Raffaele K. Salinari
I supereroi dell’oscurità
Archetipi. Nella mitologia dell'epoca moderna sopravvivono i misteri notturni dell'antichità
Dalla Teogonia di Esiodo al Genesi biblico, il Caos da cui viene tratto il Cosmo è sempre percepito come qualcosa di oscuro e nascosto, che contiene però in sé gli elementi eterni della Creazione: per questo la sapienza di ogni tempo invita ad indagarne la natura, orientandoci verso lo svelamento dei suoi arcani. Anche le moderne teorie cosmologiche dicono come la cosiddetta «materia oscura» sia prevalente nello spazio interstellare, e che forse dobbiamo ai «buchi neri» il suo espandersi ed evolversi.
Ma l’oscurità è anche il «luogo» da cui proviene la luce; questa è ciò che nel trattato De Luce, Robert Grosseteste (1168-1253) – filosofo scolastico, fondatore della tradizione scientifica oxoniense – individua come sede della «matrice corporea primordiale», la non-forma in grado di contenere ciò che dà inizio a tutte le forme che ricadono nel divenire. «Quella che si chiama materialità è, a mio avviso, la luce», sostiene, «perché nell’oscurità informale essa, espandendosi in tutte le direzioni a partire da un punto luminoso, delimita un primo aspetto di corporeità». Grosseteste distingue così il Lux, la luce sorgente, emanante, dal Lumen, luminosità irraggiata e diffusa, emanata, definendo la prima come corrispondente all’ideale platonico, la seconda al suo riflesso.
Secoli dopo, il pittore Paul Klee, nelle Memorie, riprenderà visionariamente la tensione tra luce ed oscurità risolvendola, anch’egli, nella relazione estetica tra luce ed energia: «Ora tento di rendere la luce semplicemente quale espressione di energia. A questo devo pervenire, anche se tratto l’energia in nero su sfondo bianco. Ricordo in proposito l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica».
È allora qui, tra fisica e metafisica, tra micro e macrocosmo, che l’immagine dell’oscurità ci trasmette tutto il suo potente dinamismo, l’energia visionaria che esprime quando giungiamo alla confluenza tra questi piani. E così, per la legge di analogia inversa che governa le relazioni tra micro e macrocosmo – riassunta nella formula ermetica «Come in alto, Così in basso» – le forze di cosmizzazione dell’essere individuale agiscono muovendo dagli ambiti nei quali l’oscurità assume le sue molteplici «forme» pur restando sempre la stessa nella «sostanza»: come «parendo inchiusa da quel ch’essa inchiude» (Paradiso, XXX-12).
Questo percorso trasmutativo spirituale – corrispondente alle fasi della Grande Opera, che l’alchimista Francesco Maria Santinelli magistralmente riassumeva nella formula Radius ab Umbra – si nutre dunque di un mistero che alcuni personaggi letterari o certi supereroi dei fumetti, esprimono meglio di tanti libri di filosofia.
Dark e sublime
Nella chiesa di S. Luigi dei Francesi a Roma c’è la tomba di Claude Gellée, detto Lorrain, il pittore che, con Nicolas Poussin, è considerato il maestro del genere «pittoresco». I suoi dipinti divennero l’esempio di questa particolare tipologia pittorica come definita da Edmund Burke nel suo classico A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1756), il saggio in cui l’esteta inglese tenta di definire filosoficamente i concetti di «sublime» e di «bello», legandoli a diverse situazioni, sensazioni, luoghi e via enumerando.
In particolare, non è tanto ciò che si vede, quanto ciò che si immagina, dirà Burke, che suscita il «sublime». E allora, cosa c’è di più evocativo ed allusivo di un qualcosa percepito attraverso un velo di oscurità? Non è questa la situazione di massima virtualità nella quale tutto può essere immaginato, proprio perché soltanto intravisto? E ancora, non è forse l’oscurità una delle fonti massime della paura, dell’inconoscibile, del perturbante; tutti sentimenti che, per E. Burke, costituiscono la base stessa del «sublime».
«Qualunque cosa sia adatta ad eccitare le idee di dolore e pericolo, vale a dire qualunque cosa sia in qualche modo terribile, o abbia dimestichezza con oggetti terribili, od operi in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; cioè produce l’emozione più forte che la mente è capace di provare. Dico l’emozione più forte perché sono convinto che le sensazioni evocate dal dolore sono molto più potenti di quelle del piacere» (I, § 7). Non a caso una parte centrale dell’opera (II §§ 3 e 4), è dedicata all’oscurità ed al suo potere di scatenate una «visione sublime».
«Per fare qualcosa di terribile, l’oscurità sembra in generale essere necessaria. Quando conosciamo la portata di un pericolo, quando possiamo abituare i nostri occhi ad esso, gran parte dell’apprensione svanisce; tutti lo sanno. Chi non considera quanto la notte aggiunge alla nostra paura, in tutti i casi di pericolo, e quanto le nozioni di fantasmi e folletti, di cui nessuno si può formare idee chiare, influenzino le menti che danno credito ai racconti popolari riguardanti questo tipo di esseri? Quei governi dispotici, che sono fondati sulle passioni degli uomini, e principalmente sulla passione della paura, tengono il loro capo il più possibile lontano dagli occhi del pubblico. La politica è stata la stessa anche per le religioni: quasi tutti i templi pagani erano bui . Allo stesso scopo i Druidi eseguivano tutte le loro cerimonie nel seno dei boschi più oscuri e all’ombra delle querce più antiche. Nessuna persona sembra aver compreso meglio il segreto di esaltare, o di impostare cose terribili, se posso usare l’espressione, nella loro luce più forte, con la forza di un’oscurità giudiziosa, di Milton.
La sua descrizione della morte nel secondo libro del Paradiso Perduto è studiata in modo ammirevole; è sbalorditivo con quale cupo sfarzo, con quale significativa ed espressiva incertezza di tratti e colori, abbia terminato il ritratto del re dei terrori». E qui Burke cita questi versi di J. Milton: «Quell’altra forma, se tal nome darsi, Pur puote a ciò che non ha forma alcuna, Distinta in membro od in giuntura, un cieco, Torvo fantasma che sustanza ed ombra, A un tempo stesso rassomiglia, stava, Nera qual densa notte, a par di dieci, Furie crudel, come l’inferno orrenda» (Paradiso Perduto II v. 666 e sgg.).
Esseri nelle tenebre
Seguendo le suggestioni di Burke in merito al potere delle figure, più o meno spaventose o fantastiche, che possono sorgere o vivere nell’oscurità, possiamo menzionare diverse genealogie che hanno una lunga storia in questo senso: il vampiro ed i suoi epigoni, come gli zombie, i personaggi delle fiabe, orchi, streghe, lupi mannari e via enumerando, ed alcuni eroi dei fumetti e della letteratura.
La loro relazione, diremmo vitale, con l’oscurità, deriva da una serie di articolati ed ubiquitari racconti popolari che affondano le radici nelle età forse preistoriche, e che vedono nelle ipostasi correnti di Dracula & Co., sancite a partire dal romanzo di Bram Stoker, negli zombie di G. A. Romero, nella strega malvagia di Biancaneve dei fratelli Grimm, o nel Batman di Bob Kane, solo una parziale galleria di personaggi «reinventati» in epoche recenti. Anche l’oscurità come luogo di occultamento di esseri alieni, vedi il classico Colui che sussurrava nelle tenebre di H. P. Lovecraft, aprirebbe un capitolo sterminato che ci porterebbe veramente troppo lontano.
Il batman
Ora, abbiamo detto, ognuna di queste tipologie ha qualcosa a che fare con l’oscurità, ma qui vogliamo focalizzare su alcuni personaggi dei fumetti e della letteratura, che ben illustrano la relazione, per così dire, tra la tenebra e la sua luce.
Cominciamo con il Batman, l’uomo pipistrello. La storia è nota: figlio di un magnate filantropo, vede i genitori uccisi durante una rapina e giura di dedicare la vita a combattere il crimine. Ed ecco il suo ragionamento: i criminali sono superstiziosi e dunque per generare in loro la paura devo assumere un simbolo della notte: il pipistrello. Ma proprio la sua maschera finirà, non per respingere i criminali, ma per attirare quelli più malvagi e crudeli, anch’essi legati all’oscurità che diventano, con passare degli anni, parte stessa dell’uomo pipistrello.
Il Joker, il Pinguino, la Donna gatto, Due-Facce, sono infatti tutti personaggi che vivono nell’oscurità come lui, esseri notturni che hanno con il Batman una manifesta relazione di odio amore; sono, in sintesi, i suoi doppelgänger. Anche il Batman, alla fine, non potrà più liberarsi della maschera tenebrosa, e la sua dimora sarà quella di un vero e proprio pipistrello: la bat-caverna. Ritiratosi infine a vita privata, seppur profondamente turbato da una pulsione di autodistruzione, il Cavaliere Oscuro dovrà tornare sulla scena, oramai invecchiato ed incattivito, per combattere una nuova genia di criminali mutanti. Riuscirà a sconfiggerli, ma al prezzo di richiamare in attività anche i suoi più mortali nemici, dormienti nella fase di sonno del Batman.
L’ombra che cammina
Un altro eroe che condivide con il Batman le stesse determinanti simboliche, è certo Phantom, in italiano l’Uomo mascherato, detto anche l’Ombra che cammina. Implacabile nemico dei pirati, vive anch’egli in una caverna, la «caverna del teschio», e viene creduto immortale dalle popolazioni locali perché passa la sua maschera di generazione in generazione. Solo i fidi pigmei Bandar conoscono e custodiscono il suo segreto, anch’esso nato da un antico giuramento effettuato sul teschio del genitore ucciso. Anche qui la fedeltà all’ombra paterna fonda l’agire nell’oscurità.
Ora, sia nel caso del Batman che di quello dell’Ombra che cammina, appare chiara la relazione tra la luminosità, per così dire, dei loro ideali di giustizia, e la necessità di agirli attraverso la tenebra, il buio. Questa tonalità oscura, che non a caso entra a far parte del loro nome come un presagio, nomen omen, li accompagna ovunque nelle avventure, li avvolge come i loro mantelli, li cela alla vista al pari dell’immancabile e insvelabile maschera.
Seguendo il plot delle storie ci si accorge infine del come, ad un certo livello di profondità del male, sia naturale che la tenebra non possa essere sconfitta che da se stessa, per così dire capovolgendone il senso.
Mandrake e Diabolik
Di segno opposto, e dunque assolutamente complementare, è Mandrake il mago. Nato dalla immaginazione di Lee Falck e Phil Davis, la sua elegante figura sempre vestita in frak con tanto di cilindro e bastone, che non a caso affascinava Umberto Eco, può invece agire la sua magia solo in piena luce. Ed ecco, come in una nemesi speculare a quella del Batman e dell’Ombra che cammina, che le sue avventure si ambienteranno sempre in luoghi oscuri, dove dovrà affrontare nemici che sono potenti solo nelle tenebre: Saki, il cammello di argilla, che agisce nel labirintico suk delle città orientali tra travestimenti e pugnali volanti, o il Cobra, negromante malvagio, un tempo suo stesso maestro di magia, che ha tradito il giuramento della scuola iniziatica.
Mandrake non porta maschere perché deve significare la sua magia bianca senza travestimenti; sono i suoi occhi nudi il centro del volto radiante magnetismo mesmerico. E proprio in questo particolare somiglia specularmente ad un altro eroe negativo, Diabolik delle sorelle Giussani, che non porterà la maschera esattamente per significare che invece appartiene tutto all’oscurità, perché di essa è figlio. Egli, infatti, è totalmente coperto dalla calzamaglia nera, ma ha significativamente esposti gli occhi, lo «specchio dell’anima», la cui luce smeraldina nelle tenebre brilla solo per l’amata Eva Kant, scopo e riscatto della sua vita criminale.
Ecco allora come, in queste storie pop, forse in modo ancora più chiaro che nei testi filosofici, vediamo appalesarsi il significato di luce dell’oscurità. Ognuno degli eroi citati, infatti, ha in se stesso un lato oscuro contro il quale perennemente combatte; ed è proprio attraverso questa lotta interiore che riesce infine a sconfiggere il male fuori di lui. Nel caso di Diabolik sarà l’amore che genererà la luce delle tenebre: stesso risultato da polarità opposta.
Jekyll e Hyde
Concludiamo questa carrellata di personaggi tra luce ed oscurità con un esempio letterario: quello di R. L. Stevenson nel suo romanzo gotico Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde. Il dottor Jekyll esprime così il tentativo di separare interiormente le sue due opposte dimensioni: «Pensavo che se ognuno di questi [lui e Hyde N.d.A.] avesse potuto essere confinato in un entità separata, allora la vita stessa avrebbe potuto sgravarsi di tutto ciò che è insopportabile. Come fare, allora, a separarli?».
In realtà le sponde della metafora utilizzata da R. L. Stevenson sono molto più distanti di ciò che appare, poiché ciò che separa i due aspetti del protagonista è, a ben vedere, l’analogo della scissione operata dalla modernità tra umanità e mondo: un simbolo che ricollega micro e macrocosmo, come ogni testo della letteratura universale è in grado di fare. Il prezzo di questa condizione è oggi altissimo: basti pensare ai fenomeni climatici estremi, o ai continui spillover con le loro conseguenze epidemiologiche, Covid incluso; la stessa rottura che scinde mondo ed individuo si rispecchia nella trasformazione di Jekill in Hyde.
È interessante notare come questo processo, che Jekill chiama non a caso «semplificazione», sia dovuto non ad una formula precisa e ripetibile, come vorrebbe lo scientismo moderno, ma ad una singola impurità casuale contenuta nella pozione che, una volta assunta, rompe irreversibilmente l’ordine del soggetto; il Dottor Jekill, infatti, non sarà mai più lo stesso, anche quando riuscirà a «tornare normale».
L’impurità che entra in Jekill è, allora, la metafora del nostro stesso «lato oscuro». Hyde si guarda spesso allo specchio, ma è in realtà Jekill che si osserva alla ricerca di una verità che solo gli occhi di Hyde possono svelargli. E così – questa è la potenza simbolica della storia – nel momento della visione, del rispecchiamento, si ricompone il personaggio autentico: Hyde e Jekill insieme, non semplificati ma complessificati, metafora di noi tutti che solo attraverso il contatto con l’impurità, l’ombra che è in noi, il passaggio nell’oscurità, scopriamo il confronto che apre e comunica.
Il Manifesto/Alias – 23 maggio 2021