Volare alti nel cielo, staccarsi da terra, salire. Questo in poche parole il senso dell'altalena. Una riflessione affascinante ne delinea origini mitiche e rivisitazioni rituali.
Raffaele K. Salinari
Il turbamento
dell’altalena. Un gioco sacro
«Luce luce lontana,
più bassa delle stelle, quale sarà la mano che ti accende e ti
spegne? Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un
giorno la prenderò come fa il vento alla schiena…». Così
Fabrizio De Andrè poetizza, e dunque rinnova,
una vecchia storia: quella di Erigone, la vergine
sposa di Dioniso trasformata poi in costellazione,
che fondò il mito dell’altalena.
Ma che senso ha
ricercare queste ascendenze arcaiche, richiamare
i significati sacri, gli usi visionari? In fondo
l’altalena è solo un gioco, un innocente
passatempo per bambini che però, qui sta l’arcano,
mai lascia indifferenti, sempre turba l’anima in
modo inspiegabile. Forse è perché viene da un
tempo lontano, quando le distanze tra l’umano e il divino
non erano, come oggi, incommensurabili, e quel
gioco simboleggiava la loro congiunzione:
una pratica estatica, per rigenerarsi al cospetto
della zōḗ.
Nell’antica
Grecia zōḗ significava Vita, senza
nessuna caratterizzazione ulteriore
e senza limiti: esistenza incondizionata.
E questa zōḗ, che non ha contorni e neppure
definizioni, ha il suo sicuro opposto in thánatos,
la morte. Ciò che in zōḗ risuona in modo certo e chiaro
è «non morte»: qualcosa che non la lascia avvicinare
a sé; da questo Bataille vedrà nell’erotismo
l’affermazione della Vita sino dentro la morte.
Rileggere un mito,
in realtà, significa renderlo attuale; Schelling dice
che nulla di ciò che è, e di ciò che diviene, può essere
e divenire senza che un’altra cosa
contemporaneamente sia e divenga,
poiché all’interno della natura stessa non esiste nulla
di originario, nulla di assoluto e per sé
stante: gli atti di culto che hanno preceduto quelli
attuali non erano semplici gesti di superstizione
dovuti all’ignoranza dei fenomeni naturali, ma creazioni
possenti generate da questa consapevolezza.
La vertigine
e la maschera
L’altalena è dunque
un gioco originariamente sacro, ma che tipo di
gioco è? Secondo Roger Caillois nel suo La vertigine
e la maschera, essa risponde al principio dell’Ilinx,
della «vertigine»: l’ebbrezza che strappa al mondo
razionale e mette, seppur per un solo momento,
sull’orlo dell’imponderabile, esposti alla visione del gorgo
— questo significa in greco la parola Ilinx- nel
quale gorgogliano le forze che governano il mondo
senza che le si possa mai governare.
Ancora e sempre
l’attrazione per la «vertigine» resta una necessità
della vita psichica; anche se la civilizzazione
odierna l’ha voluta confinare in luoghi separati
— come i Luna Park nei quali l’ebbrezza “normalizzata”
non deve aprire le porte all’incontro con le forze della natura —
una libera e semplice altalena, con il suo movimento
“lunare”, ciclico, può generare un fugace incontro con
l’Intelligenza della zōḗ.
Perché il cielo, ed
il mondo sotto di esso, si muovono con movimento
circolare? Si chiede l’egizio Plotino nelle Enneadi,
e lui stesso risponde: perché imitano l’Intelligenza.
E il movimento
circolare, prosegue il filosofo: «È un
movimento della coscienza, della riflessione, e della
vita che ritorna su se stessa, che non esce mai da sé e non
passa ad altro, appunto perché deve abbracciare tutto in
sé. Ma non l’abbraccerebbe se rimanesse immobile, né
avendo un corpo, manterrebbe in vita le cose che contiene:
infatti la vita del corpo è movimento. Sicché il
movimento circolare risulta composto del
movimento del corpo e di quello dell’anima, e siccome
il corpo si muove per natura in linea retta, e l’anima lo
trattiene, dai due deriva quel movimento che ha del
movimento e della quiete».
E allora, nessun
gioco come l’altalena può simboleggiare meglio la
visione di un corpo e di un’anima uniti nel generare
questa combinazione di quiete e movimento
che riflette, sul piano del microcosmo umano,
l’Intelligenza stessa che ordina ed abbraccia il Cosmo.
«Io, se non lo sapete
figliuoli, vi ho data vita per mezzo della voluttà e del moto»
dice la Venere rinascimentale e neoplatonica
di Marsilio Ficino, divinità della Vita che genera
altra vita secondo «voluttà e moto»; principio
femminile che fornisce alla zōḗ quell’animazione
caratterizzante propria delle vite
particolari: le singole bíos.
Venere, «anima del
Mondo» secondo Plotino, agisce dunque attraverso
il moto ondeggiante che il suo paredro, Eros, suggerisce
ai corpi. E come non associare queste
caratteristiche alle sensazioni
eccitanti, erotiche, che proviamo in altalena:
la voluttà sensuale evoca il suo moto, il suo moto ondeggiante
porta seco la voluttà.
Ma questa
sensualità, l’erotismo del dondolio, arriva
a noi dalla trasformazione di un gioco —
l’altalena — che antichi miti descrivono come
simbolizzazione della morte; per questo il
nesso tra morte ed erotismo sfugge a chiunque non
ne veda il senso religioso! Inversamente, il
senso delle religioni sfugge a chiunque trascuri
il legame che esso presenta con la morte e l’erotismo.
Estendere la trama
delle analogie significa essere sostenuti, nella
nostra ricerca, dalla tela della realtà; questa preziosa
unità analogica potenzia il nostro essere nel
Mondo.
Un obiettivo
esistenzialmente ed essenzialmente politico
dunque, poiché questi termini sono aspetti di
uno stesso divenire, di una potenza dell’esserci che
manifestiamo attraverso la nostra singolarità
pienamente dispiegata.
Il mito greco: Erigone
Ecco, allora, il mito
delle origini: un pastore di nome Icario ricevette da
Dioniso il segreto del vino. Di questo nettare egli
fece dono ai suoi colleghi pastori che, credendosi
avvelenati, lo uccisero. La fedele cagna Maira corse
a cercarne la figlia Erigone che, di fronte al
cadavere del padre, lanciò una maledizione prima
di impiccarsi per il dolore: da quel giorno, nella ricorrenza
del suo gesto, tutte le vergini si sarebbero impiccate
sino a quando gli assassini del padre non fossero
stati trovati ed il suo sacrificio espiato.
E così andò; di fronte
a quel susseguirsi di impiccagioni
verginali gli abitanti di Atene si rivolsero
all’oracolo delfico, che sentenziò la necessità
di inventare un gioco che potesse simboleggiare
l’impiccagione senza causare la morte. Così nacque il
rito dell’altalena.
Ma, per comprendere
appieno il mito, dobbiamo situarlo all’interno della sua
evoluzione: le storie non vivono mai vite solitarie,
sono inserite in un grande albero del quale dobbiamo
ritrovare le radici attraverso i rami.
Il fondamento
storico cultuale sul quale si basa questa
ricostruzione del rito tratto dal mito risale ad un’epoca
molto più remota: alla taurocatapsia minoica in
onore della Grande Dea mediterranea. Il salto tra le
corna del toro, infatti, simboleggiava il moto
oscillante dell’altalena sulla quale stava seduta la Dea,
mentre l’animale era una sua ipostasi teriomorfa.
A riprova di ciò, nella
zona che circonda il palazzo di Aghia Triada, presso Phaestos,
venne trovata una statuina di terracotta,
risalente al XVI secolo a.C., che rappresenta una
figura femminile che si dondola in altalena. Il
luogo di rinvenimento era un piccolo
reliquiario e la statuetta, sormontata
da due uccelli che stanno per spiccare il volo, forse mediatori
tra il mondo dei mortali e quello degli dei, evoca,
all’interno dell’arte minoica, l’ipostasi della divinità
che, in questa cultura, significa l’altro da sé, lo
«spettatore divino».
A Malthi in
Messenia e a Mari in Mesopotamia si
trovarono altre due statuette della Dea, risalenti
allo stesso periodo, seduta e approntata per la
sospensione.
Una figura femminile
in trono che doveva essere destinata a dondolarsi
la troviamo anche in un santuario della dea
babilonese Ninhursag, risalente al III
millennio a.C., come pure in varie parti della Grecia
sono state rinvenute figure preistoriche
che, come gli oscilla romani, erano destinate allo
stesso scopo.
Alle origini,
dunque, la sfera del mito e del suo rito appare molto più
ampia e decisamente meno tinteggiata di toni
oscuri rispetto al mito greco, essendo certamente presente
il tema della morte ma, più ancora, quello della rinascita.
E di morte e rinascita
parla il simbolo più conosciuto di Cnosso, il regno della
Grande Dea: il labirinto. «Una grande figura femminile
della cerchia dionisiaca apparve su una tavoletta
di Cnosso, in un contesto di poche parole senza nomi;
e tuttavia fu il primo personaggio
divino della mitologia greca che poté essere
immediatamente conosciuto […] è la
Signora del Labirinto: essa deve essere stata una Grande Dea.
[…] Socrate, nel dialogo che Platone pubblicò con
il titolo di Eutidemo, nominò il labyrinthos e lo
descrisse come una figura in cui è facilissimo
riconoscere una linea a spirale o a meandro
che si ripete all’infinito. […] Sia la spirale sia il
meandro vanno intesi come percorsi che si fanno
involontariamente avanti ed indietro, se si
continua a seguirli»; così ci dice Kerényi nel
suo Dioniso.
E «Io sono il tuo
labirinto… », dirà Dioniso ad Arianna nella
poesia di Nietzsche. Arianna «moglie di Dioniso»,
come dice Euripide nell’Ippolito, è una divinità
lunare, legata alla parte umbratile dell’esistenza, come
Persefone e Demetra.
Su alcune monete di
Cnosso la troviamo raffigurata su una faccia,
mentre su quella opposta compaiono i meandri
del labirinto con iscritta una falce di luna. Questa sua
caratteristica affinità con la costruzione
dedalica le consentirà di orientare Teseo, ma
anche di identificarsi con il movimento
dell’altalena, che riproduce le fasi lunari nel loro
continuo mutamento: come i meandri del
labirinto.
Le tre fasi della luna si
riflettevano anche nella figura della Grande Dea come
vergine, ninfa e vegliarda. Altra identificazione
fu quella che vedeva la vergine associata all’aria, la
ninfa alla terra e la vegliarda al mondo infero.
Queste letture
gettano luce anche sulla modalità della morte di Arianna,
o di una delle sue morti, quella per suicidio mediante
impiccagione, che la identificherà poi con
Erigone. Il mito, in questo caso «esistenziale»
— come lo storico delle religioni Raffaele
Pettazzoni definiva quelli che simbolizzano
le fasi della vita — non va separato dal rito che lo richiama
e lo attualizza.
E allora possiamo
pensare all’altalena come ad un gioco che “svolge” il
labirinto; una sorta di trasformazione del
percorso terrestre, forse in origine una danza,
in moto pendolare: la traiettoria, che
richiama la falce di luna, ne risolve i meandri in eterne
oscillazioni.
Luna ed altalena
divengono così le facce di una metafora aerea che richiama
le fasi di una perenne ricerca interiore, mai terminata,
inesausta; una prova continua, a tratti
mortale, che sembra tornare incessantemente
al punto di partenza, e della quale il labirinto
è sempre stato il simbolo più immediato.
Anche
nei Misteri di Eleusi le danze labirintiche
rappresentavano il cammino dell’anima
verso la sua liberazione; i motivi a meandro,
presenti in maniera ubiquitaria in ogni tempo
e luogo, sono un simbolico riferimento
alla zōḗ non passibile di interruzioni.
Seguendo queste suggestioni capiamo perché nel
palazzo di Cnosso il corridoio dal soffitto a meandri
conduce verso la principale fonte di luce della
costruzione, chiara simbologia della rinascita.
Dioniso e l’altalena
Questi riferimenti
iniziali ad Arianna, ed al labirinto come percorso
ripetitivo, un «avanti ed indietro», servono ad
inquadrare le ascendenze dionisiache del
mito fondatore: la storia di Erigone, l’«Arianna
di Ikarion» che diverrà la prima baccante, vergine
e amante del dio; una delle tante personificazioni
della Grande Dea che, all’inizio della storia mediterranea,
presiedeva al rinnovamento eterno
della Vita.
E allora entriamo più
a fondo nel mito greco che, per primo, come tutti i miti,
ci descrive la festa delle altalene, e facciamolo
guardando al firmamento, alla costellazione
celeste in cui è fissato per sempre. Se l’andare
in altalena è un riferimento polare nel cielo
microcosmico delle nostre immagini archetipiche,
è naturale che abbia un corrispettivo
proprio nella costellazione che ci narra la sua
storia: la Vergine o, in altre versioni, Sirio.
Nel mito, ripreso da
Eratostene, Sirio appare come la cagna Maira, la
“scintillante”, un nome proprio per una tale
stella. È la «luce lontana» che si vede in inverno cui
fa riferimento De Andrè nella sua canzone Ho
visto Nina volare, dove il mitologema dell’altalena viene
ripreso in ogni suo aspetto.
È questa cagna, poi trasformata da Dioniso in luminoso astro, che troverà il cadavere di Icario, l’eroe del dêmos di Ikarion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle relazioni diseguali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la finitezza dell’umanità e l’indifferenza delle divinità — direbbe Varrone: parchissime di misericordia — il segreto procedimento si rivela, per il suo portatore, una maledizione.
È questa cagna, poi trasformata da Dioniso in luminoso astro, che troverà il cadavere di Icario, l’eroe del dêmos di Ikarion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle relazioni diseguali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la finitezza dell’umanità e l’indifferenza delle divinità — direbbe Varrone: parchissime di misericordia — il segreto procedimento si rivela, per il suo portatore, una maledizione.
Icario, infatti,
viene ucciso dai suoi amici — mandriani dei boschi di
Maratona presso il monte Pentelico — poiché
accusato ingiustamente di averli avvelenati
proponendo loro di gustare il nettare senza tagliarlo
con l’acqua, come Enopione più tardi consigliò di
fare. Dioniso dunque, il dio che muore e rinasce,
protagonista della tragedia greca,
signore della zōḗ, è all’origine del mito greco
dell’altalena, che a lui sarà legata anche da altre
pratiche tutte riconducibili all’essenza
del «dio dell’ebbrezza», quella situazione particolare
di «vortice» del quale il vino è l’araldo.
Gli antichi
mitografi, quelli precedenti Eratostene,
dicono che dopo l’uccisione di Icario da parte dei pastori che
si credevano avvelenati, la cagna Maira, fedele
compagna dell’emissario dionisiaco, torna da
sua figlia Erigone per avvertirla della tragedia
paterna. Comincia così l’angosciante erranza della ragazza
alla ricerca del corpo amato, un topos che include, tra
molti altri, la ricerca del cadavere smembrato di Osiride
da parte della sorella-amante Iside.
Significativa
prefigurazione di quello che sarà lo strumento
simbolico che libererà le vergini attiche
dalla sua maledizione, l’altalena appunto, Erigone,
«copiosa figliolanza», traduce il suo nome Graves,
oppure «nata all’alba» — tutti appellativi che la
includono in uno degli aspetti della Grande Dea — viene, nei
miti più antichi, chiamata Alêtis, l’errante,
con riferimento non solo all’errabonda e disperata
ricerca del cadavere, ma anche al suo carattere lunare, di
perenne mutazione astrale.
La luna e la morte —
aspetti della Grande Dea — si sovrappongono alla figura
di Erigone sulla sua altalena, così come lo sbocco del
mito sarà verso la rigenerazione e la vita.
Erigone erra dunque
come la luna nel cielo, senza posa. A volte scompare, nera
ed invisibile, minacciosa, come inghiottita dal
mondo infero. Se per la civiltà greca Dioniso è oramai
il dio dellazōḗ, la vita senza caratterizzazioni,
Erigone, figura epigona della Dea, ne è il
principio animatore, caratterizzante:
colei che dà l’anima alle bíos.
La zōḗ indifferenziata,
infatti, cerca l’animazione: per caratterizzare le
sue forme, le sue bíos, ha sempre bisogno del
principio femminile. Questo «fare anima» —
mutuando la celebre espressione di Keats — è necessario
alla zōḗ per trascendere il suo stadio
seminale, totipotente ma indistinto,
e trasformarlo in atto. Erigone, quindi,
è il principium individiationis di
Dioniso.
Qui la
complementarietà simbolica tra le due
divinità è evidente; si può dire che siano aspetti
dello stesso Principio che si esprime attraverso
attributi diversi; dalla relazione tra Erigone
e Dioniso nascerà anche un figlio, Stafilos,
che può essere inteso come la zōḗ che si rende
carne: Stafilos morirà e risorgerà,
come il dio stesso.
Anche con Arianna avviene
tutto questo: una versione del mito ci narra della «Signora
del Labirinto» che muore di parto e del figlio nato
nell’Ade; una nascita mistica che riprende così il mitologema
della Grande Dea che procrea la sua discendenza.
«E così Arianna divide
con tutti coloro che appartengono a Dioniso un
destino tragico e, coi più eletti di questi, anche la sua
liberazione dall’Ade dopo la morte e la sua
elevazione all’Olimpo», ci ricorda Otto.
In altre versioni
del mito, narrate da Igino, Apollodoro ed Eliano,
è Dioniso stesso che viene ucciso dai pastori, ed Erigone
piange il suo sposo affetta da una forma di mania che la
raffigura così come la prima baccante. Si impicca
dunque ad un albero che potrebbe essere anche una vite
scaturita dal corpo dell’amante; in tempi lontani
questa sviluppava un vero e proprio tronco,
ancora visibile in alcuni musei di storia naturale,
come quello di Firenze.
Graves sostiene
invece l’ipotesi del pino, nominato da Virgilio
nelle Georgiche: lo stesso albero sotto il quale il
frigio Attis fu castrato. In altre narrazioni
dal corpo del dio scaturirà la vite, e il suo
sacrificio darà agli uomini il mezzo per raggiungere
l’ebbrezza, attraverso la quale egli tornerà ogni volta
a rinascere, continuando così il ciclo
della Vita.
Erigone dunque,
come nel mito di Iside e Osiride, termina il suo
vagare al ritrovamento del corpo del padre o amante,
Icario o Dioniso, che l’antica festa ateniese
delle Anthestḗria — la festa dei germogli
— faceva coincidere col Giorno delle Brocche
(Choēs), nelle quali si trasferiva il vino per essere
bevuto, ed in grandi paioli si cucinava la panspermia,
una miscela di prodotti vegetali che esaltavano
le forze vivificatrici della natura risorta. Lo stesso
giorno le giovani vergini ricordavano il
sacrificio di Erigone andando sulle altalene,
le Aiðra.
Era il momento in cui
l’inverno volgeva alla fine ed i fiori cominciavano
a spuntare dalla neve residua. Il verbo antheîn,
che indica questo movimento floreale, dà appunto il
nome alla festa,Anthestḗria, ed al suo
mese, Anthestērin.
I versi di un ditirambo
dicevano: «Ora è venuto il tempo, ora ci sono i fiori».
Ma la scena del ditirambo non era l’Atene nei giorni della
festa, bensì un richiamo ai fiori che Persefone stava
cogliendo quando venne rapita da Ade, il signore del mondo infero.
Ecco che torna, imperioso, il raccordo tra il gioco
dell’altalena, la vergine impiccata, e la storia
del dio che in questo periodo emerge dal mondo sotterraneo
portando con sé anche le anime dei defunti ad abbeverarsi
alle brocche col vino.
Le anime dei morti
venivano chiamate díspioi: le assetate, e non
di semplice acqua avevano sete, bensì del vino dei píthoi,
i grandi recipienti di argilla aperti nel primo giorno
della festa e dai quali il nettare dionisiaco
veniva trasferito nelle brocche, nelle choēs,
che davano il nome al terzo giorno delle celebrazioni.
Qui ci troviamo
immersi pienamente in un’atmosfera frammista di
ebbrezza e spiriti dei morti: dunque aperta al puro
erotismo, ne dedurrebbe Bataille. Era questo
delle Anthestḗria, infatti, anche il tempo in cui
Dioniso, tornato dagli inferi, giaceva con le donne di
Atene, tutte simboleggiate dalla Basilinna, la
moglie dell’árchōn basileús.
In epoca romana lo stesso
periodo veniva definito Mundus patet: il mondo infero
restava aperto, seppure per pochi giorni, ma senza l’ebbrezza
dionisiaca, e dunque senza l’erotismo della
festa ateniese.
E così, il giorno delle
brocche, le giovani andavano in altalena, in
onore di Erigone; anche ai bambini era consentito
dondolarsi, perché quel giorno essi imitavano
tutto quanto accadeva pubblicamente nella grande
festa. I giovani Kuroi bevevano il vino per
la prima volta.
La relazione tra la
morte e l’altalena dunque, come vediamo dal mito,
è diretta: essa è un’attività comunque
potenzialmente letale: per questo può
simboleggiare la trasfigurazione
simbolica della morte proprio a partire
dalle sue intrinseche caratteristiche.
Il legame tra l’altalena
e la morte rituale durante le celebrazioni
dionisiache è anche dovuto all’indubbio
carattere ctonio del dio poiché, come dice
icasticamente Eraclito «Ade e Dioniso
[…] sono un’unica e medesima cosa», a sottolineare
la cifra infera di una divinità legata, per metà della sua
esistenza/ciclo, al mondo dei morti.
Ed infatti, durante
le Anthestḗria risorgevano le anime
dei defunti ma anche i keres, forme che veicolavano
miasmi, influenze nefaste che dovevano essere
purificate con katharmoi. L’ultimo giorno della
grande festa, in conclusione di tutte le celebrazioni,
nelle case venivano scacciate queste entità insieme
alle anime dei defunti, oramai appagate dai culti a loro
dedicati e dalle libagioni di vino, col grido «fuori
i keres, sono finite le Anthestḗria!».
Ecco che, allora, come
dice Otto, pienezza di vita e violenza di morte,
ambedue sono in Dioniso egualmente misurate:
nulla è attenuato, ma nulla è distorto.
Ma dove c’è Thanatos
c’è anche Eros, e la festa delle altalene è impregnata
di sensualità e di vera e propria
sessualità, intesa e vissuta anche come momento
problematico della vita muliebre, in cui avviene
un passaggio non sempre facile a compiersi.
Ernesto De Martino,
nel suo studio sui tarantolati, coglie appieno il
legame tra fase puberale — dunque ancora “virginale”
della vita femminile — e la stagione
successiva, quella matrimoniale, con il corteo
di pulsioni suicide legate al travaglio del
momento.
La festa delle Aiðra assume dunque un connotato sessuale evidente, dato che il giorno dopo si celebravano le nozze della regina con Dioniso, e che la notte delle altalene era vista come preparazione a queste. In sintesi le vergini, identificandosi con Erigone, si preparavano esse stesse all’incontro col dio, proprio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito.
La festa delle Aiðra assume dunque un connotato sessuale evidente, dato che il giorno dopo si celebravano le nozze della regina con Dioniso, e che la notte delle altalene era vista come preparazione a queste. In sintesi le vergini, identificandosi con Erigone, si preparavano esse stesse all’incontro col dio, proprio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito.
L’idea che qualcosa
di altalenante servisse come scongiuro della
cattiva sorte, auspicio beneaugurale, o come
gesto di purificazione, la troviamo
“imbalsamata” anche nel rito romano deglioscilla, che
richiama il mito originario seppur
“disumanizzato”.
Nel Libro II
delle Georgiche (vv. 388 sgg.), infatti,
compaiono questi versi oltremodo indicatori:
«Et te, Bacche, vocant per carmina laeta, tibique
oscilla ex alta suspendunt mollia pinu» (E te, Bacco,
invocano con lieti carmi e in tuo onore
appendono oscilla agli alti pini).
Il termine
latino oscilla, da cui l’odierno «oscillazione»,
deriva da os-oris, bocca o più estensivamente
faccia; probabilmente in origine un’effigie
del dio stesso. Dunque è in onore di Dioniso, durante
le Paganalia o le Sementivae
faeriae, feste della semina, che vengono fatte dondolare
queste immagini. Durante i Compitalia invece,
feste in onore dei Lari, venivano appese figurine in legno
che rappresentavano gli schiavi e i bambini
della famiglia.
Nel periodo imperiale,
infine, ogni casa aveva, sospeso tra i portici,
un oscillum raffigurante varie
divinità, sempre con una qualche ascendenza
o correlazione dionisiaca. A questo
proposito un oscillum molto ben conservato
è visibile nella chiesa di San Clemente in Laterano
a Roma, proveniente dal mitreo sottostante.
Maria e l’altalena
Anche la religione
cristiana originaria assumerà caratteri
dionisiaci, basti pensare a Gesù che si
definisce «la vera vite» (Giovanni XV, 1–2) e come
gli apostoli si debbano attaccare a lui «come
grappoli al tralcio». L’anima cristiana si
considerò, come l’orfica, serrata al corpo come in
un sepolcro.
La teologia
cristiana è in parte esoterismo
dionisiaco: consideriamo soltanto la
centralità del vino come simbolo di resurrezione.
Ma, forse più essenziale ancora, è la relazione tra
la Madonna, ciò che resta della Grande Dea nella concezione
patriarcale cristiana, e Gesù, suo figlio,
attraverso un rito che implica una oscillazione
collettiva.
A Taranto, il Giovedì
santo, la Madonna addolorata cerca il figlio morto nei
sepolcri allestiti presso le varie chiese. Osservando
la processione che la accompagna si notano subito
i Perdoni che, a piedi scalzi, i volti coperti da
un cappuccio (torna la maschera!), nazzicano,
cioè si cullano — questo significa in dialetto
la parola — assumendo questa camminata
dondolante tutta la notte.
Anche chi porta la
statua nazzica, come pure i fedeli tutti. Se si
osserva lo sguardo della statua, oltre il velo nero (Eros
e Thanatos) che lo adombra come fosse quello di
una danzatrice del ventre — altra forma della
maschera — si capisce che questo cercare non
è dettato solo dal dolore, ma dalla volontà di dargli
la possibilità di risorgere: è lei che fa
rinascere il figlio.
Joseph Roth ne La
cripta dei Cappuccini dice ad un certo punto: «Sempre
una madre aspetta il ritorno di suo figlio, del tutto indifferente
se questi se n’è andato in un paese lontano, in uno
vicino o nella morte».
E questa attesa è un
sentimento attivo, una forma di volontà, e produce
una forza che tiene vivo il ricordo e dunque viva la
persona.
Quando questa
volontà viene esercitata da una moltitudine
di persone diviene un atto di fede in grado di rigenerare
la Vita.
Attis e Cibele,
Dioniso e la Grande Dea attraverso la Basilinna
nelle Antesterie… sono gli antecedenti divini
del Cristo, così come Maria è ciò che ci rimane della
Grande Madre.
L’ottica ecclesiale
ovviamente capovolge polarmente la simbologia:
il patriarcato cattolico ha voluto transustanziare
la naturale rinascita della vita in quella
della resurrezione eterna di un corpo morto,
attribuendola al potere del Dio padre.
Ha spezzato così il
nesso matriarcale tra vita, morte e rinascita, con la
conseguenza evidente di far allontanare
ancor più l’umanità da questo mondo e dal rispetto per
la ciclicità dell’esistenza e di chi l’assicura: sotto
la croce a deporre il Figlio è la Madre.
E dunque per il
principio degli elementi costanti che regna nel
mitologema della rinascita del figlio autogenerato
da parte della Madre– essendo lo Spirito Santo emanazione
di lei e non altro da lei — la lettura autentica del
rapporto tra Maria e Gesù è chiara.
Questa non è una
interpretazione eretica, ma solo l’evidenza
della naturale evoluzione che parte dal rapporto
tra la Grande Dea ed il suo paredro, prima figlio, dopo amante,
poi in morte da Lei stessa fatto rinascere.
Se il femminile
riprendesse le fila e rivoltasse in questo senso
la tela della realtà simbolica cambierebbe
radicalmente anche quella fattuale.
Una modesta proposta
Ecco, allora avanziamo,
a mo’ di conclusione, una modesta proposta,
partendo dalla domanda: dove sono finite le altalene oggi?
Perché nei parchi pubblici ai bambini vengono
proposte quelle squallide apparecchiature
munite di cinture di sicurezza, con una escursione di
poche decine di centimetri, basse ed impiantate
su basi di grigio tartan? Come faranno questi bambini
esperienza del loro volo immaginario? Dove
incontreranno la «vertigine»? Quando potranno,
con la coda dell’occhio socchiuso nel sorriso estatico
del volo pericoloso, intravedere Dioniso
bambino che spunta nella luce del sole?
La scomparsa delle
altalene dai parchi pubblici è la prova provata
della violenza crescente che il nostro modello di
civilizzazione esercita sui bambini,
ovviamente con la scusa della “sicurezza”. Privati
del sensibile, essi si rifugeranno
nell’insensibile, nel consumo senza soddisfazione,
poiché è solo l’investimento emozionale che
immettiamo nel gioco che lo rende libidicamente
produttivo, soddisfacente; è il
rischio della morte, e la sua visione, il vortice, che
penetrano sino all’interno delle nostre ossa sino agli ultimi
fondamenti del sangue, mentre oscilliamo
pericolosamente, a rendere il gioco
perfettamente dionisiaco, erotico,
liberatorio e creativo.
Per ritrovare
qualcosa del genere dobbiamo andare nei Luna Park
contemporanei, in cui enormi aggeggi meccanici
ci fanno provare sensazioni simili a quelle che
una volta cercavamo sulla tavoletta sospesa tra i rami
di un albero. Ma oggi, a differenza di quel tempo,
l’illo tempore della nostra infanzia, i ragazzi sono
imbragati, legati da camice di forza dentro macchine
che fanno vivere, a pagamento, un fugace brivido che
non è né estasi né paura. L’altalena dei parchi
pubblici odierni, con i suoi edulcorati epigoni
da Luna Park, sta dunque a quella alta ed infinita di
un tempo come la pornografia d’accatto sta all’eros.
L’altalena vera,
invece, evoca in noi un’energia che esige di essere immaginata.
E non è forse questa sensazione di ricreare
il futuro attraverso le immagini, di cui abbiamo bisogno
per vivere l’infanzia? Di una «gioia incorporea che ha
appena dato inizio alla sua corsa», come scrive Shelley?
Immaginare significa innalzare di un tono il
reale; la gioia dell’altalena, del corpo in altalena,
riproduce nel microcosmo della nostra oscillazione
ascensionale la stessa dinamica dell’universo in
espansione.
Forse possiamo
arrivare a pensare, chi scrive lo pensò molte volte,
che se morissimo nel punto massimo di elevazione,
il nostro corpo resterebbe li, sospeso nel cielo.
Il manifesto – 12
luglio 2014