Negli
anni Sessanta l'Italia cambia volto. Il boom economico di fine anni
'50 provoca profondi cambiamenti nella società che la sinistra fa
fatica ad interpretare. Iniziano ad emergere temi e approcci che
avranno poi pieno sviluppo nel '68. Centrale in questa fase è
l'azione di Raniero Panzieri.
Giorgio
Amico
Stagnazione
o neocapitalismo?
Dopo
il 1956 la crisi dello stalinismo coincide in Italia con uno sviluppo
economico accelerato e con una profonda trasformazione degli assetti
e degli usi sociali che rende ineludibile a sinistra il compito di
trovare strumenti e metodologie nuove di analisi e di intervento. Il
primo a porre con forza questa esigenza di rinnovamento è Raniero
Panzieri, già esponente di punta della sinistra socialista e
direttore della rivista teorica del PSI. In maniera del tutto inedita
egli punta sull'adozione di nuovi strumenti di analisi, incentrati
sull'incontro fra sociologia (una disciplina guardata fino ad allora
con sospetto da una sinistra che la considerava troppo “americana”)
e politica, ma soprattutto su un intervento “dal basso” sulle
fabbriche capace di trasformare il movimento operaio e le sue
avanguardie da oggetto passivo di indagine a protagonista dinamico
della ricerca stessa.
Panzieri ai cancelli di Mirafiori
Centrale
è la critica di Panzieri alle tesi del PCI che, nonostante i
mutamenti in atto, continuano a descrivere l'Italia come un paese
sostanzialmente arretrato, condannato alla stagnazione economica
dall'alleanza reazionaria fra blocco industriale-finanziario del Nord
e agrari del Sud. Tesi elaborate negli anni Venti e Trenta da Gramsci
e riprese poi nel secondo dopoguerra da Palmiro Togliatti che le
pone, attenuandone di molto la carica rivoluzionaria, alla base di
una strategia riformista di lungo periodo finalizzata al
completamento di quella rivoluzione democratico-nazionale che la
borghesia italiana non avrebbe saputo e voluto fare prima nel
Risorgimento e poi nella costruzione dello Stato unitario.
Confrontandosi
con il dinamismo dell'Italia del boom, Panzieri ritiene invece che
proprio lo sviluppo intenso della produzione industriale abbia
definitivamente fatto saltare il tradizionale equilibrio del blocco
industriale-agrario e che ci si trovi ormai di fronte ad una nuova
realtà, una sorta di “neocapitalismo” fondato sull'integrazione
fra capitalismo di Stato e monopoli privati e incentrato sulla
“programmazione” come modello anticiclico, sull'integrazione del
proletariato tramite il pieno accesso al consumo e infine sul
recupero in funzione anticomunista di parte della sinistra nella
gestione del potere. Panzieri parla esplicitamente di “fanfanismo”
dal nome dell'esponente politico democristiano che più di ogni altro
aveva operato al fine di rendere simbiotico e permanente il rapporto
tra il partito cattolico e lo Stato. Argomentazioni riprese dieci
anni dopo pressocchè integralmente dalle organizzazioni della Nuova
Sinistra, compresa la campagna contro il “Fanfascismo” sviluppata
da Lotta continua alla vigilia delle elezioni presidenziali
del 1971.
Tutto questo sullo sfondo di profondi
mutamenti degli assetti produttivi e sociali del paese: dal 1955 al
1962 l'Italia cambia aspetto, il reddito e i consumi raddoppiano, il
Sud si spopola, le campagne vengono abbandonate, le città del Nord
si gonfiano a dismisura di una massa di immigrati in cerca di lavoro
nelle fabbriche in piena espansione. In pochi anni si conta un
milione di operai in più.
É una classe operaia di tipo nuovo,
radicalmente diversa da quella che fino ad allora aveva rappresentato
l'avanguardia di fabbrica e che non era sostanzialmente cambiata dai
tempi de l'Ordine Nuovo. Si riduce sensibilmente, fino quasi a
sparire nei principali centri industriali, la figura dell'operaio di
mestiere, altamente professionalizzato e geloso delle sue competenze,
soppiantato da una massa di giovani lavoratori, ex contadini, per lo
più immigrati, sprovvisti di tradizioni sindacali e di una vera
formazione professionale, ma accomunati da un lavoro estremamente
parcellizzato, semplificato, fondato sulla ripetizione meccanica e
standardizzata sempre degli stessi gesti.
É l'operaio-massa che non ha
rivendicazioni particolari di categoria o professione da avanzare, ma
solo richieste egualitarie (aumenti uguali per tutti, eliminazione
dei cottimi, delle gabbie salariali e delle qualifiche) che saranno
poi la vera novità rivoluzionaria dell'autunno caldo. Una forza
lavoro dequalificata, a basso costo, composta di immigrati dalle
campagne che si accalcano nelle periferie fatiscenti dei grandi poli
industriali, di cui Danilo Montaldi offrirà nel 1960 nel suo libro
Milano, Corea una descrizione ancora oggi insuperata.
(Giorgio
Amico, Le culture del Sessantotto, 2)