Le Alpi
occidentali nel dopoguerra fra francesi, partigiani e Alleati.
Giorgio Amico
Montagne contese
Prologo
«Li
trovò nel giardino. Erano in tanti. Gli presentarono un uomo dal
portamento di un ufficiale inglese, ufficiale a riposo. Era francese
e si chiamava Albert, Albert Corbières. Sulla settantina, alto e
asciutto, occhi vivi.
-
Sono contento di conoscerla. Vorrei notizie del suo paese. Potrei
dirle che l'ho amato e che lo ricordo ancora pieno di rose.
-
Quando c'è stato?
-
Nel '45.
-
Nel dopoguerra?
-
Possiamo anche dire così. Sono venuto a conquistarlo, o a liberarlo,
se preferisce.
-
Credo che non sia più come lo ricorda.
-
Certamente no. Nulla in Europa è più come allora. Era un'Europa
carica di rovine. Ero sottotenente e al suo paese mi sono trovato
bene. Argela. Noi l'avevamo già chiamato Argèles-Les-Rosiers.
-
Grazie per quel bel nome. Chi l'ha trovato?
-
L'ho suggerito io. Dovevamo trovare i nomi per il rattachement.
-
Annessione a che?
-
Alla Provenza, alla Francia. Lei non era d'accordo?
-
Ero ragazzo. Mi ricordo come in un sogno. Un mio zio era francofilo
fervente. Quando era caduta Parigi aveva pianto.
-
Dunque non eravate contro di noi.
-
Jamais de la vie! Ma potevate cambiare tutti i nomi che volevate,
sarebbero sempre rimasti paesi della fame: quattro rocce e nulla più.
Non dico, qualche piacevole sera poteva anche capitare, col cielo che
va di qua e di là. Qualche rosa che il vento sbatte sulle pietre
nelle sere perdute». (1)
Così
in una pagina del suo romanzo “Le parole e la notte”,
Francesco Biamonti, l'ultimo grande scrittore del Novecento ligure,
fa riapparire alla fine degli anni '90 il fantasma di un avvenimento
ormai largamente rimosso dalla memoria popolare, quel tentativo di
annessione alla Francia fortemente voluto dal generale De Gaulle che
fra il 1945 e il 1947 coinvolse (e sconvolse) la Valle Roja, parte
del Ponente ligure, la Val Chisone, la Valle Susa e la Valle d'Aosta.
Rattachement
lo chiamarono i francesi che in
questo modo intendevano celebrare il ritorno alla Patria di
popolazioni francofone o vissute prima della grande rivoluzione del
1789 nell'ambito del regno di Francia.
Per
gli italiani una ferita all'unità e all'identità nazionale. Una
ingiustizia subita perché si volle da parte francese far espiare
all'intero popolo italiano le colpe del regime fascista. E questo
proprio all'indomani di una guerra di Liberazione lunga e sanguinosa
che era costata anche in quei luoghi sacrifici e lutti immensi.
Tenda. Manifestazione filofrancese
Le
mire annessionistiche del generale De Gaulle
Nella
sua visione di ricostituzione della grandeur francese, filo
conduttore della sua intera vita politica, il generale De Gaulle
mostrò fin dagli accordi di Algeri del 1943 di avere progetti ben
precisi per quanto riguardava i territori italiani di confine. A
motivazioni storiche (il Delfinato, la Repubblica degli Escartons, il
plebiscito nizzardo del 1860) si univano fattori culturali visto che
i territori interessati all'annessione erano abitati da popolazioni
di lingua francese. In realtà in molti casi si trattava di occitani,
ma per il generale De Gaulle, che di certo non era un appassionato di
etnolinguistica, la situazione non cambiava, sempre francesi erano (o
erano stati).
Fortissimo
(e condiviso da larghi strati della popolazione d'oltralpe) era poi
il senso di rivalsa rispetto all'aggressione fascista del giugno
1940, considerata non a torto una “pugnalata alla schiena” di una
Francia già duramente provata dall'invasione tedesca. Non a caso,
subito dopo gli sbarchi alleati in Normandia e in Provenza e la
riconquista del territorio nazionale, il Governo francese aveva
dichiarato nullo l’armistizio di Villa Incisa del 24 giugno 1940 e
ripristinato lo stato di guerra con l’Italia. Il messaggio era
chiaro: l'andamento della guerra era mutato, i francesi (e gli
Alleati) erano ormai pronti all'offensiva finale. Era giunto, dopo
quattro anni di umiliazioni, il momento della rivincita e non ci
sarebbero stati riguardi verso chi nel 1940 aveva voluto dare
vigliaccamente il colpo di grazia ad una Francia in ginocchio.
In
questa ottica revanscista nessuna distinzione veniva fatta fra
Italia, italiani e fascismo cancellando una delle pagine più belle
della Resistenza, quegli accordi stretti a Saretto, una borgata
dell'alta Valle Maira, dove il 30 maggio 1944 il delegato del CLN
per il Piemonte, Dante Livio Bianco, e il capo della Regione 2 del
Movimento Unito di Resistenza francese, Max Juvenal, avevano
concordato le linee portanti di una comune azione politico-militare
finalizzata alla costruzione nel dopoguerra di una Europa unita,
democratica e federale.
Un
documento la cui “Dichiarazione politica”, posta in premessa
degli accordi militari, rappresentava un vero e proprio atto di
riconciliazione italo-francese, nato dal sangue versato dai
partigiani dei due paesi nella lotta per la libertà. Una
dichiarazione d'intenti di altissimo valore civile, interamente
incentrata su uno spirito di riconciliazione e di collaborazione fra
i popoli dopo i disastri della guerra, che nelle sue linee portanti
richiama l'altro grande manifesto della Resistenza nelle Alpi
Occidentali, quella Carta di Chivasso siglata dai rappresentanti
partigiani della Valle d'Aosta, delle vallate occitane e delle
comunità valdesi che auspicava la costruzione dopo la fine delle
ostilità di un'Italia democratica e federale che riconoscesse pieni
diritti e forme di autonomia alle minoranze linguistiche e religiose
delle Alpi.
In uno spirito
di rivincita impastato di sogni di grandeur nazionale i progetti
gollisti prevedevano invece l'annessione al territorio francese
dell'intera Valle Roja, Ventimiglia compresa, di parte della Liguria
Occidentale (si parlò perfino di arrivare fino ad Albenga), della
Valle d'Aosta, della Val Chisone, della Valle Susa e delle valli
occitane cuneesi. Il generale Doyen, comandante delle truppe della
Francia Libera sul fronte italiano, ricevuto l'ordine di occupare
l'intero arco delle Alpi Occidentali, Valle d'Aosta compresa, per
spingersi poi fino a Torino e Cuneo, lo eseguì, come vedremo, con
estrema determinazione.
Una politica
nazionalista e vendicativa che intendeva far pagare all'intero popolo
italiano, antifascisti e resistenti compresi, le colpe del fascismo e
che, se realizzata, avrebbe contributo ad aggiungere rancore a
rancore e a scavare un solco d'odio fra i due popoli. Come poi
avvenne sulla frontiera orientale con l'annessione jugoslava di
Istria, Dalmazia e gran parte della Venezia Giulia e la questione a
lungo irrisolta di Trieste, creando divisioni e odi, che, ingigantiti
poi dalla Guerra fredda, sarebbero durati per decenni alimentando
sentimenti nazionalisti e anti-slavi e suggestioni neofasciste che
sfoceranno poi (si veda l'esperienza di gruppi come Ordine Nuovo e
Avanguardia Nazionale) nella strategia stragista e golpista degli
anni Settanta.
Soldati francesi a Borgo San Dalmazzo
L'occupazione
della Valle d'Aosta
In questo contesto con l'avvicinarsi del termine delle ostilità la situazione politica valdostana diventa il vero banco di prova delle relazioni italo-francesi e nello stesso tempo un tentativo di riequilibrare in senso filo-gollista i rapporti di forza tra la Francia e gli Alleati in Italia settentrionale. Forti timori esistevano già da parte italiana. Il 28 marzo 1945 il ministro degli esteri Alcide De Gasperi non nasconde all'ambasciatore francese a Roma la contrarietà del suo governo ad una occupazione militare della Valle da parte di truppe francesi. Pochi giorni dopo il comando angloamericano, che non vuole urtare la sensibilità dell'alleato, autorizza unità francesi ad entrare in territorio italiano, ma con l'obbligo di non spingersi oltre 20 chilometri dal limite delle montagne.
Agli inizi di
aprile 1945 missioni golliste, dirette dalla DGER (Direction
Générale d'Etudes et Recherches, sigla di copertura dei servizi
segreti), entrano in Valle per costituire un po' dappertutto comitati
favorevoli all'annessione.
L'aggressività
francese produce il risultato paradossale di un accordo fra autorità
partigiane e comandi militari repubblichini. In un incontro in curia
tra esponenti del comando di zona, il capo della provincia, il
commissario del Partito Fascista Repubblicano di Aosta e il
comandante della GNR viene discussa la possibilità di costituire un
blocco di forze “italiane” da contrapporre militarmente ai
francesi.
L'accordo non
viene raggiunto, ma dopo il ritiro dei tedeschi e la resa fascista al
CLN, i reparti alpini della RSI, che avrebbero dovuto consegnare le
armi e ripiegare su Aosta, vengono lasciati nelle loro posizioni e
affiancati da unità partigiane.
Allarmato dalla
piega presa dagli avvenimenti il generale Alexander, comandante in
capo delle truppe alleate in Italia, ordina ai francesi di fermarsi.
L'ordine viene respinto. I francesi non fanno mistero delle loro
intenzioni: al seguito delle loro truppe entreranno in Valle gli
esponenti di Comitato pro-annessione di recente costituzione, sarà
imposta la moneta francese e verrà organizzato un plebiscito a cui
potranno partecipare solo gli uomini nati in Valle prima del 1914 e
da genitori valdostani.
Di fronte a
queste minacciose dichiarazioni d'intenti il comitato militare di
zona del CLN comunica agli Alleati di essere disposto ad impedire,
nel caso anche con l'uso delle armi, l'occupazione francese della
Valle. La I divisione partigiana con un gruppo di artiglieria
repubblichino sbarra la Val di Rhemes dove sono già scesi i primi
reparti francesi, la Valgrisenche e la zona di Pré-Saint-Didier. Il
30 aprile i due schieramenti si fronteggiano, qua e là si spara,
fortunatamente senza fare vittime.
A questo punto
gli Alleati intervengono sul CLN aostano perché i reparti partigiani
siano ritirati. Il 1° maggio con la mediazione di un ufficiale
inglese un accordo viene siglato ad Aosta fra francesi e resistenti.
Le truppe francesi potranno entrare in Valle ma non oltrepassare il
limite dei trenta chilometri dalla frontiera alpina. L'accordo è
immediatamente violato. Il 2 maggio unità francesi disarmano i
partigiani e occupano la Valle giungendo fino a Pont-Saint-Martin.
Unità esploranti proseguono l'avanzata in Piemonte in direzione di
Chivasso e di Ivrea. Intanto, come preannunciato, agenti della DGER
iniziano a svolgere un'intensa attività di propaganda a favore
dell'annessione.
La ferma
protesta del governo italiano e la pressione sul governo americano
dell'ambasciatore a Washington Tarchiani, costringono gli Alleati a
prendere posizione. Il 4 maggio, per “mantenere l'ordine”
e prevenire possibili scontri fra italiani e francesi, una colonna
americana del XV gruppo di armate risale la valle fino ad Aosta e
Courmayeur. Ora sono americani e francesi a fronteggiarsi. La
situazione è tanto tesa che ai primi di giugno il presidente
americano Truman, riferendosi alla situazione valdostana, minaccia la
sospensione di ogni rifornimento di armi e munizioni alle forze
francesi “perché queste avevano minacciato di usare le armi
contro i soldati americani”. (2)
Manifestazione filofrancese
L'occupazione
della Val Chisone e della Valle Susa
Fatti analoghi avvengono anche nelle alte valli piemontesi. Già l'11 aprile il comando militare del Piemonte invia una nota alle formazioni partigiane nelle valli Chisone e Susa invitandole alla massima collaborazione con i reparti francesi. Il testo chiarisce bene la gravità della situazione che si era venuta creando:
«Circolano
voci di scontri avvenuti tra partigiani italiani e truppe francesi
penetrate in val d'Aosta. Pur ritenendo tali voci infondate, vi
comunichiamo non essere escluso che le truppe francesi debbano
collaborare con gli Anglo Americani in quest'ultima fase della lotta
per la liberazione del nostro paese. Le truppe francesi debbono
essere considerate nostre alleate, come di fatto lo sono, e di
conseguenza accolte ovunque con la massima cordialità e con
manifestazioni amichevoli».(3)
Timori
destinati a concretizzarsi pochi giorni più tardi, quando verso la
fine del mese i francesi procedettero all'occupazione del territorio.
Le truppe, composte anche da reparti coloniali, si comportarono come
un esercito occupante un territorio ostile: in varie località si
verificarono atti di violenza contro le donne e saccheggi di
abitazioni.
Parallelamente
missioni semi-clandestine iniziavano a svolgere una intensa attività
di propaganda per conquistare le popolazioni all'idea dell'adesione
alla Francia. Ai montanari vennero distribuite schede da compilare
con i propri dati anagrafici in cui si dichiarava enfaticamente: «Je
declare opter pour la France ma Patrie d'origine et en accepter les
lois. Vive la France».
Alla fine di
maggio la situazione degenerò ulteriormente. Dopo una serie di
violenze e atti intimidatori compiuti da soldati francesi nei
confronti di partigiani italiani, il 23 maggio a Exilles una mina
esplose al passaggio di una vettura francese. Un ufficiale restò
gravemente ferito e due soldati persero la vita.
Ma il peggio
doveva ancora accadere. Esattamente un mese più tardi, il 23 giugno,
una bomba veniva fatta esplodere all'interno di un albergo di Susa,
trasformato in caserma. Nell'attentato morirono due militari francesi
e una cameriera italiana. Altri sei soldati restarono gravemente
feriti.
La reazione
francese fu violenta. Alcuni cittadini furono presi in ostaggio e
minacciati di fucilazione per rappresaglia, mentre in città si
verificarono sparatorie tra carabinieri e truppe francesi. Dovette
intervenire il vescovo, Carlo Marra, per impedire che la situazione
diventasse ancora più tragica, ottenendo, non senza sforzo, il
rilascio dei prigionieri.
Era ormai
chiaro a tutti che la situazione in Valle d'Aosta e nelle valli Susa
e Chisone stava sfuggendo di mano ai comandi francesi. Colloqui fra
il Governo italiano e il Comando Supremo Alleato di Caserta portarono
gli Angloamericani a imporre ai francesi il ritiro dai territori
occupati. L'11 giugno 1945 fu trovato un accordo in base al quale i
reparti gollisti avrebbero abbandonato fra il 20 giugno e il 1°
luglio la Valle Stura di Demonte, la Valle d'Aosta e le valli Susa e
Chisone per essere sostituiti da reparti americani.
Tenda nel 1945
L'occupazione della Valle Roja e il Mouvement pour le Rattachement de Tende et de La Brigue à la France
Anche
nelle Alpi Marittime in vista del crollo del fronte tedesco le
autorità francesi, civili e militari, iniziarono già a partire
dall'estate del 1944 a predisporre piani per dare concreta attuazione
ai progetti di annessione di territori italiani nell'area di
Ventimiglia e nella Val Roja.
Il
15 agosto gli americani sbarcano in Provenza, il 28 le truppe della
Francia libera entrano a Nizza. Appena insediati in città, i
servizi segreti gollisti lanciano una massiccia campagna in favore
del passaggio dell’alta Valle Roia alla Francia.
Il
10 settembre 1944 il quotidiano gollista di Nizza «Combat» pubblica
un articolo-manifesto dal titolo: «Tenda e Briga devono ritornare
francesi». Cinque giorni dopo, su iniziativa del presidente del
Club alpino delle Alpi Marittime, Vincent Paschetta, i rappresentanti
dei Sei Comuni delle valli Vésubie e Tinée costituiscono un
Comitato di studio per la rettifica della frontiera. Alla riunione
partecipano, notabili locali con forti agganci nella valle, quali
Joseph Giordana presidente dell'Accademia Nizzarda e il Conservatore
delle acque e delle foreste Dugeley, e delegati di un neo-costituito
Comité d’action en vue du retour à la France des territoires
de la Haute-Roya, presieduto dall’oriundo brigasco Charles
Fenoglio.
Dotati
di ingentissimi fondi messi loro a disposizione dalle autorità
golliste e forti dell'appoggio dichiarato del comando delle forze
francesi, del vescovo di Nizza e del sindaco della città, questi
comitati si misero immediatamente al lavoro per creare un movimento
popolare di sostegno al progetto annessionistico. Il 18 settembre una
assemblea di circa duecento cittadini di origini tendasche e
brigasche fondò il Mouvement pour le Rattachement de Tende et de
La Brigue à la France, a cui. il 4 ottobre, si associò anche il
Comité départemental de Liberation des Alpes-Maritimes. Si
costituì un gruppo di lavoro, il Comité d’Études des
Frontières, per provvedere alla stesura di un documento da
trasmettere al governo parigino per ribadire “scientificamente”
la necessità di una rettifica dei confini nelle Alpi Marittime.
Intanto
la guerra proseguiva, sostenuta soprattutto da unità partigiane. Tra
il settembre 1944 e l'aprile 1945 vi furono aspri combattimenti tra
partigiani italiani e francesi e reparti tedeschi e della Repubblica
Sociale allo scopo di impedire che i nazisti in ritirata
distruggessero i grandi impianti idroelettrici della valle.
Scontri
che durarono fino al 24 aprile 1945 quando le truppe tedesche si
ritirarono verso Limone e Cuneo. Il giorno successivo gli abitati di
Briga e Tenda venivano liberate dai partigiani italiani del 10°
distaccamento della V Brigata Garibaldi «Nuvoloni», che la mattina
del 26 occuparono anche San Dalmazzo.
Solo
nel pomeriggio del 26 aprile giunsero a Tenda un centinaio di soldati
del 29° Régiment Tirailleurs Algériens, che si installarono
nel paese. Nel pomeriggio dello stesso giorno il comando francese
ordinò il disarmo dei partigiani del 10° distaccamento (ai quali
erano concesse sei ore di tempo per lasciare la zona) e il ritiro
della bandiera italiana da tutti gli edifici pubblici.
Il
28 aprile arrivarono in zona provenienti da Nizza circa duecento
persone appartenenti a famiglie originarie dell'alta valle.
Trasportati da camion militari, i nuovi arrivati procedettero ad una
sistematica distribuzione alla popolazione di viveri, bandiere
francesi e fotografie del generale De Gaulle.
«Il
vettovagliamento francese – si
legge in un rapporto della Sezione di Tenda del Comitato per il
Rattachement –
ha immediatamente messo a nostra disposizione una quantità di viveri
a Breil, ma le comunicazioni erano difficili a causa delle
distruzioni operate dai tedeschi prima della loro partenza.
L'amministrazione francese ci ha inviato gratuitamente una quantità
di viveri e di latte condensato per i bambini. Noi abbiamo
distribuito sussidi in denaro alle mogli e alle famiglie dei
prigionieri di guerra, così come a qualche sinistrato e noi abbiamo
distribuito viveri gratuitamente all'ospedale e all'asilo».
(4)
Il
giorno successivo gli abitanti di Tenda e Briga trovarono i muri dei
due paesi tappezzati di manifesti in francese intitolati «République
Française. Ville de La Briga de Nice», in cui si annunciava
trionfalmente che dopo 85 anni di umiliazioni finalmente quelle
popolazioni si erano ricongiunte alla madrepatria.
Con
l'appoggio delle truppe francesi i rappresentanti del Comité de
Rattachement procedettero a dichiarare decadute le
amministrazioni dei due centri dell'alta valle sostenendo che in
virtù di una deliberazione del Consiglio dei ministri francese,
nonché di accordi con il governo italiano, Briga e Tenda erano state
cedute alla Francia. Un falso che doveva legittimare il fatto
compiuto manu militari dell'annessione.
In
quello stesso giorno fu tenuto un plebiscito farsa per formalizzare
l’annessione come previsto dalla legge francese. Al voto avevano
diritto anche i militanti filo-francesi provenienti da Nizza. Le
schede di voto non prevedevano la possibilità di un voto contrario,
ma soltanto una dichiarazione di assenso al passaggio dei territori
alla Francia. Ai votanti venne infatti consegnata una scheda
bilingue da riempire con i propri dati anagrafici in cui si chiedeva
"in conformità con i diritti acquisiti dai nostri antenati
con il plebiscito del 15 aprile 1860 (…) il grande onore di
diventare francesi". Nessun altra opzione era prevista. Il
solo modo di opporsi era non andare a votare. La popolazione fu
informata che chi non si fosse presentato al voto (e dunque non
avesse votato a favore dell'annessione) avrebbe visto annullata la
propria tessera annonaria, il documento che permetteva di ricevere le
poche razioni alimentari allora disponibili.
Analoghi
referendum vennero tenuti a Mollières, a Ventimiglia e in diversi
comuni della Val Nervia e nella zona di Bordighera. Come
prevedibile, la popolazione andò massicciamente a votare con
percentuali che si avvicinarono anche in Riviera a quasi il 100%.
Fece eccezione Ventimiglia, dove nonostante le pressioni delle
autorità francesi la partecipazione al voto superò di poco il 50%.
Tab.
1 Plebiscito del 29 aprile 1945 (5)
Comune
|
Si
|
Astenuti
|
Tenda
|
893
|
37
|
Briga
|
976
|
49
|
Nei
giorni successivi i dirigenti del Comité, forti dei risultati del
plebiscito, vararono una serie di provvedimenti anti-italiani quali
la proibizione dell’uso della lingua italiana in pubblico, la
chiusura definitiva delle scuole e la riduzione degli
approvvigionamenti alimentari a coloro che non si erano recati alle
urne. Il parroco di Tenda, Don Ginata, essendosi rifiutato di
celebrare la messa in francese, fu costretto a lasciare il paese.
Il
6 maggio il prefetto delle Alpi Marittime installò ufficialmente una
amministrazione francese a Tenda e a Briga. Parallelamente
furono occupate le centrali idroelettriche, l'unica grande risorsa
economica di una vallata altrimenti poverissima, vero obiettivo delle
mire espansionistiche francesi. Il direttore degli impianti di San
Dalmazzo, ingegnere Bosis, già collaboratore della Resistenza, fu
arrestato per aver tentato di opporsi alla confisca della centrale
da parte dei militari.
Alla
fine di maggio, su richiesta del governo italiano, un contingente
militare americano tentò di entrare nella valle per affiancare le
truppe francesi e dare applicazione in attesa della stipula del
trattato di pace alle clausole armistiziali con l’Italia che non
prevedevano annessioni di nessun tipo. Gli alti comandi gollisti si
opposero fermamente a quella che ritenevano un'intromissione negli
affari interni francesi, in quanto dopo il plebiscito ritenevano
Briga e Tenda ormai parte integrante del territorio metropolitano. Le
autorità transalpine consentirono tuttavia al Governo Militare
Alleato di installarsi simbolicamente nei due paesi, senza però
poter esercitare alcun potere.
L'ingresso dei partigiani in Ventimiglia
L'occupazione
di Ventimiglia
Il
25 aprile reparti partigiani della II Divisione d'assalto Felice
Cascione occupano Ventimiglia seguiti poco dopo da truppe francesi
provenienti da Mentone. I partigiani trovano una città ridotta ad un
cumulo di macerie: “Devastati i Balzi Rossi, cannoneggiato il
Laboratorio di Voronoff, ridotta a «terra
di nessuno» villa
Hanbury, bombardata la Cattedrale, gli oratori, Sant'Agostino,
deportati a Mauthausen molti ferrovieri, Ventimiglia sembrava tornata
ai momenti più cupi dell'alto Medio Evo”. (6)
Nei
giorni successivi i francesi occuparono tutto l'entroterra. Il 29
aprile un reparto del Régiment Tirailleurs Sénégalais si
spinse fino a Imperia, dove sostò per alcuni giorni per poi
ritirarsi all'arrivo di reparti americani provenienti da Savona.
Di
fronte all'atteggiamento dei militari francesi che si comportavano
come truppe occupanti, il 4 maggio il CLN di Ventimiglia interpellò
il comando gollista per sapere quali
funzioni avrebbe potuto ancora svolgere sotto il nuovo regime di occupazione. Il 12 maggio ufficiali francesi comunicarono ai responsabili del CLN che l’autorità militare non reputava ulteriormente necessaria l’esistenza in città di un CLN italiano, in quanto tutte le funzioni di governo e di amministrazione erano ormai regolarmente espletate dall’autorità militare stessa.
funzioni avrebbe potuto ancora svolgere sotto il nuovo regime di occupazione. Il 12 maggio ufficiali francesi comunicarono ai responsabili del CLN che l’autorità militare non reputava ulteriormente necessaria l’esistenza in città di un CLN italiano, in quanto tutte le funzioni di governo e di amministrazione erano ormai regolarmente espletate dall’autorità militare stessa.
Come
in Valle Roja, fin dai primi giorni l'occupazione prese l'aspetto di
una tacita annessione. Venne spostata la linea di confine con la
creazione di un nuovo posto di frontiera all’altezza del ponte dei
Piani Borghetto tra Bordighera e Vallecrosia, che collocava
Ventimiglia e il suo entroterra in territorio francese. Venne inoltre
interdetto l'accesso alla zona a chiunque non fosse residente. La
popolazione venne censita e dotata di un lasciapassare provvisorio in
francese per "espatriare" in Italia; venne sostituita la
lira con il franco francese. Si arrivò al punto di cambiare i
cartelli stradali. Ventimiglia divenne così a tutti gli effetti
Vintimille. Il tentativo di francesizzazione forzata giunse fino alla
proibizione della circolazione dei giornali italiani accusati di
instillare nella popolazione sentimenti antifrancesi .
Nel
frattempo proseguiva da parte di un sedicente Comité d’action
pour le rattachement un’intensa attività propagandistica con
la diffusione di un giornale, le «Trait d’Union», stampato
a Nizza. Attività che si intensificò ulteriormente nel corso del
mese di giugno, mentre l’autorità di occupazione francese
procedeva all’arresto di numerosi cittadini appartenenti a comitati
nel frattempo costituitisi spontaneamente per rivendicare
l'italianità della città e del suo entroterra.
Nonostante
in qualche località della Val Nervia si manifestassero simpatie
filofrancesi, la popolazione di Ventimiglia e delle vallate
dell'entroterra dimostrò di non gradire la situazione che si era
venuta creando. Decisiva in questo senso fu l'azione del movimento
partigiano imperiese in cui si stava mettendo in luce un giovane
intellettuale sanremese, già combattente della V Brigata Garibaldi
“Nuvoloni”, destinato ad una brillante carriera di scrittore.
Ritornato
dopo la Liberazione nella sua San Remo, il ventiduenne Italo Calvino
aveva infatti iniziato a collaborare ad alcuni fogli locali, La
Voce della Democrazia, organo del CLN, La nostra lotta,
organo della sezione del PCI e il foglio della Divisione Felice
Cascione Il Garibaldino. Proprio su quest'ultimo giornale
Calvino pubblica un articolo per contestare le pretese francesi su
Ventimiglia, la Val Roja e la Val Nervia:
«Noi
gridiamo “Viva la Francia libera” che ha salito il calvario della
resurrezione, ma nessuno deve impedirci di gridare “Viva l'Italia
libera” perché è il grido del nostro martirio e della nostra
purificazione. Noi chiediamo che gli italiani, di Ventimiglia e
dell'entroterra, godano con noi dei benefici della libertà, lo
chiedono i fratelli di tutta Italia inquadrati nell'ardua opera di
ricostruzione […] perché sulle rovine di Ventimiglia non c'è
posto che per il tricolore. Un'altra bandiera sarebbe il segno del
tradimento alla libertà dei popoli». (7)
Siamo
nel 1945 e lo stile è quello enfatico del giornalismo di allora che
ancora fortemente risentiva dei toni della pubblicistica fascista,
ma l'articolo costituisce un documento fedele del clima di quei
giorni e di come anche a sinistra (Calvino allora militava nel PCI da
cui poi uscirà nel 1956 all'indomani della tragedia ungherese) si
considerassero nel Ponente ligure le pretese francesi un atto di
ingiusta prepotenza e una violazione aperta di quei valori di libertà
per i quali si era combattuto.
Gli
accordi di Caserta, a cui abbiamo già accennato per la Valle
d'Aosta e le Valli Chisone e Susa, portarono al ritiro da Ventimiglia
delle truppe francesi, sostituite da reparti angloamericani. Il 18
luglio 1945 si tenne in piazza del Comune la cerimonia ufficiale di
passaggio dei poteri dalle autorità di occupazione a quelle del
Governo Militare Alleato, che assunse direttamente il controllo
amministrativo del territorio.
Dopo
tre mesi di occupazione francese Ventimiglia tornava italiana, ma la
situazione restava difficile, come si legge in una cronaca de il
Secolo XIX :
“Troppi
lutti recenti, troppe case devastate, troppo impoverite le risorse. I
ventimigliesi si sfogano a leggere i giornali italiani, sino
all'altro giorno vietati (…). Prima di lasciare la città alcune
reclute francesi hanno messo in subbuglio il mercato devastando le
poche merci”. (8)
Tesserino partigiano di Italo Calvino
Il
trattato di pace e l'annessione di Tenda e Briga alla Francia
Con
gli accordi di Caserta gli Alleati impongono a De Gaulle il ritiro
dalle aree occupate del Piemonte, della Valle d'Aosta e della
Liguria. Le autorità francesi dovettero così rinunciare
all'annessione conseguente alla farsa del voto del 29 aprile e a
evacuare i due comuni di Briga e Tenda. I militari
del 29° Régiment Tiralleurs Algériens
furono rimpiazzati da reparti americani e inglesi. I francesi
lasciarono a Tenda solo una missione di collegamento composta da un
ufficiale e da tredici soldati.
Nel
pomeriggio dello stesso giorno giungevano nei due paesi reparti di
carabinieri italiani. Alcuni giorni dopo si recarono in zona anche il
viceprefetto di Cuneo Montemurri e il suo segretario per coordinare
l’attività di formazione delle nuove amministrazioni municipali,
alle quali vennero ammessi, nel rispetto degli accordi presi con i
francesi, anche rappresentanti del Comité pour le Rattachement.
Iniziava così per la valle un periodo di incertezza destinato a
durare fino agli accordi di pace del febbraio 1947.
Nonostante
il ritiro delle truppe, non cessa l'azione del DGER tra la
popolazione locale per convincerla a optare per la Francia,
presentando l'immagine di un paese ricco e ordinato che avrebbe
potuto garantire livelli di vita e di benessere ben più alti di
un'Italia in rovina e destinata ad un incerto futuro. Decisiva si
rivelò l'opera, soprattutto fra i montanari dei borghi più isolati,
di sacerdoti della diocesi di Nizza inviati a fare propaganda nelle
parrocchie dell'alta valle e coordinati da Don De Caroli, ex parroco
di Breuil. Cappellano della Gendarmerie e, come pare ormai certo,
agente dei servizi segreti francesi, Don De Caroli agisce anche per
conto del vescovo di Nizza, monsignor Remond, da cui avrebbe ricevuti
ingenti finanziamenti (secondo alcuni pari a oltre trentamila
franchi) da distribuire ai parroci della valle per convincere gli
abitanti, soprattutto i più poveri, a sposare la causa del
rattachement. (9)
Una
propaganda tanto martellante da costringere il CLN di Imperia a
trasmettere il 13 novembre un ordine del giorno al governo Parri per
sollecitare l’adozione di provvedimenti severi nei confronti di
tutti quelli che continuavano a svolgere una propaganda
antinazionale tale da creare divisioni e odi in una popolazione fino
a quel momento unita e pacifica.
Il
1° gennaio 1946 con l'eccezione della Venezia Giulia
l'amministrazione del Nord passa dalle autorità militari alleate al
governo italiano. L'Italia è di nuovo unita e pienamente sovrana. E
questo vale anche per i territori contesi della Val Roja. Immediata è
la risposta francese. Il 17 gennaio 1946 il deputato nizzardo Jean
Médecin ribadisce all’Assemblea Nazionale di Parigi l’urgenza di
una rettifica del confine nel comprensorio delle Alpi Marittime. Una
ventina di giorni più tardi la della delegazione francese presso il
Consiglio delle potenze vincitrici, presenta una richiesta di
rettifica del confine italo-francese interessante le zone di Briga e
Tenda, di Mollieres (allora frazione del comune di Entracque) e del
Moncenisio.
Contemporaneamente
i CLN e i rappresentanti di tutti gli organi politici e
amministrativi delle province di Imperia e Savona, convenuti in
assemblea ad Albenga, redassero una mozione comune nella quale
chiedevano l’istituzione di un unico collegio elettorale
comprendente le due province per contribuire a contrastare in modo
più netto ed efficace le tendenze separatiste affiorate nei mesi
precedenti nella zona di frontiera. (10)
Il
27 aprile venne costituita una commissione interalleata composta da
due rappresentanti per ognuna delle potenze vincitrici, incaricata
di svolgere un’accurata inchiesta nella zona di Briga e Tenda in
merito allo stato delle centrali idroelettriche e all’atteggiamento
degli abitanti della vallata nei confronti del problema
dell’annessione alla Francia.
La
commissione, visitati i due comuni fra il 1° e il 3 maggio, redasse
poi una relazione. Secondo i dati raccolti la popolazione di Briga
risultava in maggioranza a favore dell'annessione alla Francia,
mentre a Tenda vi sarebbe stata una maggioranza tendenzialmente
filo-italiana. Una difformità dovuta soprattutto alla forte presenza
a San Dalmazzo di lavoratori non valligiani impegnati nelle ferrovie
e negli impianti idroelettrici.
Nel
frattempo, anche se con molto ritardo rispetto alle iniziative
francesi, si era costituito a Torino un «Comitato per la tutela
degli interessi dell’Alta Valle Roja», che con l'appoggio nemmeno
troppo segreto delle autorità italiane cerca di ribaltare una
situazione che appariva ormai molto compromessa. Non mancarono anche
in questo campo gli eccessi e i fatti oscuri, come l'uccisione in
pieno centro di Tenda da parte dei carabinieri di un giovane
attivista filofrancese. Un fatto grave, la cui dinamica ancora oggi
resta poco chiara e che contribuì non poco a radicalizzare la
situazione e a portare ulteriori consensi al movimento per il
rattachement.
Azioni tardive, se non
controproducenti, ché i giochi erano ormai fatti. Nell'estate
all'apertura dei lavori della conferenza di pace si capì che le
decisioni che riguardavano la Val Roja erano state prese e che non
sarebbero state cambiate. Gli Alleati avevano accettato le
richieste francesi in cambio dell'impegno, poi nei fatti largamente
disatteso, del governo di Parigi di fornire garanzie certe all'Italia
in merito alla fornitura di energia elettrica, considerato che dalle
centrali della Val Roja dipendeva pressoché interamente una buona
parte dell'Italia nordoccidentale.
Considerata nazione sconfitta e
non cobelligerante (come si erano illusi i governi Parri e De
Gasperi), l'Italia fu ammessa alla Conferenza, ma non poté trattare
con gli Alleati le condizioni della pace. Le fu concesso solo di
esporre a voce e per iscritto le sue ragioni.
Nulla fu lasciato intentato, ma
senza esito. Il 28 luglio il ministro degli esteri Pietro Nenni si
recò a Parigi dove per tre giorni ebbe colloqui con il leader
socialista Leon Blum, il segretario del PCF Maurice Thorez e il
presidente del Consiglio Georges Bidault. L'esito degli incontri fu
non solo infruttuoso, ma addirittura umiliante. Dal diario del
vecchio esponente socialista emerge chiara l'insofferenza e il
fastidio con cui, anche da sinistra, in Francia si guardava alle
richieste italiane, considerate pretese prive di realismo:
“Ho
trovato il presidente del Consiglio Bidault su una posizione di
diffidenza. All'inizio non mi ha quasi lasciato parlare ed è partito
all'attacco su quello che ha chiamato «nos
difficultés».
Ha cominciato col dire che per Briga e Tenda non può fare più
nulla. Ci fa carico di avere dimenticato che è arrivato al governo
dopo De Gaulle e che ha impedito che ci si chiedesse la Valle
d'Aosta. «Blum
vi avrà detto»,
soggiunge, «
che per Briga e Tenda si tratta di una idiozia, ma è cosa fatta e
non posso tornare indietro ».
(11)
Il
31 agosto la Conferenza approvò la cessione dei territori
rivendicati dalla Francia. In attesa della stipula del trattato di
pace, che richiese altri cinque mesi di trattative diplomatiche,
centinaia di abitanti abbandonarono la valle. In gran parte di
trattava di lavoratori delle grandi centrali idroelettriche, di
ferrovieri e di dipendenti pubblici (poste, dogane, ecc) che con il
passaggio del territorio alla Francia non avrebbero più potuto
mantenere l'impiego.
Ci
fu dunque anche qui un problema di profughi, anche se non con le
dimensioni e la drammaticità di quanto accaduto al confine
yugoslavo. Complessivamente lasciarono Briga e Tenda dalle 800 alle
1000 persone che trovarono sistemazione in gran parte nel cuneese e
nell'imperiese. Una piccola parte di questi profughi, quella più
ideologizzata che aveva abbandonato la Valle Roja per “patriottismo”,
costituì a Torino un Comitato Esuli Alta Val Roja che per una decina
d'anni vivacchiò cercando di mantenere desta l'attenzione sulla
questione confidando in una impossibile revisione del trattato. Non
mancarono anche tentativi da parte della destra e del MSI, o di
giornali come Candido, di cavalcare la situazione con proclami
irredentistici di cui qualche traccia si può ancora ritrovare oggi
in rete in siti di estrema destra.
Il
10 febbraio 1947 veniva firmato il Trattato di pace in virtù del
quale il 16 settembre sarebbero passate alla Francia - nel settore
delle Alpi Marittime - le ex «terre di caccia», costituite dai
valloni della Guercia, Chastillon, Mollières e Millefonts nell’alta
valle Tinée e dai valloni di Salse, del Boréon, della Madonna delle
Finestre e della Gordolasca nell’alta Valle Vésubie, con il
piccolo paese di Mollières staccato dal comune italiano di Valdieri
e aggregato a quello francese di Valdeblore; il comune di Tenda
compresa la frazione di San Dalmazzo; la parte del territorio
comunale di Briga Marittima comprendente il capoluogo e Morignolo in
valle Levenza, che formarono il nuovo comune francese di La Brigue ;
le ex frazioni del comune italiano di Olivetta San Michele Piena Alta
e Libri.
Per
quanto concerneva invece la questione dello sfruttamento delle
centrali idroelettriche cedute alla Francia, l’articolo 9 della
Sezione seconda del Trattato stabilì una serie di speciali garanzie,
che imponevano al governo di Parigi di far funzionare le centrali
della vallata in modo tale da produrre i quantitativi di energia
elettrica di cui l’Italia potesse aver bisogno per un periodo di
tempo che venne allora indicativamente fissato con scadenza al 31
dicembre 1961, mentre altre clausole prevedevano una serie di
ulteriori garanzie relative all’equa utilizzazione delle risorse
idriche del fiume Roja. (12)
Il
15 settembre 1947 Tenda e Briga vengono ufficialmente consegnate alla
Francia. In osservanza del dettato costituzionale francese le nuove
autorità di governo indissero un nuovo plebiscito da svolgersi il 12
ottobre. Secondo le modalità stabilite dalla Prefettura di Nizza
potevano votare oltre ai residenti anche i nati nell'area ma
residenti in Francia.
L'esito
del voto fu, come scontato, plebiscitario, esprimendo una
larghissima maggioranza a favore dell’annessione con punte del 94%
a Tenda, 96% a Briga e quasi del 100% a Mollières.
Tab.
2 Plebiscito del 12 ottobre 1947 (13)
Iscritti
|
Votanti
|
Astensioni
|
Si
|
No
|
Nulli
|
% di Si
|
Tende 1616
|
1538
|
78
|
1445
|
76
|
17
|
93.95
|
La Brigue
831
|
790
|
41
|
759
|
26
|
5
|
96.07
|
Libre 218
|
209
|
9
|
142
|
67
|
|
67.94
|
Piène 148
|
140
|
8
|
91
|
48
|
1
|
65.00
|
Molliéres
169
|
168
|
1
|
166
|
1
|
1
|
99.99
|
Tot. 2982
|
2845
|
137
|
2603
|
218
|
24
|
91.49
|
Un
giovane Giorgio Bocca, allora agli inizi di una lunga e fortuna
carriera giornalistica, fu inviato a seguire le votazioni. Dopo aver
spiegato come il voto fosse avvenuto in una situazione di forte
condizionamento della volontà degli elettori da parte delle autorità
francesi, Bocca concludeva così il suo articolo spiegando perché,
nonostante l'esodo verso l'Italia di molti abitanti, il numero dei
votanti non fosse significativamente cambiato:
«Vi
è piuttosto un altro fatto singolare da notare: chi ha dunque
provveduto a sostituire i 700 profughi? La risposta è semplice: gli
autopullman della Costa Azzurra. Dalle prime ore del mattino essi
hanno cominciato ad arrivare dal Nizzardo carichi di vecchi e
vecchissimi tendaschi. Gente magari che da 30 anni non abita più in
questi paesi e neppure vi ha mai abitato».(14)
Si
chiudeva così nel modo peggiore una brutta pagina di storia iniziata
nel giugno 1940. L'Italia democratica pagava le colpe del regime
fascista e di chi (monarchia, grande industria, alta finanza, chiesa
cattolica) nulla aveva fatto per impedire l'avventura bellica e che
solo nel luglio 1943, a guerra persa, si era riscoperto antifascista.
Col
tempo quelle ferite si sono rimarginate e quegli avvenimenti sono
stati quasi dimenticati. Anche quelle frontiere, allora tanto
aspramente contese, oggi non esistono più, cancellate da un
Trattato, quello di Schengen, che qualcuno vorrebbe rivedere. E'
stato compiuto un grande passo avanti sulla via di quell'Europa
unita e democratica sognata dagli uomini della Resistenza e auspicata
nelle Carte di Saretto e Chivasso. Nonostante ciò più che mai
necessario resta il dovere della memoria come antidoto al riapparire
in una Europa unita e pacificata di pulsioni nazionaliste e xenofobe.
A settant'anni di distanza è giusto ricordare ciò che accadde
allora e le tragedie vissute, non per riaprire vecchie contese o
rivendicare assurdi diritti, né per fare mera opera storiografica,
ma perchè soprattutto fra i giovani la memoria sia argine ai venti
di guerra che tornano di nuovo a spirare nell'Est del continente e
nel Mediterraneo.
Note
1)
Francesco Biamonti, Le parole e la notte, Einaudi, Torino,
1998, p. 85
2)
Roberto Nicco, La Resistenza in Valle d'Aosta, Musumeci
Editore, Aosta 1995, pp. 356-60
3)
Gian Vittorio Avondo-Marco Comello, Frontiere contese tra Italia e
Francia, Edizioni del Capricorno, Torino 2012, p. 107
4)
Ibidem, p. 42
5)
Ibidem, p. 70
6)
Bruno Ciliento-Nadia Pazzini
Paglieri, Ventimiglia,
SAGEP, Genova, 1991, p. 100
7)
Elisabetta Mondello, Italo Calvino, Edizioni Studio Tesi,
Pordenone, 1990, p. 154
8)
Bruno Ciliento-Nadia Pazzini Paglieri, op.cit., p. 101
9) Mario Giovana, Frontiere,
nazionalismi e realtà locali: Briga e Tenda, 1945-1947, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 104-105.
11)
Pietro
Nenni, Tempo di
guerra fredda. Diari 1943-1956,
SugarCo, Milano 1981, p. 252
12)
Andrea Gandolfo, op. cit.
13)
Gian Vittorio Avondo-Marco Comello, op. cit., p. 76
14)
Ibidem, p. 74
(Da: ISREC, Quaderni savonesi, n.40, maggio 2015)