Dall'estremo Ponente
ligure all'Argentina dei desaparecidos si snoda una storia terribile
di amicizia e di morte che Marino Magliani ci racconta con una
scrittura asciutta che va diretta al cuore. Da leggere.
Guido Festinese
L’uomo senza qualità
nell’Argentina del rimosso
Ci sono scrittori di
parole distillate come centri nevralgici attorno ai quali far ruotare
uno spicchio di mondo e scrittori di trama, costruttori di congegni
cogenti e privi di spigoli, che prendono per mano il lettore
dall’incipit all’ultima frase. Difficile che esistano, nel mondo
delle lettere, scrittori che abbiano alternativamente incarnato l’una
o l’altra figura, e che, a un certo punto nella vita, riescano a
mettere in una sorta di confronto dialettico la singola parola
essenza, e la vertigine della trama che incatena alla pagina. Marino
Magliani, singolare personaggio in bilico tra due mondi che non
comunicano, l’Olanda delle dune affacciate sul Mare del Nord e
l’entroterra ligure dell’estremo ponente calato nel buio umido
dei paesi inchiavardati nel fondovalle ha riavvicinato le due sponde
della scrittura.
Lo ha fatto con il nuovo
libro, Prima che te lo dicano altri (Chiarelettere, pp.
336, euro 17.50). È un libro duro, a cominciare dal fatto che si
misura con uno snodo rimosso e atroce del Novecento: la dittatura dei
militari argentini.
La storia che travolge e
stravolge le esistenze, quando se ne riprende il filo per ricomporre
il mosaico del dolore familiare, non è necessariamente in mano a
eroi belli e puri della memoria. Non tutti sono il giudice Garzón,
che scoperchiò senza paura il verminaio delle torture e delle
complicità occulte del generale Videla. Ci può essere anche un
protagonista che è davvero «uomo senza qualità», con il peso
aggravante del figurare come persona sgradevole, un omino che filtra
la grettezza e il rancore di una provincia incupita nel poco pensiero
su se stesso, nell’approccio strappato e misogino con le donne.
Qust'uomo è, nel
racconto, Leo Vialetti. Cresciuto senza padre, goffo e impacciato,
divenuto cacciatore e bracconiere spietato, il tutto in una credibile
proiezione distopica del Ponente ligure che diventerà, di qui a tra
pochi anni, una colata di cemento che soffoca le colline. Neppure
questo importa a Leo. Gli importa, invece, ritrovare le tracce di
quell’uomo argentino brillante che aveva tentato di insegnargli a
vivere, da bambino, in una villa cadente, con la scusa di dargli
ripetizioni.
NEL ’74 l’uomo,
Raul Porti, fa ritorno in Argentina. E non tornerà più. Forse
triturato nei denti affilati del congegno di morte dei militari
golpisti con la complicità, delle gerarchie ecclesiastiche, di tanti
uomini grigi come in realtà è grigio anche il ligure. Che andrà a
cercare il presunto torturatore in Argentina, tanti anni dopo,
mettendo in atto una gelida, indifferente, spaventosa vendetta da
bracconiere in cui neppure il bersaglio invecchiato è quello giusto.
Nessuno si salva, in questa epica cruda come i monti attorno a
Dolcedo, resa con una lingua che restituisce e congela ogni fremito.
Il Manifesto – 16
ottobre 2018