Sono tre i luoghi dove il cielo stellato manifesta la sua potenza numinosa in tutta la sua terrificante e fascinosa bellezza: il deserto, l'alta montagna e il mare aperto. In questo suo ultimo lavoro Raffaele Salinari documenta il carattere archetipico e non meramente culturale di questo richiamo. Detto in altri termini il cielo stellato ci affascina in quanto uomini e non perché figli del Romanticismo.
Raffaele K. Salinari
Navigatori del cielo stellato
«Sulla spiaggia di Sidone un toro tentava di imitare un gorgheggio amoroso. Era Zeus. Fu scosso da un brivido, come quando i tafani lo pungevano. Ma questa volta era un brivido dolce. Eros gli stava mettendo in groppa la fanciulla Europa. Poi la bestia bianca si gettò in acqua, e il suo corpo imponente ne emergeva abbastanza perché la fanciulla non si bagnasse… Europa intanto non vedeva la fine di quella pazza navigazione. Ma immaginava la sua sorte quando avessero toccato terra… Arrivarono ad una grande isola: Creta».
Cosi Roberto Calasso inizia il celebre Le nozze di Cadmo ed Armonia, saggio insuperabile di divulgazione dei miti Greci, di quelle storie che, come dice Sallustio nel suo Sugli Dei e il mondo, «non avvennero mai ma sono sempre». Da questo mito possiamo inferire molte cose, risalire ad esempio al principio fondativo della conquista dell’Europa, qui ipostatizzata da una giovane donna che proviene dalle spiagge dell’Asia minore, da Sidone appunto, rapita e violentata dal signore degli Dei, come di fatto, sino alla svolta europeista dopo il secondo conflitto mondiale, fu inteso il suo dominio da parte dei vari regni, imperi, stati in lotta tra loro, da quello romano al Sacro romano impero, dalla Francia napoleonica alla Prussia, dalla Germania nazista all’Italia fascista e via enumerando. D’altra parte possiamo anche leggere nella genealogia di questo episodio il seme dell’ostilità tra Asia ed Europa, che Omero ha cantato magistralmente nell’Iliade.
Ma il mito come narrazione archetipica, capace cioè di svelarci le radici stesse della storia umana, è una manifestazione simbolica della realtà, e dunque racchiude in sé piani di lettura anche molto diversi tra loro, benché tutti irradiati da uno stesso “fuoco”, come le immagini di un caleidoscopio, sempre diverse anche se illuminate dalla stessa luce.
A. K. Coomaraswamy, studioso delle relazioni tra culture tradizionali di Occidente ed Oriente insieme a Renè Guénon, hanno evidenziato nei loro lavori sul significato esoterico del mito, come esso sia la «verità penultima» di cui ogni esperienza è il riflesso reale. In questo orizzonte di significati si inserisce anche la possibilità che il racconto mitologico, o la favola popolare, siano strumenti per tramandare antiche verità, oramai perse da tempo per l’esperienza dell’umanità attuale, degradate, dimenticate, ma che nell’antichità forse preistorica servivano per produrre effetti concreti, utili alla vita di ogni giorno. Questa è la tesi, estremamente documentata ed affascinate che propone Giorgio De Santillana nel suo Mulino di Amleto, quando ci narra dei racconti che conterebbero, sotto forma di leggenda popolare, ad esempio il cambio dell’eclittica che ha riposizionato le costellazioni celesti migliaia di anni or sono.
La navigazione celeste
E allora, posiamo trovare qualche indicazione pratica anche nel mito di Europa? In quel suo viaggio sulla groppa di Zeus teriomorfo che parte dalla spiaggia di Sidone ed arriva a Creta? Pare proprio di sì, ed a suggerirlo sono le parole stesse che usa Calasso nel suo incipit quando parla della «pazza navigazione» di Europa sulla groppa del dio. Calasso non era a conoscenza di ciò che stiamo per dire ma, proprio per quella caratteristica intrinseca al mito che lui conosceva bene, forse qualcosa aveva già intuito.
E infatti, uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Mediterranean Archaeology and Archaeometry, suggerisce che i marinai della civiltà minoica, il cui culmine possiamo datare all’Età del Bronzo che fiorì dal 2600 al 1100 a.C. e dunque immediatamente prima della guerra di Troia, navigassero orientandosi con le stelle utilizzando tecniche simili a quelle impiegate dalle culture polinesiane e micronesiane negli stessi secoli.
In particolare l’archeologo Alessandro Berio, ha avanzato delle ipotesi molto suggestive del fatto che l’antica civiltà minoica avesse elaborato tecnologie nautiche per sostenere i commerci marittimi, direttamente legati all’espansione della sua cultura e della sua ricchezza in tutto il Mediterraneo. La bellezza, ma anche l’opulenza dei suoi palazzi senza mura, i giochi sacri come la taurocatapsia che ancora vediamo effigiati negli affreschi della reggia di Cnosso, il mito stesso di Minosse il «talassocratore» e del labirinto di Dedalo con il suo Minotauro, testimoniano, infatti, di una civiltà che evidentemente dominava gli scambi marittimi ed era in grado di trasportare merci da una sponda all’altra del vasto mare, soprattutto a causa della sua posizione geografica.
L’idea di cognizioni legate alla navigazione con l’aiuto delle stelle nasce dall’osservazione di una corrispondenza astronomica tra l’orientamenti dei principali palazzi dell’antica civiltà minoica e le direzioni di navigazione delle rotte più importanti: in particolare l’asse più lungo delle grandi corti centrali rettangolari, caratteristica distintiva dell’architettura palaziale minoica, era orientato nel senso delle rotte stellari da seguire.
Nello specifico, e questa è la suggestione più importante, l’analisi delle piantine ha mostrato come l’asse dei palazzi minoici fosse orientato verso il sorgere o il tramontare di stelle portanti per la navigazione, che avrebbero dunque tracciato la rotta per i marinai verso le destinazioni commerciali dell’Oriente e del nord Africa. È quindi possibile che i minoici avessero elaborato una sorta di “percorsi stellari”, molto simili, nella tecnica, a quelli delle cosiddette “costellazioni lineari” della tradizionale navigazione stellare polinesiana conosciuta come kaveinga.
Certo la navigazione con l’orientamento stellare era conosciuta dai Greci omerici, come testimonia questo brano dell’Odissea: «Lieto l’eroe dell’innocente vento, La vela dispiegò. Quindi, al timone sedendo, il corso dirigea con arte, Nè gli cadea su le palpebre il sonno, Mentre attento le Plejadi mirava, E il tardo a tramontar Boóte, e l’Orsa, Che detta è pure il Carro, e là si gira, Guardando sempre in Orione, e sola nel liquido Ocean sdegna lavarsi: L’Orsa, che Ulisse, navigando, a manca Lasciar dovea, come la Diva ingiunse». (V, vv. 345-355 nella traduzione di Pindemonte). Ma qui siamo oramai verso l’anno mille a.C., mentre il mito è senza tempo e certo molto anteriore alla storia narrata dal cantore cieco.
Tornando ora al mito di Europa, è interessante notare come un esempio tra i più chiari di “percorso stellare” sia proprio Spica nella costellazione della Vergine, sulla cui traiettoria che collega il palazzo di Cnosso a Sidone è orientato l’asse maggiore della costruzione. Ecco, allora, che la rotta tra Sidone e Creta, adombrata nel racconto, quella «navigazione» di cui parla Calasso, è forse uno dei contenuti nascosti del mito, all’epoca certo praticato e conosciuto in tutte le sue sfaccettature, oggi solo da noi moderni intuibile nelle sue insondabili profondità.
Un ulteriore esempio è la corte centrale del palazzo centrale di Kato Zakro, l’ultima delle grandi costruzioni minoiche venute alla luce. Questa ha un orientamento che si allinea, seguendo una traiettoria lossodromica, che tiene cioè conto del fatto che la superficie terrestre è curva, verso l’antica città di Pelusium, in arabo Tel-el- Farama, rinomata nell’antichità per la sua birra, le cui rovine giacciono a circa 30 km a sud est dell’attuale Port Said alla foce del Nilo. È interessante tornare sulla definizione che la Treccani ci dà della tecnica di questa navigazione marittima poiché essa consiste nel «mantenere per tutto il tragitto l’angolo della prua rispetto alla direzione del nord indicata dalla bussola (o desunta in altro modo), cosicché la nave taglia tutti i meridiani con un angolo costante: la rotta che ne risulta (rotta l.) è la più semplice da seguire ma, a differenza della rotta ortodromica, non rappresenta in generale il percorso più breve per raggiungere la destinazione». Ora, al di là delle questioni astronomiche, appare evidente come chi applichi questa tecnica sappia bene che la Terra è rotonda, acquisizione dunque molto antica e non certo riferibile all’epoca della cartografia moderna.
Le stelle del Pacifico
Dall’altra parte del mondo, negli arcipelaghi del Pacifico, la navigazione stellare era nota da tempo. Le vestigia preistoriche in ceramica di queste pratiche sono raggruppate in quello che gli archeologi chiamano Civiltà Lapita, che sembra essere apparsa sulle isole Bismarck fra il 1.600 ed il 1.400 a.C. I portatori della ceramica lapita colonizzarono una regione che comprendeva le attuali Fiji orientali, le Tonga, le Samoa ed altre isole. Da queste vennero in seguito popolate le isole Marchesi e della Società, gli arcipelaghi della Polinesia centro-orientale fino a giungere a Rapa Nui (l’isola di Pasqua), le Hawaii e Ao-tea-roa (la terra della grande nuvola bianca) cioè l’attale Nuova Zelanda.
Il primo dato che emerge è come si sia più o meno nel medesimo periodo storico dell’età del bronzo minoica, nella quale si sviluppa la stessa tecnica della navigazione stellare. Ancora oggi, negli arcipelaghi polinesiani, i marinari rievocano nei canti e nei loro miti di fondazione queste tecniche: «Pianta il tuo seme, spargilo al vento, tu puoi morire ma la forza della vita resta, il flusso delle correnti ti aiuterà, o viaggiatore».
In tutto il Pacifico il cielo veniva rappresentato come una cupola, o come una serie di cupole sovrapposte. Anche qui, la corrispondenza tra la volta celeste e la curvatura della Terra rappresentava la base per l’orientamento. Sappiamo, ad esempio, che gli antichi navigatori polinesiani erano consapevoli che l’altezza della Stella Polare al di sopra dell’orizzonte settentrionale era uguale alla latitudine del luogo in cui ci si trovava. Quelli che invece navigavano a sud dell’equatore usavano invece il sistema di una stella allo zenit.
Il navigatore sacerdote Tupaia
Ma, forse, il personaggio più emblematico di questi antichi saperi, e della possibilità che siano giunti sino a noi, è certamente Tupaia. Era nato nel porto di Ha’amanino sull’isola di Ra’iatea delle Society Island intorno al 1725, e divenne uno dei principali sacerdoti ariori per il Taputapuatea marae di Ra’iatea, luogo sacro per i Maori della Polinesia Orientale e centro di una vasta rete politico-religioso-culturale del triangolo polinesiano. L’area è chiamata Te Po, cioè «dove risiedono gli dei». Il marae originale era dedicato al dio Ta’aroa. Successivamente, il dio ‘Oro , dio della vita e della morte, fu venerato al suo posto. Secondo la mitologia polinesiana, il discendente di ‘Oro, Hiro, costruì i marae dandogli il nome di Taputapuatea, che significa «luogo dei sacrifici» e dunque centro sacro. La pietra bianca Te Papatea-o-Ru’ea ancora visibile sulla spiaggia, fu ad esempio usata per consacrare i capi di Ra’iatea con la cintura maro’ura dalle piume rosse. Con la diffusione della venerazione di ‘Oro, Taputapuatea divenne così il centro di una rete di navigatori oceanici.
Il marae era dunque anche un luogo di apprendimento dove si riunivano sacerdoti e navigatori di tutto il Pacifico per offrire sacrifici agli dei e condividere le loro conoscenze sull’origine genealogica dell’Universo, ma anche sulla navigazione che, come nel caso della cosmologia greca, erano pratiche strettamente correlate. Ecco che allora Tupaia venne addestrato sulla cosmologia ed anche ad essere un navigatore stellare. Le sue conoscenze includevano interi elenchi di isole, le loro dimensioni, la forma della barriera corallina e le posizioni dei porti, se erano abitate e cosa si produceva. Ancora più importante, la sua arte navigatoria comprendeva la posizione di ogni isola, il tempo per arrivarci e la successione di stelle e isole da seguire per tracciare la rotta. Queste isole includevano le Isole della Società, le Isole Australi, le Isole Cook, oltre a Samoa, Tonga, Tokelau e Fiji.
Quando, nel 1763, i guerrieri di Bora Bora invasero Ra’iatea, ferendo Tupaia e costringendolo a fuggire a Tahiti, il sacerdote navigatore cercò la protezione dal capo di Papara, Amo, e da sua moglie Purea. Tupaia divenne così loro consigliere e sommo sacerdote. Infine si imbarcò sull’Endeavour di James Cook nel luglio 1769 quando il Capitano passò per la sua isola natale di Ra’iatea nel viaggio di andata da Plymouth. Fu accolto a bordo su richiesta di Sir Joseph Banks, botanico ufficiale della spedizione, sulla base della sua evidente abilità di navigatore e cartografo: quando gli furono richiesti i dettagli della regione, Tupaia disegnò una carta che mostrava tutte le 130 isole entro un raggio di 3200 km e fu in grado di citarne a memoria ben 74.
La mappa di Tupaia
L’originalità di questa celebre mappa consiste nel fatto che mette in relazione due diverse visioni cartografiche, e dunque del mondo: unisce, infatti, le tecniche di navigazione non strumentale dei polinesiani, in particolare la “bussola” rappresentata dalle isole, alle rilevazioni mediante i sestanti e bussole inglesi. Questa compresenza di metodi diversi ha impedito a lungo una lettura univoca della mappa: formalmente paragonabile a una classica mappa occidentale con punti cardinali, meridiani, paralleli e contorni delle isole, la sua decifrazione pone in realtà altri problemi in quanto alcune isole sembrano mal posizionate, altre addirittura non sono identificate.
Queste difficoltà, questa «crisi della ragione cartografica» direbbe il geografo Franco Farinelli, sorge dal fatto che la mappa di Tupaia è in realtà costituita dai compassi delle isole. A differenza delle carte nautiche occidentali, infatti, la posizione delle isole è relativa al punto centrale della bussola: l’isola o addirittura la canoa su cui si trova il navigatore. Questo documento illustra quindi la visione polinesiana dello spazio marittimo e del movimento al suo interno: data la rotazione della Terra, il cielo è in moto perpetuo sopra e tutt’intorno alla canoa. Una visione dinamica ben diversa da quella fissata nelle mappe occidentali che, appunto, cercano di definire e limitare lo spazio più che di capirlo. Nelle rappresentazioni dei marinai polinesiani, invece, l’imbarcazione diventa il centro di una serie di settori, chiamati “case”, ognuno con un suo nome che comprendeva informazioni riguardanti il passaggio del sole, le stelle, il loro sorgere e tramontare, e così via. Queste conoscenze mostrano, allora, un diverso rapporto con la traiettoria, con il movimento: il punto di riferimento è la canoa, è l’oceano che si muove. Torna così la visione eraclitea dell’esistenza: tutto scorre, mai ci bagneremo una seconda volta nell’acqua dello stesso fiume.
Il Manifesto/Alias 1 aprile 2023