Un anno fa, il 2 settembre 2009, moriva Luigi Cortesi, uno studioso fondamentale per il processo di formazione politico-culturale della generazione del '68. Lo ricordiamo pubblicando la recensione (che apparirà nel prossimo numero di Guerre & Pace in uscita a fine settembre) del suo ultimo lavoro di Gianluca Paciucci.
Luigi Cortesi (Bergamo, 31 gennaio 1929 – Roma, 2 settembre 2009) è stato uno storico italiano, che si è occupato della storia del socialismo, del comunismo e del movimento operaio, con particolare riferimento alla nascita del PSI e del PCI. Oltre all'impegno di storico, Cortesi è stato molto attivo nei movimenti per la pace e per l'ecologia.
Dopo aver partecipato giovanissimo alla Resistenza, nel dopoguerra inizia il suo itinerario di studioso del movimento operaio e di militante (in realtà poco ortodosso, Cortesi non fu mai stalinista)del PCI. A Milano collabora con Franco Della Peruta, Stefano Merli e Giuliano Procacci presso l'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, di cui dirige la Biblioteca. Già direttore della “Rivista storica del socialismo”, nel 1988 fonda e dirige la rivista “Giano. Pace ambiente problemi globali". Per molti anni è stato ordinario di Storia contemporanea all’Istituto Universitario Orientale di Napoli.
Dopo aver partecipato giovanissimo alla Resistenza, nel dopoguerra inizia il suo itinerario di studioso del movimento operaio e di militante (in realtà poco ortodosso, Cortesi non fu mai stalinista)del PCI. A Milano collabora con Franco Della Peruta, Stefano Merli e Giuliano Procacci presso l'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, di cui dirige la Biblioteca. Già direttore della “Rivista storica del socialismo”, nel 1988 fonda e dirige la rivista “Giano. Pace ambiente problemi globali". Per molti anni è stato ordinario di Storia contemporanea all’Istituto Universitario Orientale di Napoli.
Gianluca Paciucci
Contro il comunismo, per il comunismo
UN ANNIVERSARIO.
A un anno dalla morte di Luigi Cortesi (2 settembre 2009), questa recensione dell'ultima sua fatica è l'omaggio a un uomo integro, combattivo e sereno, a uno studioso infaticabile, a un'assenza che addolora. “Contro il comunismo, per il comunismo”, come alcuni studenti sloveni scrissero su uno striscione visibile nella Facoltà di Filosofia di Lubiana nel 1970: potrebbe essere il senso di questo ampio volume, poderoso per qualità e forza del pensiero. Quasi un'opera narrativa, questa Storia del comunismo, grandiosamente adeguata al grandioso assalto al cielo del secolo passato. Utopia e Termidoro sono i confini stabiliti di una ricerca che avrebbe dovuto continuare (1): il termine a quo si perde nei secoli e nei millenni -Cortesi parla di “naturalezza storico-antropologica del comunismo” (p. 19)-, mentre quello ad quem è facilmente, e ormai quasi unanimemente, databile negli anni tra il 1924 e il '27; è inoltre situabile nell'Unione Sovietica dove intorno alla morte di Lenin venne ritracciata la strada al 'ritorno all'ordine' staliniano. È vero anche che nessun Termidoro è mai riuscito a scalzare dalla vicenda storica la lunghissima durata della Rivoluzione (di questa come di altre), ovvero del più grande tentativo mai realizzato di modificare le strutture economiche e relazionali tra le classi sociali e gli esseri umani, così che il sottotitolo del libro di Cortesi potrebbe essere semplicemente invertito, “Da Termidoro all'Utopia”, per raccontare l'oggi.
CONTRO LA GUERRA, CONTRO LO STATO.
Quattordici capitoli, una prefazione e un epilogo, corredati da fitte note (2) e da una ricca bibliografia, a malapena trattengono il materiale studiato, come reti metalliche a frenare la caduta di pareti di roccia: esso deborda, e solo le ragioni di una militanza multipla (socialcomunista, pacifista, ambientalista, antinuclearista), propria dell'autore, sanno evitare il crollo e permettono un viaggio lucido e confortevole. Chiaro è il nesso iniziale che lega il comunismo ideale e quello reale in una situazione specifica: la cosiddetta Grande guerra e i suoi crimini segnano l'orrore radicale da cui scaturiscono la volontà e l'occasione di sovvertire l'esistente. Tra mille contraddizioni e dissidi, il gruppo più vicino a Lenin agisce animato dall'obbligo dell'obbedienza alle alte intenzioni espresse in opere e atti, e la miseria del quotidiano, fatto di violenza e di paura. “...Va cioè registrato come dato caratterizzante che il comunismo novecentesco nasce dal fallimento della Seconda Internazionale, e si differenzia drasticamente da questa rifiutando i compromessi nazionalisti e affrontando in tutta la sua concretezza e nei suoi contorni più brutali il problema della guerra. Il comunismo è la forma più alta e più radicale d'un pacifismo che a sua volta aveva fallito. La stessa rivoluzione russa fu una rivoluzione contro la guerra, e fu in nome dell'internazionalismo e della pace e in una prospettiva universalistica che venne fondata l'Unione Sovietica...” (p. 283); e, poco più avanti: “il comunismo novecentesco era nato dalla coscienza del male storico avanzante”. Questa è la prima pietra, ormai da molto scheggiata e scartata, di un edificio la cui intenzione fondamentale era solida: fermare l'avanzata del male storico, non certo di quello metafisico ed eterno; e ciò era ben presente, sostiene Cortesi, nel pensiero e nell'azione di Luxemburg, Lenin, Bucharin e Trockij, ovvero dei fondatori della III Internazionale. Proprio qui risiede la differenza insanabile con il pensiero reazionario, quest'ultimo rassegnato (ma con il sostegno dei grandi istituti bancari e delle mafie, e sostenuto da eserciti e polizie) alla inevitabilità della guerra e del male, storico e metafisico confusi, in un mondo naturalmente consegnato, nel 1914 come nel 2010, alla follia bellica.
Se la risposta rivoluzionaria alla guerra è l'atto fondante del comunismo novecentesco, il manifesto teorico ne è Stato e rivoluzione (1918) di Lenin, il cui “target è europeo e internazionale, così come lo scenario evocato. Esso va considerato come la più alta testimonianza di un progetto che non poté avere attuazione, di un 'comunismo inedito' che non poté essere praticato né avviato a sperimentazione non solo come ordinamento di emancipazione sociale, ma anche come linea di liberazione del soggetto dai coaguli mentali di reificazioni e feticismi che ne inibiscono la realizzazione. Un progetto, quindi, la cui esigenza non è stata cancellata dal secolo trascorso e si fa anzi più urgente sotto i colpi di uno sviluppo capitalistico che dilania il mondo...” (p. 227). Comunismo contro la Guerra e contro lo Stato, che dovrà “estinguersi”, con corollario d'accuse di filoanarchismo: due progetti paralleli, ma estinto il primo nella tragedia subìta del comunismo di guerra (inizialmente un ossimoro),(3) per la condotta criminale delle potenze antibolsceviche; schiacciato il secondo nel rafforzamento spaventoso della struttura statuale sovietica dettato dalla necessità di una storia tagliente, e nondimeno segno di accettazione della realtà così com'è anche dalle più alte cariche del Partito, anche dai bolscevichi più intransigenti. Accettazione come involuzione reazionaria. “...Il passaggio dalle altezze del 1917 agli orrori del '37 e alla facilità della liquidazione del 1989-'91 pone grandi problemi, e forse l'intero problema della costruzione storica. Eppure, non è possibile dimenticare o sottovalutare gli aspetti nuovi dell'eleborazione ideale e della costruzione politica del comunismo rivoluzionario, il suo contributo alla liberazione dell'uomo, proprio quello che il potere staliniano avrebbe ferocemente contrastato...” (p. 300). Qui, come in altri passaggi, Cortesi non nasconde la sua perplessità e la sua irritazione nei confronti di una regressione storica che doveva/poteva essere fermata, ma che le rigidità dell'ortodossia hanno vigorosamente favorito.
COSTRUZIONE DELLO STALINISMO.
Il 1917 ha poi un'altra responsabilità, anche questa non inevitabile, ovvero l'aver legato dogmaticamente i destini della Rivoluzione a quelli dell'Unione Sovietica (“russocentrismo”), a detrimento delle più avanzate visioni del marxismo occidentale (normalizzazioni e obbedienze sempre più cieche richieste da Mosca, interventi “ex cathedra” di Zinov'ev contro Lukàcs e Korsch, etc.). L'analisi di Cortesi si indirizza, in pagine efficaci, all'esame dei vari tentativi di rivoluzione fuori dall'URSS nel primo dopoguerra (Germania, Ungheria) e della nascita dei vari partiti comunisti, con particolare attenzione ai casi tedesco, francese e italiano (nel “livornismo” italiano spicca la rigorosa figura di Bordiga, colpevolmente estirpato dalle storie ufficiali e dal patrimonio storico della sinistra italiana). Le speranze di una rivoluzione in occidente (nel 1923 si chiude di fatto la fase rivoluzionaria tedesca e s'apre quella nazionalsocialista con il putsch, sia pure farsesco, di Monaco) falliscono quasi contemporaneamente al manifestarsi della malattia di Lenin, alle incertezze relative alla Nuova Politica Economica e all'irrigidimento del partito bolscevico. “...Durante la malattia di Lenin s'era delineata un'alleanza tra Zinov'ev, Kamenev e Stalin, e le incertezze sul problema tedesco furono certo influenzate dal timore che Trockij avrebbe tratto dal successo del movimento maggior potere in URSS e nel comunismo internazionale (...). La trojka si saldò appunto sullo sfondo del fallimento del comunismo tedesco, e i fatti del 1923 fornirono alimento al contrasto latente nel partito bolscevico. L'assenza di Lenin gravò su tutta la situazione in modo determinante. Entro breve tempo sarebbe stata la stessa rivoluzione russa ad entrare in crisi...” (pp. 506-7). Il ruolo della 'personalità' nella storia è sempre ambiguo, fondamentalmente alienante/umiliante (il leaderismo invocato dalle sinistre italiane d'oggi non ne è che una mediocre riproposizione), ma è certo che la grandezza di Lenin incarna desideri e proiezioni di tutta un'epoca, in ascolto della forza delle masse che accompagnano/subiscono la travolgente attività del capo della Rivoluzione mondiale. La sua malattia e morte, il suo rigor mortis provocarono l'irrigidimento di tutto il Partito e di tutto il Paese dei Soviet: ciò che aveva rivestito il carattere della provvisorietà e delle eccezionalità, divenne struttura permanente e scelta. Nel capitolo “Kronštadt, il punto 7 e la Nep. Democrazia e rivoluzione” (p. 438 e segg.) Cortesi affronta le contraddizioni principali del leninismo: “...Lo stesso pensiero di Lenin, di fronte al nesso sopravvivenza-terrore, ebbe un netto ripiegamento, constatabile nella dissolvenza della tematica di Stato e rivoluzione, orgogliosamente rivendicata ma schiacciata da una serie di stati di necessità. Lo scadimento procede di pari passo con l'inevitabile decadenza dei Soviet e con l'emergere del partito come unico scoglio nella tempesta, ed è impressionante. Forse è lì il vero 'giro di boa' non solo dell'elaborazione ideale della rivoluzione, ma della rivoluzione stessa. È in ogni caso la fine della sua forza propulsiva immediata, il passaggio ad una fase difensiva dall'esito ignoto...” (p. 449). La morte di Lenin porterà a compimento tutte le tendenze più distruttive di questa fase della Rivoluzione: le ripetute “crisi di estraneità” di Trockij (assente ai funerali del leader bolscevico; non si oppone alla segretazione del cosiddetto 'testamento di Lenin') impediscono il coagularsi di un fronte di critica organizzata all'emergere di Stalin, abile e moderato in questa fase, capace di sconfiggere gli avversari su un terreno prettamente politico; inoltre la crescita economica tra il 1924 e il '25 darà fiato ai fautori più radicali della Nep, per nulla preoccupati della rinascita di elementi di capitalismo nella Russia dei Soviet (resa alla 'inevitabilità' delle logiche del mercato) e delle necessità di uno sviluppo industriale anche basato sulla sottrazione sistematica delle ricchezze prodotte dalla campagna (il 'destro' Stalin sconfigge politicamente la 'sinistra' trockista, ma ne adotta ed estremizza le politiche anticontadine, fino ai massacri della 'dekulakizzazione'). La costruzione dello stalinismo diventa il risultato di due altre costruzioni: quella del 'trockismo' come male assoluto, in un'impressionante campagna di stampa; e quella del 'leninismo' come sacro e indiscutibile patrimonio.(4) Alla fine di questa fase di lotte accanite, il moloch sovietico si caratterizzerà per “una serie di antinomie: tra economia pianificata e lavoro comandato, fine della proprietà privata e possesso statale, potenzialità di emancipazione e negazione dei diritti, sviluppo culturale e limiti della partecipazione critica: deriva e capovolgimento delle finalità umanistiche del comunismo, contraddizioni insanabili che culminano nello stragismo degli anni '30. Le malattie sociali del capitalismo non erano state superate, ed altre se ne erano aggiunte...” (p. 708). Solo l'esito vittorioso della Seconda guerra mondiale (socialpatriottica) prolungherà la vita dell'URSS fino all'implosione poco clamorosa del 1991 (i clamori verranno dopo, e ancor oggi sentiamo tutte le grida di dolore della costruzione del socialismo e della sua dissoluzione).
LA COMPLICAZIONE.
Merito affascinante dell'opera di Cortesi è quello di condurci attraverso gli eventi di un secolo senza che mai la tensione cali, guardando sia alla Storia maggiore (idee e fatti) sia alla “vita popolare quotidiana”, ai “rapporti sociali nella loro concretezza” (pp. 727-8, in particolare), oscillando tra due poli, con accorata e non definitiva prevalenza del secondo: da una lato l'assunzione di tutte le vicende del comunismo, nessuna esclusa, senza angelismi né demonizzazioni, contro le tendenze di un antistorico e autoassolutorio ritorno a un Marx ripulito da tutti i marxismi e i comunismi del Novecento; dall'altro il ripudio di quanto di più atroce dal nome comunismo (o in nome di questo nome) è stato generato. La ferocia degli anni dello stalinismo “non aveva nulla a che fare con le durezze della lotta di classe, né con il naturale autoritarismo della rivoluzione, né con il ricorso difensivo al terrore nella guerra civile; qualcosa di totalmente estraneo al marxismo e di repellente al movimento operaio e alla sua cultura” (p. 728). Questo presunto tradimento è l'impasse, questa è l'irrisolta 'complicazione' (ne ha scritto benissimo Claude Lefort)(5) portata dal comunismo, questa è la sfida attuale, tra spossatezze e crimini di nuova generazione. Non viverla insieme a Luigi Cortesi ci fa più deboli, e ci responsabilizza.
Note
1. Cortesi scrive che il suo “volume giunge fino al punto in cui sono già ben presenti i prodromi d'una crisi profonda del comunismo; ma esso anticipa in un riepilogo le prospettive del comunismo, sia ideale sia reale, fino al 1945. E' nelle mie intenzioni affrontare, in un successivo volume, il periodo dello stalinismo e le sue tracce profonde... ” (p. 21).
2. Note purtroppo fornite in ordine crescente in tutto il libro, e non per singolo capitolo, fino a raggiungere il numero ingestibile di 1534, in un volume già poco maneggevole per dimensioni. Ma queste sono le sole critiche da rivolgere a una pubblicazione meritoria.
3. “...La guerra civile fu in concreto largamente internazionale e non fu promossa, ma subita dal governo rivoluzionario; fu una guerra condotta con estrema durezza, anche con crudeltà, ma prettamente difensiva (...). I bolscevichi non inventarono né il campo di concentramento, né il terrore, né lo sterminio – elementi della cultura di guerra e di eliminazione del nemico largamente applicati dal colonialismo e dall'imperialismo di ogni nazionalità, compreso quello russo, cultura della quale certo subirono l'influenza, ma che non era la loro...” (p. 426).
4. “...L'invenzione del trockismo e l'attribuzione a questo di una funzione malefica fu all'origine di un danno incalcolabile per l'intero movimento comunista. Fu il crisma dato a un nuovo scolasticismo. Esportata mediante l'Internazionale, essa attraversò disastrosamente l'intero comunismo (...). La vera funzione della costruzione del trockismo fu nella sua utilità ai fini della costruzione d'un leninismo pietrificato e monolitico (...). La costruzione del leninismo ad usum era già stata avviata nei riti funebri, nell'imbalsamazione, nel linguaggio retorico degli eredi...” (p. 579).
5. Claude Lefort, La complication, Paris, Fayard, 1999, pp. 257.
Contro il comunismo, per il comunismo
UN ANNIVERSARIO.
A un anno dalla morte di Luigi Cortesi (2 settembre 2009), questa recensione dell'ultima sua fatica è l'omaggio a un uomo integro, combattivo e sereno, a uno studioso infaticabile, a un'assenza che addolora. “Contro il comunismo, per il comunismo”, come alcuni studenti sloveni scrissero su uno striscione visibile nella Facoltà di Filosofia di Lubiana nel 1970: potrebbe essere il senso di questo ampio volume, poderoso per qualità e forza del pensiero. Quasi un'opera narrativa, questa Storia del comunismo, grandiosamente adeguata al grandioso assalto al cielo del secolo passato. Utopia e Termidoro sono i confini stabiliti di una ricerca che avrebbe dovuto continuare (1): il termine a quo si perde nei secoli e nei millenni -Cortesi parla di “naturalezza storico-antropologica del comunismo” (p. 19)-, mentre quello ad quem è facilmente, e ormai quasi unanimemente, databile negli anni tra il 1924 e il '27; è inoltre situabile nell'Unione Sovietica dove intorno alla morte di Lenin venne ritracciata la strada al 'ritorno all'ordine' staliniano. È vero anche che nessun Termidoro è mai riuscito a scalzare dalla vicenda storica la lunghissima durata della Rivoluzione (di questa come di altre), ovvero del più grande tentativo mai realizzato di modificare le strutture economiche e relazionali tra le classi sociali e gli esseri umani, così che il sottotitolo del libro di Cortesi potrebbe essere semplicemente invertito, “Da Termidoro all'Utopia”, per raccontare l'oggi.
CONTRO LA GUERRA, CONTRO LO STATO.
Quattordici capitoli, una prefazione e un epilogo, corredati da fitte note (2) e da una ricca bibliografia, a malapena trattengono il materiale studiato, come reti metalliche a frenare la caduta di pareti di roccia: esso deborda, e solo le ragioni di una militanza multipla (socialcomunista, pacifista, ambientalista, antinuclearista), propria dell'autore, sanno evitare il crollo e permettono un viaggio lucido e confortevole. Chiaro è il nesso iniziale che lega il comunismo ideale e quello reale in una situazione specifica: la cosiddetta Grande guerra e i suoi crimini segnano l'orrore radicale da cui scaturiscono la volontà e l'occasione di sovvertire l'esistente. Tra mille contraddizioni e dissidi, il gruppo più vicino a Lenin agisce animato dall'obbligo dell'obbedienza alle alte intenzioni espresse in opere e atti, e la miseria del quotidiano, fatto di violenza e di paura. “...Va cioè registrato come dato caratterizzante che il comunismo novecentesco nasce dal fallimento della Seconda Internazionale, e si differenzia drasticamente da questa rifiutando i compromessi nazionalisti e affrontando in tutta la sua concretezza e nei suoi contorni più brutali il problema della guerra. Il comunismo è la forma più alta e più radicale d'un pacifismo che a sua volta aveva fallito. La stessa rivoluzione russa fu una rivoluzione contro la guerra, e fu in nome dell'internazionalismo e della pace e in una prospettiva universalistica che venne fondata l'Unione Sovietica...” (p. 283); e, poco più avanti: “il comunismo novecentesco era nato dalla coscienza del male storico avanzante”. Questa è la prima pietra, ormai da molto scheggiata e scartata, di un edificio la cui intenzione fondamentale era solida: fermare l'avanzata del male storico, non certo di quello metafisico ed eterno; e ciò era ben presente, sostiene Cortesi, nel pensiero e nell'azione di Luxemburg, Lenin, Bucharin e Trockij, ovvero dei fondatori della III Internazionale. Proprio qui risiede la differenza insanabile con il pensiero reazionario, quest'ultimo rassegnato (ma con il sostegno dei grandi istituti bancari e delle mafie, e sostenuto da eserciti e polizie) alla inevitabilità della guerra e del male, storico e metafisico confusi, in un mondo naturalmente consegnato, nel 1914 come nel 2010, alla follia bellica.
Se la risposta rivoluzionaria alla guerra è l'atto fondante del comunismo novecentesco, il manifesto teorico ne è Stato e rivoluzione (1918) di Lenin, il cui “target è europeo e internazionale, così come lo scenario evocato. Esso va considerato come la più alta testimonianza di un progetto che non poté avere attuazione, di un 'comunismo inedito' che non poté essere praticato né avviato a sperimentazione non solo come ordinamento di emancipazione sociale, ma anche come linea di liberazione del soggetto dai coaguli mentali di reificazioni e feticismi che ne inibiscono la realizzazione. Un progetto, quindi, la cui esigenza non è stata cancellata dal secolo trascorso e si fa anzi più urgente sotto i colpi di uno sviluppo capitalistico che dilania il mondo...” (p. 227). Comunismo contro la Guerra e contro lo Stato, che dovrà “estinguersi”, con corollario d'accuse di filoanarchismo: due progetti paralleli, ma estinto il primo nella tragedia subìta del comunismo di guerra (inizialmente un ossimoro),(3) per la condotta criminale delle potenze antibolsceviche; schiacciato il secondo nel rafforzamento spaventoso della struttura statuale sovietica dettato dalla necessità di una storia tagliente, e nondimeno segno di accettazione della realtà così com'è anche dalle più alte cariche del Partito, anche dai bolscevichi più intransigenti. Accettazione come involuzione reazionaria. “...Il passaggio dalle altezze del 1917 agli orrori del '37 e alla facilità della liquidazione del 1989-'91 pone grandi problemi, e forse l'intero problema della costruzione storica. Eppure, non è possibile dimenticare o sottovalutare gli aspetti nuovi dell'eleborazione ideale e della costruzione politica del comunismo rivoluzionario, il suo contributo alla liberazione dell'uomo, proprio quello che il potere staliniano avrebbe ferocemente contrastato...” (p. 300). Qui, come in altri passaggi, Cortesi non nasconde la sua perplessità e la sua irritazione nei confronti di una regressione storica che doveva/poteva essere fermata, ma che le rigidità dell'ortodossia hanno vigorosamente favorito.
COSTRUZIONE DELLO STALINISMO.
Il 1917 ha poi un'altra responsabilità, anche questa non inevitabile, ovvero l'aver legato dogmaticamente i destini della Rivoluzione a quelli dell'Unione Sovietica (“russocentrismo”), a detrimento delle più avanzate visioni del marxismo occidentale (normalizzazioni e obbedienze sempre più cieche richieste da Mosca, interventi “ex cathedra” di Zinov'ev contro Lukàcs e Korsch, etc.). L'analisi di Cortesi si indirizza, in pagine efficaci, all'esame dei vari tentativi di rivoluzione fuori dall'URSS nel primo dopoguerra (Germania, Ungheria) e della nascita dei vari partiti comunisti, con particolare attenzione ai casi tedesco, francese e italiano (nel “livornismo” italiano spicca la rigorosa figura di Bordiga, colpevolmente estirpato dalle storie ufficiali e dal patrimonio storico della sinistra italiana). Le speranze di una rivoluzione in occidente (nel 1923 si chiude di fatto la fase rivoluzionaria tedesca e s'apre quella nazionalsocialista con il putsch, sia pure farsesco, di Monaco) falliscono quasi contemporaneamente al manifestarsi della malattia di Lenin, alle incertezze relative alla Nuova Politica Economica e all'irrigidimento del partito bolscevico. “...Durante la malattia di Lenin s'era delineata un'alleanza tra Zinov'ev, Kamenev e Stalin, e le incertezze sul problema tedesco furono certo influenzate dal timore che Trockij avrebbe tratto dal successo del movimento maggior potere in URSS e nel comunismo internazionale (...). La trojka si saldò appunto sullo sfondo del fallimento del comunismo tedesco, e i fatti del 1923 fornirono alimento al contrasto latente nel partito bolscevico. L'assenza di Lenin gravò su tutta la situazione in modo determinante. Entro breve tempo sarebbe stata la stessa rivoluzione russa ad entrare in crisi...” (pp. 506-7). Il ruolo della 'personalità' nella storia è sempre ambiguo, fondamentalmente alienante/umiliante (il leaderismo invocato dalle sinistre italiane d'oggi non ne è che una mediocre riproposizione), ma è certo che la grandezza di Lenin incarna desideri e proiezioni di tutta un'epoca, in ascolto della forza delle masse che accompagnano/subiscono la travolgente attività del capo della Rivoluzione mondiale. La sua malattia e morte, il suo rigor mortis provocarono l'irrigidimento di tutto il Partito e di tutto il Paese dei Soviet: ciò che aveva rivestito il carattere della provvisorietà e delle eccezionalità, divenne struttura permanente e scelta. Nel capitolo “Kronštadt, il punto 7 e la Nep. Democrazia e rivoluzione” (p. 438 e segg.) Cortesi affronta le contraddizioni principali del leninismo: “...Lo stesso pensiero di Lenin, di fronte al nesso sopravvivenza-terrore, ebbe un netto ripiegamento, constatabile nella dissolvenza della tematica di Stato e rivoluzione, orgogliosamente rivendicata ma schiacciata da una serie di stati di necessità. Lo scadimento procede di pari passo con l'inevitabile decadenza dei Soviet e con l'emergere del partito come unico scoglio nella tempesta, ed è impressionante. Forse è lì il vero 'giro di boa' non solo dell'elaborazione ideale della rivoluzione, ma della rivoluzione stessa. È in ogni caso la fine della sua forza propulsiva immediata, il passaggio ad una fase difensiva dall'esito ignoto...” (p. 449). La morte di Lenin porterà a compimento tutte le tendenze più distruttive di questa fase della Rivoluzione: le ripetute “crisi di estraneità” di Trockij (assente ai funerali del leader bolscevico; non si oppone alla segretazione del cosiddetto 'testamento di Lenin') impediscono il coagularsi di un fronte di critica organizzata all'emergere di Stalin, abile e moderato in questa fase, capace di sconfiggere gli avversari su un terreno prettamente politico; inoltre la crescita economica tra il 1924 e il '25 darà fiato ai fautori più radicali della Nep, per nulla preoccupati della rinascita di elementi di capitalismo nella Russia dei Soviet (resa alla 'inevitabilità' delle logiche del mercato) e delle necessità di uno sviluppo industriale anche basato sulla sottrazione sistematica delle ricchezze prodotte dalla campagna (il 'destro' Stalin sconfigge politicamente la 'sinistra' trockista, ma ne adotta ed estremizza le politiche anticontadine, fino ai massacri della 'dekulakizzazione'). La costruzione dello stalinismo diventa il risultato di due altre costruzioni: quella del 'trockismo' come male assoluto, in un'impressionante campagna di stampa; e quella del 'leninismo' come sacro e indiscutibile patrimonio.(4) Alla fine di questa fase di lotte accanite, il moloch sovietico si caratterizzerà per “una serie di antinomie: tra economia pianificata e lavoro comandato, fine della proprietà privata e possesso statale, potenzialità di emancipazione e negazione dei diritti, sviluppo culturale e limiti della partecipazione critica: deriva e capovolgimento delle finalità umanistiche del comunismo, contraddizioni insanabili che culminano nello stragismo degli anni '30. Le malattie sociali del capitalismo non erano state superate, ed altre se ne erano aggiunte...” (p. 708). Solo l'esito vittorioso della Seconda guerra mondiale (socialpatriottica) prolungherà la vita dell'URSS fino all'implosione poco clamorosa del 1991 (i clamori verranno dopo, e ancor oggi sentiamo tutte le grida di dolore della costruzione del socialismo e della sua dissoluzione).
LA COMPLICAZIONE.
Merito affascinante dell'opera di Cortesi è quello di condurci attraverso gli eventi di un secolo senza che mai la tensione cali, guardando sia alla Storia maggiore (idee e fatti) sia alla “vita popolare quotidiana”, ai “rapporti sociali nella loro concretezza” (pp. 727-8, in particolare), oscillando tra due poli, con accorata e non definitiva prevalenza del secondo: da una lato l'assunzione di tutte le vicende del comunismo, nessuna esclusa, senza angelismi né demonizzazioni, contro le tendenze di un antistorico e autoassolutorio ritorno a un Marx ripulito da tutti i marxismi e i comunismi del Novecento; dall'altro il ripudio di quanto di più atroce dal nome comunismo (o in nome di questo nome) è stato generato. La ferocia degli anni dello stalinismo “non aveva nulla a che fare con le durezze della lotta di classe, né con il naturale autoritarismo della rivoluzione, né con il ricorso difensivo al terrore nella guerra civile; qualcosa di totalmente estraneo al marxismo e di repellente al movimento operaio e alla sua cultura” (p. 728). Questo presunto tradimento è l'impasse, questa è l'irrisolta 'complicazione' (ne ha scritto benissimo Claude Lefort)(5) portata dal comunismo, questa è la sfida attuale, tra spossatezze e crimini di nuova generazione. Non viverla insieme a Luigi Cortesi ci fa più deboli, e ci responsabilizza.
Note
1. Cortesi scrive che il suo “volume giunge fino al punto in cui sono già ben presenti i prodromi d'una crisi profonda del comunismo; ma esso anticipa in un riepilogo le prospettive del comunismo, sia ideale sia reale, fino al 1945. E' nelle mie intenzioni affrontare, in un successivo volume, il periodo dello stalinismo e le sue tracce profonde... ” (p. 21).
2. Note purtroppo fornite in ordine crescente in tutto il libro, e non per singolo capitolo, fino a raggiungere il numero ingestibile di 1534, in un volume già poco maneggevole per dimensioni. Ma queste sono le sole critiche da rivolgere a una pubblicazione meritoria.
3. “...La guerra civile fu in concreto largamente internazionale e non fu promossa, ma subita dal governo rivoluzionario; fu una guerra condotta con estrema durezza, anche con crudeltà, ma prettamente difensiva (...). I bolscevichi non inventarono né il campo di concentramento, né il terrore, né lo sterminio – elementi della cultura di guerra e di eliminazione del nemico largamente applicati dal colonialismo e dall'imperialismo di ogni nazionalità, compreso quello russo, cultura della quale certo subirono l'influenza, ma che non era la loro...” (p. 426).
4. “...L'invenzione del trockismo e l'attribuzione a questo di una funzione malefica fu all'origine di un danno incalcolabile per l'intero movimento comunista. Fu il crisma dato a un nuovo scolasticismo. Esportata mediante l'Internazionale, essa attraversò disastrosamente l'intero comunismo (...). La vera funzione della costruzione del trockismo fu nella sua utilità ai fini della costruzione d'un leninismo pietrificato e monolitico (...). La costruzione del leninismo ad usum era già stata avviata nei riti funebri, nell'imbalsamazione, nel linguaggio retorico degli eredi...” (p. 579).
5. Claude Lefort, La complication, Paris, Fayard, 1999, pp. 257.
Luigi Cortesi
Storia del comunismo. Da Utopia al Termidoro sovietico
Manifestolibri, 2010
€ 65
Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".