TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 19 ottobre 2018

Da leggere: Marino Magliani, Prima che te lo dicano altri



Dall'estremo Ponente ligure all'Argentina dei desaparecidos si snoda una storia terribile di amicizia e di morte che Marino Magliani ci racconta con una scrittura asciutta che va diretta al cuore. Da leggere.

Guido Festinese

L’uomo senza qualità nell’Argentina del rimosso

Ci sono scrittori di parole distillate come centri nevralgici attorno ai quali far ruotare uno spicchio di mondo e scrittori di trama, costruttori di congegni cogenti e privi di spigoli, che prendono per mano il lettore dall’incipit all’ultima frase. Difficile che esistano, nel mondo delle lettere, scrittori che abbiano alternativamente incarnato l’una o l’altra figura, e che, a un certo punto nella vita, riescano a mettere in una sorta di confronto dialettico la singola parola essenza, e la vertigine della trama che incatena alla pagina. Marino Magliani, singolare personaggio in bilico tra due mondi che non comunicano, l’Olanda delle dune affacciate sul Mare del Nord e l’entroterra ligure dell’estremo ponente calato nel buio umido dei paesi inchiavardati nel fondovalle ha riavvicinato le due sponde della scrittura.

Lo ha fatto con il nuovo libro, Prima che te lo dicano altri (Chiarelettere, pp. 336, euro 17.50). È un libro duro, a cominciare dal fatto che si misura con uno snodo rimosso e atroce del Novecento: la dittatura dei militari argentini.


La storia che travolge e stravolge le esistenze, quando se ne riprende il filo per ricomporre il mosaico del dolore familiare, non è necessariamente in mano a eroi belli e puri della memoria. Non tutti sono il giudice Garzón, che scoperchiò senza paura il verminaio delle torture e delle complicità occulte del generale Videla. Ci può essere anche un protagonista che è davvero «uomo senza qualità», con il peso aggravante del figurare come persona sgradevole, un omino che filtra la grettezza e il rancore di una provincia incupita nel poco pensiero su se stesso, nell’approccio strappato e misogino con le donne.

Qust'uomo è, nel racconto, Leo Vialetti. Cresciuto senza padre, goffo e impacciato, divenuto cacciatore e bracconiere spietato, il tutto in una credibile proiezione distopica del Ponente ligure che diventerà, di qui a tra pochi anni, una colata di cemento che soffoca le colline. Neppure questo importa a Leo. Gli importa, invece, ritrovare le tracce di quell’uomo argentino brillante che aveva tentato di insegnargli a vivere, da bambino, in una villa cadente, con la scusa di dargli ripetizioni.

NEL ’74 l’uomo, Raul Porti, fa ritorno in Argentina. E non tornerà più. Forse triturato nei denti affilati del congegno di morte dei militari golpisti con la complicità, delle gerarchie ecclesiastiche, di tanti uomini grigi come in realtà è grigio anche il ligure. Che andrà a cercare il presunto torturatore in Argentina, tanti anni dopo, mettendo in atto una gelida, indifferente, spaventosa vendetta da bracconiere in cui neppure il bersaglio invecchiato è quello giusto. Nessuno si salva, in questa epica cruda come i monti attorno a Dolcedo, resa con una lingua che restituisce e congela ogni fremito.

Il Manifesto – 16 ottobre 2018