A Padova la destra di
"Fratelli d'Italia" realizza uno spot elettorale
pesantemente omofobo, ad Ascoli un manifesto della stessa forza
politica presenta un teschio e ossa incrociate (simbolo delle Waffen
SS) sui volti di Bersani e Vendola. Solo parole?
P come parole
L'obiezione che da
destra si muove a chi denuncia la violenza del linguaggio
della Lega Nord o dei gruppi neofascisti (da La Destra a Casa
Pound) è che in fondo si tratta solo di parole. E le parole,
questo è il senso sottinteso, se restano parole, non fanno
danni. L'esperienza tragica del Novecento ci racconta un'altra
storia: il linguaggio politico non solo non è neutro, ma ha
profonde ricadute sui comportamenti sociali. La lingua è
performativa: crea comportamenti e stati d'animo, individuali
e collettivi. Perchè, come scrisse Franz Rosenzweig, “la
lingua è più del sangue”.
Ce lo ricorda
Victor Klemperer, nel suo La lingua del Terzo Reich. Taccuino
di un filologo, un libro straordinario che è ad un tempo
testimonianza umana e indagine scientifica sulla funzione
centrale del linguaggio nella costruzione dei sistemi politici
totalitari.
Figlio di un
rabbino, ma convertito al protestantesimo, dal 1915 docente di
letteratura francese all’università di Dresda, Klemperer
(1881-1960) formatosi nell'illusione comune a gran parte della
borghesia ebraica di potersi integrare nella società tedesca,
vede la sua vita distrutta dall'avvento del nazismo.
Privato della
cattedra nel 1935 in seguito alle leggi razziali, internato a
Dresda e costretto al lavoro forzato, nel 1945 riesce a
fuggire e, abbandonata la città, conduce una vita da profugo
fino alla fine della guerra.
Fin dal 1932,
Klemperer tiene un diario in cui annota minuziosamente ciò
che accade attorno a lui. In particolare lo colpisce l’uso
che i nazisti fanno della lingua mediante la trasformazione
del senso delle parole e la creazione di un nuovo linguaggio
che egli chiamerà LTI, Lingua Tertii Imperii.
Le parole
diventano una zattera a cui aggrapparsi per non affondare: “Il
diario –scrive - è stato continuamente per me il bilanciere
per reggermi in equilibrio, senza il quale sarei precipitato
mille volte. Nelle ore del disgusto e della disperazione,
nella desolazione infinita del monotono lavoro in fabbrica, al
letto degli ammalati e dei moribondi, presso le tombe, nelle
angustie personali, nei momenti dell'estrema ignominia, quando
il cuore si rifiutava di funzionare –sempre mi ha aiutato
questo incitamento a me stesso: osserva, studia, imprimi nella
memoria quel che accade, domani le cose appariranno diverse,
domani sentirai diversamente: registra il modo in cui le cose
si manifestano e operano”.
Fondamentale fu
l'incontro, immediatamente dopo la fine della guerra, in un
campo profughi in Baviera con una operaia berlinese già
deportata per propaganda antinazista. Richiesta del perchè
fosse stata incarcerata, la risposta della donna fu semplice:
"Beh, per delle parole...".
"Fu per me
un’illuminazione" - scrive Klemperer - "grazie a
quella frase vidi chiaro. ‘Per delle parole...’, per
questo e su questo avrei ripreso il mio lavoro sui diari. Così
è nato questo libro, non tanto per vanità, spero, quanto
‘per delle parole’".
Nasce così nel
1947 La lingua del Terzo Reich, una lucida riflessione su come
il male si annidi nella «normalità» di ogni giorno, negli
slogan ripetuti in modo ossessivo, nelle bugie che l'uso
quotidiano rende verità, nel ripetere senza più vergogna
quello che fino al giorno prima era considerato impensabile.
La lingua del
Terzo Reich è una lingua povera, monotona, fissata,
ripetitiva e proprio per questo straordinariamente pervasiva.
La LTI cambia il segno delle parole. Termini come “cultura”
o “filosofia”,presentati come gli strumenti di cui gli
ebrei (e i comunisti) si servono per corrompere l'animo del
popolo tedesco, assumono una valenza negativa. Parole come
“fanatismo” o “violenza” diventano positive
acquistando valore salvifico. Il nemico è “l’ebreo”,diventato
una categoria astratta su cui riversare le paure e le
insicurezze profonde della società .
Concetti
che ripetuti continuamente avvelenano gli animi. “Le
parole – annota Klemperer - possono essere come
minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo
sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo
ecco rivelarsi l’effetto tossico”
Parole che
esprimono il disprezzo per il diverso e la volontà di
annientare colla forza ogni opposizione, che feriscono
come pietre. Gli oppositori vengono insultati e derisi,
le loro affermazioni sono messe in dubbio attraverso il
sarcasmo, con l’uso delle “virgolette
ironiche”(come le chiama Klemperer).
Hitler
parla in modo semplice, da uomo del popolo, usando toni
che vanno dal volgare al predicatorio. Si rivolge al
popolo, non al singolo e così col tempo il singolo
finisce col percepire se stesso solo come elemento del
gruppo eletto. Egli urla, minaccia, serra i pugni:
l'odio sostituisce il pensiero.
Il
Lagerjargon (il linguaggio del Lager) è l'ultima,
estrema manifestazione di questo processo.
“Non mi
rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più
tardi, che il tedesco del lager era una lingua a sé
stante (…) legata al luogo ed al tempo. Era una
variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un
filologo ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzato
Lingua Tertii Imperii (…).È ovvia l’osservazione
che, là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche
al linguaggio.”
Chi parla è
Primo Levi che ci presenta un linguaggio connotato
dalla violenza, dal disprezzo, dalla volontà di
disumanizzare i prigionieri.
“Ci siamo
accorti subito, fin dai primi contatti con gli uomini
sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il
tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e
rispondeva in modo articolato, si instaurava una
parvenza di rapporto umano. Con chi non li capiva, i
neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò:
l’ordine, che era stato pronunciato con la voce
tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva
ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato
a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio
con un animale domestico, più sensibile al tono che al
contenuto del messaggio.Se qualcuno esitava (esitavano
tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati)
arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di
una variante dello stesso linguaggio: l’uso della
parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo
necessario e sufficiente affinché l’uomo sia uomo,
era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri,
uomini non eravamo più: con noi, come con le vacche o
i muli, non c’era una differenza sostanziale tra
l’urlo e il pugno. Perché un cavallo corra o si
fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, non occorre
venire a patti con lui o dargli spiegazioni
dettagliate; basta un dizionario costituito da una
dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, non
importa se acustici o tattili o visivi: trazione delle
briglie, punture degli speroni, urla, gesti, schiocchi
di frusta, strombettii delle labbra, pacche sulla
schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe
un’azione sciocca, come parlare da soli, o un
patetismo ridicolo: tanto, che cosa capirebbe?”.
Ma se con
le parole dei nazisti si era consumata la repressione e
l’annichilimento, le parole dei deportati e degli
oppressi diventano strumento di speranza e percorso di
salvezza.
Lo dimostra
la storia di Wilhelmina “Mina” Pächter, morta a
Theresienstadt nel 1944. Di lei ci resta un ricettario,
scritto nel lager insieme ad altre donne, la cui
vicenda è raccontata in Sognavamo di cucinare, un
piccolo libro appena tradotto in italiano.
Donne che
resistono alla violenza subita, che tentano di
mantenere un legame con le proprie radici, con i sapori
e i colori e i ricordi dell’infanzia, della famiglia,
delle feste, delle usanze. Che cucinano “a
parole”seguendo la memoria e non soccombono al
tentativo di disumanizzarle. Invincibili perchè non
perdono l’umanità e la speranza.
(Da: I
Resistenti, febbraio 2013)