atomizzazione crescente, sintomi evidentissimi della barbarie avanzante, della logica del tutti contro tutti, che alimenta la crisi della politica e il rifugiarsi anche a sinistra in un populismo tanto gridato quanto incapace di produrre effetti positivi, di invertire la tendenza. Un populismo, “malattia senile” di questa Seconda Repubblica fondata sul bipolarismo, che può solo aprire ulteriori spazi alla destra berlusconiana e leghista.
Per riprendere il cammino della trasformazione occorre dunque prima di tutto uscire dalla sindrome della sconfitta, non volgendosi all'indietro per cercare di recuperare spezzoni del passato, ma cercando in questo presente così difficile, dove il capitale è riuscito a frantumare l'unità della classe operaia e a intaccarne profondamente la stessa coscienza di se, su quali puntiforza potere fare leva per riprendere un filo che nonostante tutte le contraddizioni e le difficoltà non appare del tutto spezzato. Un percorso che passa prima di tutto attraverso la ritessitura sul territorio e nella classe di quelle relazioni sociali che sole possono costituire la base fondante di qualunque progetto di ricostruzione di un soggetto politico capace di pensare la trasformazione senza cedimenti all'ideologia dominante. Uscire dal pensiero unico, dunque, come premessa necessaria di ogni futura battaglia per l'egemonia, contro ogni illusione “sviluppista”, privilegiando sempre il valore d'uso sul valore di scambio nella prospettiva non facile né di breve periodo della ricomposizione della classe come comunità di donne e uomini consapevoli dei propri diritti e delle proprie potenzialità di cambiamento.
Paolo Ferrero
Quel che il futuro dirà di noi
DeriveApprodi, 2010
Euro 12