TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 11 settembre 2010

Da ri/leggere: Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue



Ci sono libri che si deve assolutamente leggere, soprattutto se si vive nella Liguria di Ponente. L'angelo di Avrigue, romanzo di esordio di Francesco Biamonti, è uno di questi. Lo proponiamo pubblicando la ormai celebre presentazione di Italo Calvino e le pagine iniziali.


Italo Calvino

Ci sono romanzi paesaggio...


Ci sono romanzi-paesaggio così come ci sono romanzi-ritratto. Questo vive, pagina per pagina, ora per ora, della luce del paesaggio aspro e scosceso dell'entroterra ligure, nell'estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia.
La voce narrante è quella di un marinaio che non prova nessuna impazienza d'un nuovo imbarco (patisce il “male del ferro”, l'angoscia che la lamiera del cargo trasmette durante le lunghe traversate) ma anche se ama la sua terra più del mare, la gioia che ne trae gli sa sempre d'amaro. E' una voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi; ma il suo vocabolario è ricco di parole vere e insolite e precise, che vengono dal linguaggio parlato a ridosso delle Alpi Marittime. (L'apparizione d'un pastore che parla provenzale ci ricorda che anche linguisticamente questa è una zona di frontiera).
Tra i casolari di pietre e i villaggi di bungalow, i due aspetti della Riviera sono qui presenti insieme: un'agricoltura faticosa e solitaria e il mondo facile del turismo, a cui s'aggiunge la nuova dimensione internazionale del vagabondaggio giovanile che segue il miraggio della droga. E poi il pathos della frontiera,con la sua drammaticità depositata in tante storie di guerra, di contrabbando, d'espatri clandestini.
Come seguendo una tacita morale libertaria, il protagonista si rifiuta di giudicare il modo in cui ogni individuo spende la propria vita; ma vorrebbe comprendere cos'è quella spinta di autodistruzione che si sente nell'aria; e i suoi andirivieni lo portano a indagare sulla morte misteriosa d'un giovane. Quattro personaggi di donne, ognuna con una sua ossessione, incrociano i suoi passi; ma le solitudini sommandosi non s'annullano.

(Dalla quarta di copertina della prima edizione de L'angelo di Avrigue, 1983)



"Verso le undici Gregorio andò ad Avrigue. Il pomeriggio lo avrebbe passato al bar dell'olandese dove di solito lo aspettava Jean-Pierre. Era un bel posto su uno sperone quasi sempre dorato e ventoso.
Per scendere sulla piazza prese un carruggio a svolte in cui il vento non entrava d'infilata. Si ricordava che portava a una piazzola detta la «porta della madonna» (una statua era murata sotto il cornicione della chiesetta) e dalla piazzola si scendeva per una scalinata alla piazza grande. Il carruggio era ormai disabitato: porte sbarrate, porte aperte sul vuoto, finestre semidivelte... nulla di male: nidi di miseria spariti! Nidi di silenzio, ora, e di topi. Avrigue era decisamente in decadenza: vi regnava la fame di sempre che ora pareva insormontabile, e i giovani se ne andavano.
I vecchi, ancora numerosi, erano tutti radunati sotto un portico. La piazza era vuota.
Un ragazzo l’attraversava, undici o dodicenne e con gli occhi già rassegnati. Portava un sacco di pigne, che le sue mani alzate dietro il capo curvo trattenevano a stento. Un altro sacco, vuoto, gli serviva da cappuccio e gli scendeva per la schiena, meno logoro della giacca sdrucita.
Veniva da lontano, dalle alture di scisti e sabbie con rosmarini odorosi e casoni fessurati.
Il mare di lassù è di un azzurro immobile e smorzato.
Gregorio conosceva ancora bene la vita del paese, vita e miracoli. L’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dai mutamenti. Tutto è eguale, da sempre e per sempre: le feste, le esequie, le esistenze imprigionate, gli spersonalizzati destini personali, la miseria che viene dai secoli.
Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla «buona morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed unire all’idea di questa fatica, da sola insostenibile. E morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile.
Chi nel passato aveva creduto in una qualsiasi forma di felicità terrena, al di fuori del possedere una casa in paese e una campagna rocciosa, si era perduto.
La vita era stata uniforme.
Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno.
I fatti acquistavano la forza del mito e si radicavano nella memoria dei padri dei figli e dei nipoti: un triennio di Siccità, un intero anno di Piogge, il Maestrale, la Spagnola, il Tifo, la Fillossera, la Prima Guerra Mondiale.
Più solenni le funzioni religiose se una morte accidentale, la pazzia, un suicidio venivano a rompere il senso del limite, a infrangere l’ordine.I vecchi sotto il portico, che dava sulla piazza vuota, facevano un po’ di cronaca (come furono loro stessi a dire) parlando di rapine sequestri omiicidi e altre cose «all’ordine del giorno».
La pensione di cui vivevano, chiamata «la minima», era pari e forse più alta del reddito ricavato in passato da fasce e petraie. Ciò li disorientava e li rendeva persino allegri.
- Sono passato nel «carrugio vecchio», - disse Gregorio, - non c’è più nessuno.
- Se ne sono andati tutti in giù.
- In giù dove?
- In giù sulla costa e più giù ancora.
- Con un landò di lusso, andata sola.
Avevano un piede nella tomba e ancora voglia di scherzare, gli immutabili vegliardi, tranquilli e beati con la loro pensione. Si tolse nel salutarli il suo berretto da marinaio.
Andò in bottega a prendere il pane (forno e bottega erano in un vicolo) e nel riattraversare la piazza vide il prete in compagnia.
Teneva circolo come alla domenica; un uomo dall'aria timida, dolorosa. Non assomigliava ai preti di un tempo eccessivi nel bene e nel male, sepolti in sacrestia, ancora alonati di reverente paura.
- Hai sentito? Un giovane è caduto dalle rocche di Crairora.
Disgrazia? suicidio? si chiedeva qualcuno.
- Disgrazia comunque, - disse il buon prete.
Voleva premunirsi contro il divieto di funerali religiosi. Sovente il prete è più illuminato dei fedeli. La sua pietà varca la sua fede.
- L'hanno già visto in tanti, - disse un contadino, - ma nessuno lo conosce.
- Io vado, - disse il prete. - Chi viene con me?
- Andiamo immediatamente, - disse Gregorio.
- Senza paramenti, senza aspersorio? - chiese una voce.
- Vado così.
Salirono per i vicoli tra case che si spalleggiavano. poi presero un carruggio lungo, aperto all'azzurro. Si immisero sullo stradone di Crairora.
La tunica ingombrava il prete, che arrancava male in salita e ogni tanto si fermava per tergersi la fronte dal sudore. Sembrava molto impressionato. Doveva essere un buon prete, non uno di quei tipi sbrigativi e vaghi davanti alla morte.
E andava piano. Un'ora per arrivare al passo dell'Annunciata.
Lassù il vento scuote ulivi e pini.
Il prete riposò; Gregorio appese la sporta del pane alla finestra della chiesetta, all'inferriata nascosta da un cespo di rosa canina.
- Ora non saliamo più, prendiamo un sentiero che aggira il picco.
- Andiamo piano, - disse il prete, - tanto non c'è rimedio.
- Per un triste spettacolo non c'è da aver fretta. "

Francesco Biamonti
L'angelo di Avrigue
Einaudi 1983/2008
€ 12.00

mercoledì 8 settembre 2010

Jorn, l'arte, la scienza, il laboratorio... (II)

Piero Simondo a Cosio d'Arroscia (2007)

Seconda e ultima parte dell'intervista (del 1992) a Piero Simondo in cui si tratta di Jorn, avanguardie artistiche, situazionismo.

Jorn, l'arte, la scienza, il laboratorio...
Intervista a Piero Simondo (seconda parte)

a cura di Cesare Viel


C.V. - Riguardo al rapporto arte-scienza anche i Nucleari avevano qualcosa da dire. Qual era la differenza rispetto alle posizioni di cui si é parlato?

P.S. - I Nucleari pensavano ad un rapporto arte-scienza di tipo letterario. L'idea dell'"arte nucleare" è un'espressione, tutto sommato abbastanza convenzionale, dell'attualità dell'epoca. Non si dava in loro un rapporto tra l'arte e la scienza, semmai un problema di metafora.

C.V. - Quindi il discorso si poneva ad un livello completamente diverso?

P.S. - Si, perché non c'era nei Nucleari lo sviluppo di una problematica tra il campo artistico e quello scientifico. Non avevano nessun interesse ad approfondire questi rapporti, nè sotto l'aspetto filosofico, al modo di Jorn, né in una direzione più fredda e metodologica come io la concepivo e nemmeno nel senso politico propugnato da Debord (opzioni teoriche, queste, tra loro contrastanti ma che comunque individuavano delle posizioni).

C.V. - Sintetizzando, si può ipotizzare una reale fecondazione, un passaggio nell'Italia degli anni '50 delle tematiche di CoBrA e, in particolare, di Jorn?

P.S. - Rispetto a CoBrA erano ormai mutate le condizioni di base, per cui quando Jorn viene in Italia non lo fa più come esponente di CoBrA ma come uno che ha già tagliato i ponti con questa esperienza, in parte anche perché alcune cose che aveva pensato in quel contesto non erano poi passate. Comunque é molto difficile rispondere con precisione a questa domanda, perchè è difficile sceverare le diverse componenti all'interno di un clima complessivo. E' certo che Jorn ha influenzato anche cose mie, ma ancora di più i lavori di Gallizio, sul quale anch'io ho avuto un ascendente, perchè Gallizio nasce da questi incontri, prima con me e poi con Jorn. Certo, per vari aspetti, il peso di Jorn é più consistente del mio. Quanto a Gallizio ho sempre sostenuto che si é trattato di uno dei pochi naif non figurativi degli anni '5O. In altri casi questo tipo di rapporti si vede meno, ma ho l'impressione che il "Gesto" abbia subito quest'influenza, anche se ce ne sono state anche altre. D'altronde Jorn e Dubuffet si conoscevano, anche se quest'ultimo era più vecchio e cominciò tardi a dipingere, ma non si può dire che Dubuffet dipenda da CoBrA più di quanto CoBrA dipenda da Dubuffet. Quello che conta é che ci fu una sorta di "esprit" del momento, per cui determinate cose che vennero fatte qui somigliano molto ad altre fatte invece in America, sebbene manchi un legame vero e proprio. Maturano e vengono fuori... Poi certe forzature si fanno a posteriori per creare una linea genealogica di comodo, ancora secondo l'antico cliché della noblesse... andando a cercare i quarti di nobiltà, ma questi sono solo vecchi modelli. Di fatto però Jorn - ma anche Constant ed il Situazionismo - portano nella pittura italiana degli elementi che qui non c'erano, nel senso che le cose di cui si occupavano erano estranee al circuito culturale ufficiale italiano, venivano percepite come del tutto marginali. D'altra parte sono stati importanti proprio per questo, per aver introdotto idee diverse, che si trovarono a confluire con altre posizioni marginali che non riuscivano a trovare ascolto.
Per quanto mi riguarda, ho trovato in Jorn, su varie questioni, conferme e appoggi di cui altrimenti, qui, non avrei mai potuto fruire. In questo senso c'è stata una risonanza sotterranea e non estesa, più che un'influenza.
La cassa d'amplificazione massmediatica viene solo in un secondo tempo e sopraggiunge proprio quando i contenuti sono spariti dalla realtà. Quel clima é stato amplificato non certo per i suoi contenuti ma perché diveniva una bandiera ed un fattore promozionale; le cose più importanti sono cadute e sono rimasti solo gli aspetti più di facciata, mentre altre rimangono ancora lì: problemi che non si toccano perchè non si saprebbe da che parte incominciare.

C.V. - Quale ruolo svolgeva il Centro di Ricerche Estetiche di Torino? Che cosa ha rappresentato l'esperienza del C.I.R.A.?

P.S. - Si é trattato di due vicende diverse. Nel '57/58, dopo che ero riapprodato a Torino (ma la data iniziale è poi veramente il 1962), ho costituito il C.I.R.A. (Centro Internazionale Ricerca Artistiche) che ha una storia sotterranea nel senso che non é mai uscito fuori clamorosamente. Più o meno in quegli stessi anni, per ragioni che non conosco, Michel Tapié creò il suo Centro di Ricerche Estetiche. In realtà su uno dei bollettini d'informazione dell'I.S. fui accomunato all'attività di Tapié, che tra l'altro - a differenza di Jorn - non conoscevo personalmente. Il Centro di Tapié era costituito nell'ottica delle gallerie. Mentre il C.I.R.A., attraverso la mia persona, si ricollegava al principio del laboratorio, Tapié non ha nessuna connessione con tutti i discorsi cui accennavo prima, nel senso che Tapié era un critico e tutto il suo discorso si ricollegava piuttosto all'informale e quindi ad un mercato già esistente. Il gruppo C.I.R.A. riprendeva in concreto il discorso interrotto del Laboratorio, nel senso di un'educazione estetica di base, dove ognuno poteva realizzare i suoi prodotti anche andando contro il mercato. Era decisamente un discorso anti-Tapié, anche se a livello di ciò che é stato riportato nei bollettini dell'I.S. sarebbe stata la stessa cosa.

C.V. - Il C.I.R.A. promosse delle pubblicazioni?

P.S. - Si, due o tre bollettini poco diffusi; c'è altro materiale che non é stato neanche del tutto recuperato. Il nucleo del lavoro riguardante l'attività del C.I.R.A., comunque, é rimasto inedito.



C.V. - Jorn era al corrente di questa attività?

P.S. - Si, quando venne fondato il C.I. R.A., ne diedi comunicazione a tutti quelli che conoscevo, chiedendo un aiuto. Jorn mi rispose in una lettera augurandomi fortuna e mi inviò un assegno. Quindi sapeva di questa mia attività ma in effetti non era più così interessato ad un lavoro di questo genere. Aveva mantenuto ancora qualche legame con un certo Situazionismo di matrice più artistica che si esprimeva attraverso la rivista "Situationist Time" di Parigi, dove anch'io scrissi un paio di articoli sul tema del labirinto. Era una rivista in cui si realizzava una certa confluenza tra la scienza e le arti. Ne uscirono tre o quattro numeri.

C.V. - Quindi attraverso il C.I.R.A. viene approfondito il discorso dell'artista non professionista, iniziato con il Laboratorio di Alba?

P.S. - Nel mio libro sul colore ("Il colore dei colori", Nuova Italia ed., 1990 N.D.R.) ho scritto che l'avanguardia ha un oscuro rovello pedagogico. Anche il rifiuto, almeno verbale, della pedagogia da parte di Jorn é in realtà pedagogico. Non a caso Jorn fu anche insegnante, all'inizio, in Danimarca. La sua prima professione é stata quella del maestro. E gli altri se non furono maestri furono scolari. Ho sempre avuto l'impressione che uno come Debord abbia sofferto in qualche misura di non aver fatto la Sorbona. Può averlo fatto come scelta, ma in fondo un poco gli deve aver pesato. Anch'io non posso dire che il non aver seguito il mercato in certa misura non mi crei dei problemi. E' chiaro: posso aver scelto ma rimane il problema. Cose di questo genere nascono nel mondo dei chierici. Se si leggono i documenti del '47 di Jorn, Constant ecc. il rapporto arte-lavoratori era molto clericale, ambiguo, perché sono sempre i chierici che parlano e quello che arriva agli altri é comunque distorto. Ritornando al tema del laboratorio vien fuori l'idea (che mi affascina ancora anche se in maniera diversa) che tutti potessero in qualche misura produrre quel tanto o quel poco di bellezza, e questa è una tesi pedagogica. Vale a dire: il laboratorio come luogo dove chiunque può provare avendo un minimo di riferimento. Questo era un pensiero estratto dal modello della libera ricerca scientifica, con tutti i limiti ed i condizionamenti che un progetto del genere si porta dietro. Comunque centrale era l'idea che la ricerca é aperta: puoi provare e costruire quel tanto di teoria legata alla prassi che ti é possibile condurre. Cosa che si può veder bene se ci si riferisce al mondo dei bambini perché con loro queste cose emergono in modo più evidente. Ma lo si può notare anche al livello degli artisti per la loro componente fanciullesca (vera o falsa che sia); non a caso la poetica del fanciullino di Pascoli é più vera di quanto possa sembrare, nel senso che se la si pensa a fondo non é poi così banale.
Ora, confrontando la posizione del ricercatore non professionale alla figura dell'artista di professione, risulta evidente come la prima sia più debole: il professionista prevale perché ha dietro la struttura, cioè tutto quanto garantisce quello di cui ha bisogno per esser tale.
In effetti questo dislivello fra le due posizioni non disturba, tuttavia penso che le contraddizioni siano reali e non un'invenzione, per cui alla fine la situazione si può capovolgere nel contrario e questa specie d'apertura può risultare del tutto illusoria.
In realtà niente garantisce che quest'apertura porti più in là di tanto. Lo si vede anche a livello dell'esperienza che abbiamo fatto noi, nel senso che i ragazzini che compiono un certo tipo d'esperienza poi due anni dopo vengono reificati dalla pressa ed escono chissà come: non si sa cosa sia rimasto di quell'esperienza, raramente qualcuno di loro va a vedere una mostra.

C.V. - Qual è, dunque, l'elemento forte (se c'è) tra il maestro e l'allievo? Sta forse nel rapporto interpersonale, che può diventare anche rivoluzionario, rispetto ad un rapporto di lavoro, di natura esclusivamente professionale?

P.S. - Per me é soprattutto quest'idea (in qualche misura presente anche in Jorn) di rendere disponibile una serie di possibilità, un po' il concetto di riappropriarsi di strumenti, di mezzi che ti vengono comunque confiscati. Sono strumenti di varia natura; certo è che questa riappropriazione resta soggetta a tutta una serie di crisi, di sconvolgimenti. Quindi si tratta del problema di creare una situazione. Questa parola ritorna spesso, anche se poi le situazioni che in concreto si realizzano non sono proprio come ci s'immaginava che dovessero essere. Creare una situazione significa "modificare delle condizioni".
Se tu modifichi un po' una serie di condizioni t'accorgi che succedono cose assolutamente diverse. Ad esempio, stando ai sacri testi della psicologia dell'età evolutiva, il bambino raggiungerebbe il massimo della sua libertà espressiva intorno ai 5/6 anni per passare poi al realismo visivo. E' facile dimostrare - ed io l'ho fatto più d'una volta - che, cambiando la situazione e mettendolo in condizione di compiere un altro tipo d'esperienza, l'individuo non approda dove gli era stato predetto. Non esiste alcun rapporto predeterminato di questo genere. Che poi questo significhi cambiare il mondo... beh al riguardo c'è da discutere ma resta comunque il fatto che anche un piccolo cambiamento non è così disprezzabile.

C.V. - Allora diviene determinante il fattore tempo?

P.S. - Si, certo. Poi questo é anche legato ad una serie di cose che costituiscono la contraddizione insita in una gran quantità di faccende. C'è, ad esempio, un problema di numeri: dieci esperienze hanno un peso diverso rispetto a diecimila, è chiaro. Ciò significa che entra in gioco la questione del controllo. Finora quel che si è visto storicamente è che vengono riciclati i sistemi di controllo precedenti. Quanto Trotzkij diventa commissario dell'Armata Rossa, l'unico gioco che ha in mano è quello di ricilare gli ufficiali zaristi e appoggiarsi alle strutture di comando che non vengono toccate, per cui il generale può giurare fedeltà alla rivoluzione ma in fondo la sua funzione è sempre quella del generale e non cambia. Allora qui è un po' lo stesso, certamente libertà e illusione sono due cose molto vicine.
Certo, in questa storia di creare situazioni l'accordo non c'era, nel senso che quando - ad Alba - spingevo l'idea del laboratorio non ho trovato appoggi concreti nel renderla operativa. Ad esempio quando al congresso erano venuti, in ritardo, due cecoslovacchi (la cortina di ferro era allora una realtà ben presente) si mostrarono interessati a questo progetto. Avevano cercato di dire che sarebbe stato opportuno fare uno scambio reale: pensavano di mandare degli studenti di Belle Arti. Jorn, dal canto suo, aveva immaginato e i contatti con la vedova di Leger, ma tutte queste proposte rimasero inutilizzate. Si volevano creare simili innesti culturali ma per un certo verso questo tentativo sembrò al movimento un'attività troppo banale. Jorn però, in Danimarca, quando aveva potuto s'era dato da fare per far diventare suoi amici direttori di qualche importante accademia. Quindi l'idea che non si dovesse abbandonare l'ambito della scuola per Jorn era valida, nel senso che la scuola non la puoi pensare solo come strumento in mano d'un potere ma occorre pensarla anche nei termini d'una conquista degli altri. La scuola è in questo senso un concetto ambiguo e contraddittorio, perchè possiede due facce e anche di più.

C.V. - Quindi c'era accordo con Jorn nella considerazione del problema educativo.

P.S. - Si, anche se questi problemi non venivano resi del tutto espliciti. Sicuramente non trovavano spazio nel pensiero di Debord. L'interesse che condividevo con lui e con Jorn (c'è stato un periodo in cui abbiamo lavorato molto insieme) era per un collegamento concreto di tutte queste cose con la vita sociale. Sembrava di nuovo balenare in una forma diversa l'idea del gioco dell'arte come un qualcosa che non si poteva buttar via tanto facilmente. Però tutto questo non é stato portato ad un livello di dibattito avanzato e strutturato in senso completo.
Uno dei limiti, secondo me, era questo: in realtà il movimento aveva un potere espansivo estremamente limitato e, quindi, una capacità di dibattito altrettanto ristretta.
Sono tutti problemi rimasti aperti (come la problematica arte-scienza di Jorn) e questa é la cosa più interessante: alcuni problemi in quel momento sono stati aperti e sono rimasti sospesi: problemi fondamentali che rimangono lì per anni o addirittura per secolo, per motivi molto complicati, difficili da comprendere appieno. La questione sollevata da Jorn non tanto sul rapporto arte-scienza quanto su quello arte-industria, che si riallaccia alle problematiche del Bauhaus, é una questione non risolta cui in seguito sono state date svariate risposte, tutte però estremamente deboli e banali. Il rapporto arte-industria nel senso della sua produzione economica é rimasto al livello pedestre della sponsorizzazione: niente di più o di diverso dal cardinale rinascimentale. O si é concretato, per altro verso, anch'esso affatto semplicistico, nel design.

C.V. - Per finire, quale valutazione si può dare dei rapporti fra arte e industria sorti attorno al M.A.C.?

P.S. - Li trovo molto banali, tra l'altro anche negli esiti. Non ne scaturisce niente di particolarmente interessante, perché non si attua nessuna vera integrazione: il rapporto tra quelle ricerche e la realtà, la vita sociale, rimane sempre modesto. Finisce per tornare ad essere quel che non vorrebbe, cioè décor, nel senso più banale del termine, con tutta una serie di stereotipi, con un po' di stranezza qua e là ma in effetti mi pare molto poco e comunque scarsamente incidente.



PIERO (PIETRO) SIMONDO é nato a Cosio d'Arroscia, in provincia di Imperia, il 25 agosto 1928. E' laureato in filosofia. Ha studiato pittura con Felice Casorati all'Accademia Albertina di Torino. Nel 1955 ha fondato con Asger Jorn il Laboratorio sperimentale per una Bauhaus immaginista; nel 1957 ha partecipato alla fondazione dell'Internazionale Situazionista. Nel 1962 ha fondato, a Torino, il C.I.R.A. (Centro per un istituto internazionale di ricerche artistiche) con il proposito di recuperare l'esperienza di laboratorio della Bauhaus immaginista e soprattutto la sperimentazione artistica in senso lato. Dal 1972 si è occupato dei Laboratori di attività sperimentali presso la facoltà di Magistero dell'Università di Torino."




(Da: OCRA, circolare sui problemi dell'arte, Genova, ottobre 1992)



Io ti video! Video - videoinstallazioni - videoperformance - digital art




Claudio Romeo

Diaframmi prismatici



Non temete, non voglio scriver d’ottica, ma neppure d’Arte, bensì di comunicazione, quella quotidiana che fruiamo tutti. Archiviato ormai il secolo breve da due lustri, questo XXI secolo si prospetta come un’era vocata alla comunicazione, ma di che tipo, di quale valore, con quale scopo.
Sempre di più e più spesso il desiderio di informarsi e di informare passa attraverso schermi, monitor, display, video: il computer primo fra tutti, ma anche il telefonino, ora videofonino, la televisione, pure l’azione di spostarsi da un luogo all’altro passa attraverso lo schermo di un navigatore satellitare, come quasi tutti i macchinari industriali e non hanno sostituito manopole e interruttori da display touch screen. Tutto questo ci porterebbe molto lontano e si potrebbero scrivere fiumi di parole, ma questo non è il momento. Vorrei porre però una piccola considerazione, lanciare un sassolino nello stagno. Quanto di quello che passa attraverso i vari video, internet, TV per primi, è realtà. Per intendersi, con realtà mi attengo alla voce dei dizionari: tutto ciò che esiste, che si può osservare tangibilmente. Piuttosto, tutto quello che passa attraverso essi si trasforma in reale. Ecco spiegato il titolo di questo mio intervento, lo schermo che come una porta lascia entrare immagini, suoni, fatti avvenimenti che al tempo stesso si scompongono e ricompongono per diventare la nostra realtà. Se un albero cade nella foresta e non c’è nessuno per sentirlo, fa rumore?


martedì 7 settembre 2010

Jorn, l'arte, la scienza, il laboratorio... (I)


A visitare oggi Albisola, quasi non si crede che dall'inizio degli anni '50 fino alla fine del decennio successivo Albisola sia stata il luogo di incontro e di elaborazione delle avanguardie artistiche. Eppure è stato così. Questa intervista a Piero Simondo offre un quadro vivissimo della vivacità progettuale e teorica di quegli anni.

Jorn, l'arte, la scienza, il laboratorio...
Intervista a Piero Simondo (Prima parte)

a cura di Cesare Viel


C.V. - Incominciamo con il parlare del tuo rapporto con Asger Jorn.

P.S. - Jorn rappresenta la mia fonte primaria. Con lui sono stato in stretto rapporto d'amicizia per un certo periodo di tempo. Era arrivato in Italia nel '54, quando il gruppo CoBrA di fatto non esisteva più. CoBrA era nato subito dopo la fine della guerra, intorno al 1947/48, dall'incontro di artisti di area scandinava che, relativamente ai loro paesi, erano fortemente politicizzati. Appartenevano ad un'area che si può definire comunista. Molti dei materiali determinanti in quella vicenda sono stati raccolti e pubblicati da Gerard Berreby. In questo libro ("Documents relatifs à la fondation de l'Internationale Situationniste", ed. Allia, Parigi 1985) si può vedere abbastanza bene tutta la parabola ideologica del movimento CoBrA. Sul terreno del movimento, CoBrA era strettamente legato ad una pratica di teorizzazione d'idee da parte di un gruppo abbastanza ristretto di artisti che avevano attraversato la guerra (Jorn era del '14, ad esempio, Constant del '28 ecc.). Nel dopoguerra si poneva una serie di problemi che, nei vari paesi europei, si focalizzavano nel tema dell'impegno, del rapporto complesso con la politica; si trattava di una questione molto sentita. Molta gente aveva partecipato alla resistenza ed era antifascista.
Dicevo che Jorn, per motivi suoi, era venuto in Italia nel 1954 e precisamente a Milano, dove c'era la Triennale. Qui conosce Sottsass, Baj e Dangelo. Costoro gli sembravano le frange a lui più vicine in Italia. Jorn era convinto che negli anni '50 a Milano ci fosse il movimento di architettura più importante, con tutto il fenomeno del neo-razionalismo.
La riflessione teorica sul problema del rapporto tra arti e architettura interessava molto a Jorn. Il nucleo della sua elaborazione però non derivava da CoBrA ma da esperienze ancora precedenti: nel '36 Jorn aveva lavorato a Parigi nell'atelier di Le Corbusier. Da questo punto di vista Jorn era molto legato a tutto ciò che era stato lasciato aperto dal Bauhaus e intendeva combattere la tendenza che in quegli anni Max Bill cercava di imporre ricostruendo il Bauhaus ad Ulm.
Alla Triennale Jorn aprì dunque una polemica volta a contrastare una concezione dell'arte ispirata ai canoni dell'Arte Concreta. Questo perché Jorn aveva delle matrici completamente diverse dal punto di vista pittorico: la pittura scandinava era molto legata all'idea di cultura popolare, a tutto un patrimonio che si riallaccia, attraverso complesse ramificazioni, alla tipologia del Romanticismo tedesco. Inoltre quando Jorn si riferiva al Bauhaus degli anni '20 pensava, in particolar modo, alla presenza di maestri come Kandinsky e Paul Klee che tentarono di resistere alle tendenze che avrebbero condotto in seguito alla liquidazione delle loro ricerche. Quindi Jorn porta a Milano nel '54 tutta questa storia, problematica ed anche di difficile comprensione.

C.V. - Come fu percepita, dunque, la presenza di Jorn a Milano in quel periodo?

P.S. - Ricordo che l'architetto Pica, allora direttore della Triennale milanese, parlando con me, definì Jorn una "bella macchietta", un po' perché si presentava in modo strano ma anche perché a quei tempi non era così evidente come quello che diceva fosse, in realtà, importante. Da Milano poi Jorn finisce per confluire su Albisola, dove tra l'altro riscopre il Futurismo e lavora con la ceramica, sempre inseguendo la sua ricerca di sintesi delle arti, anche se il suo problema non era solo questo. In questo periodo, come ho già accennato, CoBrA non c'è più. C'è soltanto nel senso che Jorn ha degli amici o nemici, a seconda del punto di vista, con cui resta in contatto. CoBrA era stato un gruppetto di dodici o tredici persone, una sorta d'insieme apostolico. Sotto la spinta di Jorn aveva pubblicato svariate monografie. Jorn - infatti - era un convinto assertore dell'importanza della comunicazione scritta e della stampa: secondo lui qualsiasi cosa avrebbe dovuto essere stampata e aveva ragione perché altrimenti molte cose sarebbero andate perdute.
Quando l'ho conosciuto, dopo il suo arrivo in Italia, queste cose erano ormai finite e il nome CoBrA in ciò che seguirà non comparirà più. Non è stato un caso che - approdato a Milano per intervenire, con la fama d'essere un curioso personaggio, contro Max Bill - abbia risuscitato il nome del Bauhaus ed iniziato a darsi da fare per creare un nuovo movimento. Il nome - M.I.B.I. - ha tutta una serie di risonanze: "movimento" ha la sua importanza; "internazionale" anche, nel senso di un richiamo a temi, se vogliamo, di carattere politico, anche se indiretto, se no non si spiegherebbero le vicende che hanno legato Jorn al Lettrismo, in specie all'Internazionale Lettrista e a Debord.

C.V. - Vi siete conosciuti ad Albisola?

P.S. - Sì, nell'estate del '55. Ad Albisola Jorn aveva chiamato alcuni amici tra cui Matta che con CoBrA non aveva niente a che fare, ma - piuttosto - con le propaggini ultime del Surrealismo, così come Lam.

C.V. - Jorn, Corneille, Appel lavoravano insieme?

P.S. - Lavoravano nel forno di Bianco a Pozzo Garitta e un po' anche da Mazzotti. Lavoravano assieme ma ognuno per conto proprio. Non facevano lavori in collaborazione con un progetto comune. E non é neppure che gli altri aderissero al Bauhaus Immaginista. Era, tutto sommato, una situazione abbastanza casuale. Tutto quanto era - se mai - nella testa di Jorn. Ecco, si può dire che anche la presenza di Fontana e dei Nucleari, creasse più che altro una "situazione di movimento": nel senso di persone che erano ancora marginali nella cultura e che cercavano di emergere e trovare degli spazi. Erano sussulti d'avanguardia, un residuo d'avanguardia che però, rispetto ad altre posizioni d'allora, pareva più avanzato. Baj e Jorn erano, in realtà, molto lontani tra loro. La contiguità che si é tentato di costruire si fonda per lo più su motivi esteriori. Ad esempio, dal volume di Berreby - in cui tutti i materiali sono stati messi insieme - emerge una visione di quei fenomeni più unitaria di quanto sia stata nei fatti. Credo che questo di possa avvertire facilmente.



C.V. - E Gallizio?

P.S. - Ad Alba conobbi Gallizio che aveva, a quei tempi, una piccola fabbrica. Era nato un rapporto con lui perché io ero interessato a lavorare con la terra. C'era ad Alba anche una cerchia di intellettuali legati a Chiodi e a Fenoglio con cui si entrava spesso in polemica. Cominciammo a realizzare alcuni lavori utilizzando delle resine. Artisti di Albisola (Antonio Siri, Sciutto e Caldanzano) fecero, con il mio aiuto, una mostra ad Alba. In casa di Gallizio videro qualcuno dei miei lavori realizzati con la terra e dissero che erano simili alle cose di Jorn, che ancora non conoscevo. Ci invitarono ad Albisola e a ferragosto del '55 facemmo una mostra al Bar Testa. Jorn vide i lavori, cominciammo a parlare e decidemmo di creare un laboratorio che fosse legato al suo Bauhaus Immaginista.
Poi Jorn venne ad Alba in settembre e lì gettammo le fondamenta del laboratorio, la cui realizzazione comportò peraltro una serie di problemi.

C.V. - Di che problemi si trattava?

P.S. - Anzitutto che le idee su quel che doveva essere questo laboratorio non si rivelarono del tutto consonanti.

C.V. - Come vedeva Jorn l'idea del laboratorio?

P.S. - Gli piaceva più il nome della sostanza. Il laboratorio del movimento aveva per lui un senso più che altro mentale; non lo interessava tanto un laboratorio dove si concretizzassero delle cose fatte insieme.
In fondo Jorn era un produttore molto individuale, come tutti gli altri d'altronde. Gallizio dava una disponibilità per quanto riguardava l'uso dei locali. Ma non si riuscì a concretizzare il progetto di un centro produttivo che avesse una sua dimensione precisa. Quello che invece Jorn aveva subito avviato era l'idea di pubblicare una rivista, il cui nome era stato suggerito da me: "Eristica".
Per mancanza di soldi ne uscì solo un numero. L'esito del laboratorio fu il Congresso degli artisti liberi nel '56. La maggior parte dei contatti maggiori fu stabilita da Jorn. Contemporaneamente venne organizzata una mostra, accanto ad un'altra sul Futurismo organizzata con Tullio Mazzotti.

C.V. - Quali furono i contatti avviati da Jorn?

P.S. - Jorn venne in rapporto con un gruppo che si era staccato dal Lettrismo di Isidore Isou: la figura di maggior spicco di questo gruppo era proprio Guy Debord, il quale si era inteso con Jorn ed aveva mandato ad Alba come rappresentante Gil J. Wolman.
Il problema era cosa sarebbe successo dopo questo primo congresso; quando ci si riconvocò nel '57 a Cosio d'Arroscia il risultato fu lo scioglimento del M.I.B.I., perché Debord presentò l'idea di trasformarlo nell'Internazionale Situazionista. Quest'idea fu accettata.

C.V. - Cosa si perse e cosa di acquistò con il passaggio dal M.I.B.I. all'Internazionale Situazionista?

P.S. - Dal punto di vista dei numeri non si perse niente: si era in pochi e pochi rimasero. Dal punto di vista teorico ci fu una serie consistente di cambiamenti. Nell'idea del M.I.B.I. c'era qualcosa del vecchio Bauhaus, qualcosa che si ricollegava all'idea di rapporto tra le varie arti e l'industria, l'idea di un certo fare da laboratorio nel senso di realizzare qualcosa in un dato modo attraverso il rapporto dell'arte con la scienza. Questa era una delle cose che interessavano a Jorn in un senso sperimentale e di oggettivazione di questi problemi. D'altra parte, questo aspetto si scontrava con le convinzioni di Jorn che, per certi versi, vedeva come fumo negli occhi qualsiasi cosa che sembrasse compromettere il suo principio di libertà creativa.
Anche Debord vedeva queste cose come fumo negli occhi, ma per tutt'altre motivazioni teoriche. Per lui il problema si poneva solo nei termini di un'azione politica più o meno diretta, strada sulla quale la stessa I.S. naufragò. Nel rapporto arte-rivoluzione per Debord l'arte spariva, rimaneva solo l'idea della rivoluzione condotta anche contro l'arte stessa, vista come l'espressione di ciò che era necessario rivoluzionare, come un elemento da superare e scartare. Quest'ottica del superamento era estremamente idealistica. Per Debord non si poteva andare avanti in un certo modo ma era necessario chiudere e aprire un nuovo percorso: con questo si voleva dire che una buona parte dell'esperienza del Bauhaus Immaginista e anche dell'ex CoBrA era in sostanza definitivamente liquidata.
Tra l'altro, se si va a vedere il Rapporto sull'I.S. di Debord si può notare come le sue matrici culturali, i suoi riferimenti e la sua ricostruzione della storia dell'arte avessero come antecedente unico il Surrealismo e, per di più, il solo Surrealismo francese.
L'I.S. fu, di fatto, segnata da una sorta di sciovinismo francese. Lo scontro si creava perché l'idea di rivoluzione era assunta in termini che comportavano il superamento o addirittura la negazione di qualsiasi cosa, prima ancora che venisse realizzata. Gli artisti si trovarono quindi sbilanciati, perché tutto ciò che appariva sotto la categoria dell'arte ricadeva nella contraddizione che bisognava eliminare. Su queste cose infatti, per quel che mi riguardava, mi dissociai, dato che non intravedevo nessuna prospettiva ma solo l'antica contraddizione per cui da un lato il principio rivoluzionario si trasformava in un palcoscenico per quelle cose che in teoria si sarebbero volute negare e su cui ognuno aveva costruito le proprie avventure, compreso lo stesso Debord il quale in realtà pubblicò da Gallimard. Quindi io nel 1958 ero fuori.



C.V. - E Jorn?

P.S. - Jorn non venne espulso per ragioni anche molto più banali: avendo ormai un certo mercato finanziava la pubblicazione del bollettino dell'I.S.. Il mercato era partito a sua insaputa nell'estate del '57 per merito di Carlo Cardazzo che aveva venduto due suoi quadri a Peggy Guggenheim.

C.V. - Si può approfondire il discorso circa il concetto di sintesi delle arti in Jorn?

P.S. - Jorn aveva come matrice culturale la filosofia tedesca. Era addirittura più hegeliano di quanto non fosse il marxista Debord. Jorn era davvero tedesco nella sua impostazione del problema dell'arte e della scienza, o meglio del rapporto arte-scienza-morale. Il suo problema era come collocare nella pratica artistica queste categorie. Lui tendeva a separare e, contemporaneamente, ad unire queste cose e queste forme di pensiero. Era convinto che il suo fosse uno schema più che dialettico, dato che non era uno schema a due poli ma almeno a tre. Ad esempio, accanto a questo schema di derivazione hegeliana aggiunge la critica della scienza di Niels Bohr (che era, come lui, danese) ed anche la teoria di Einstein.
Assumeva inoltre una parte dello strutturalismo in virtù del suo interesse per l'archeologia antropologica, cercando comunque di preservare il più possibile il polo della creazione che gli pareva non potesse venir abbandonato. In questo intrico c'é un chiaro riferimento a tutta una serie di problemi che non hanno a che fare soltanto con la cultura popolare ma che riguardano, per certi versi, la teoria del profondo, Jung e Freud, più Jung che Freud. Riassumendo, Jorn dice: se consideriamo la scienza come il terreno dei "perché", allora l'arte - e anche l'estetica - diviene il terreno del "perché no?".
La domanda estetica implica quella morale, che distingue "questo si", "questo no". E qui appare l'aut-aut di Kierkegaard, di cui si diceva parente. L'interrogazione estetica, quindi, è per Jorn quella che, in aggiunta all'esigenza morale, stravolge il perché. Con il "perché no?" ricompare infatti la sfera del desiderio e tutta una serie di problemi dove l'arte ha radici e proiezioni che non possono venir facilmente liquidate. Credo che su questo versante l'impossibilità di stabilire un terreno comune con Debord sia evidente, anche se in Debord c'è un'ambiguità che resta, perché il concetto di Debord di situazione come creazione continua, questo regno del desiderio, fa emergere un intrico di problemi irrisolti che spiega anche le ragioni di un avvicinamento fra certe posizioni sue e di Jorn. Così anche nella mia idea di laboratorio c'erano i fattori del desiderio e del "perchè no?". Un laboratorio che non fosse scientifico in senso stretto ma un laboratorio artistico.

C.V. - E' ciò che dice il suo testo su "Eristica", là dove parla del concetto di struttura operativa in contrapposizione a quella descrittiva o prescrittiva?

P.S. - Si, esatto. Era proprio questa idea, più o meno vaga, che comunque ho continuato a portare avanti, riuscendo meglio a realizzarla a livello di rapporto educativo.

C.V. - Si può approfondire questo aspetto?

P.S. - Si, è l'idea fondamentale che ciascuno può realizzare la propria arte. Ricordo di averne discusso con Debord; l'idea fu ripresa anche nell'attività di Gallizio, ma la sua "pittura industriale" è poco più d'una boutade. Comunque di questo si trattava: affrontare l'esperienza estetica, anche produttiva, senza delegarla al genio o al produttore specializzato. Inoltre ci si opponeva alla divisione del lavoro culturale, se non addirittura a quella del lavoro sociale, indubbiamente assai più difficile. Il diritto di farsi la propria arte, che era una delle tante idee del laboratorio, su di me aveva un riflesso specificamente operativo. Questa mia posizione creava - all'interno del laboratorio - una contraddizione: se veramente era possibile farsi la propria arte, la posizione dell'artista di professione sembrava pregiudicata, anche se poi non è così vero. Ricordo che Debord, a questo proposito, aveva lanciato l'idea di fare quadri di tutti i tipi, soprattutto dei falsi. Ma nella proposta di Debord c'era ancora l'esigenza di un distacco dal mercato borghese visto come un valore negativo, come sfruttamento, per cui l'immissione sul mercato dei falsi aveva lo scopo di mettere a nudo il meccanismo del mercato stesso, svalorizzando il prodotto. In questa teoria comunque si annidava ancora quella dialettica che per certi versi l'idea del laboratorio contestava in maniera ancor più radicale, nel senso che - secondo il mio modo di vedere - la svalorizzazione non era più legata ai meccanismi del valore economico ma, piuttosto, al suo contrario, ossia al fatto che ognuno poteva produrre i propri valori senza aver bisogno di passare attraverso le strettoie della dialettica individuata dal pensiero di Debord. Nel laboratorio dunque c'era tutta questa problematica e la presenza di questi punti di vista creava un clima comune, ma non così organizzato come si é tentato di mostrare successivamente, valendosi di proiezioni parziali.

C.V. - Le cose, quindi, erano molto più frammentate di quanto non possa apparire ad un primo sguardo?

P.S. - Jorn aveva in testa quest'idea del Movimento, anche nel senso letterale del termine: mettere in moto delle cose. Che poi queste fossero anche coerenti fra loro lo interessava meno. Perché la sua preoccupazione - se vuoi, paura - era che tutto si cristallizzasse, prendesse una forma definitiva. Da questo punto di vista Jorn era un movimentista senza uno statuto ideologico ben preciso. Ciò che voleva era approfondire la sua ricerca d'integrazione delle arti. Perciò, venuto in Italia, aveva stabilito contatti con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. In particolare, per quanto riguarda l'ambito degli architetti più o meno affermati, entra in rapporto con Sottsass, con i Nucleari e con il loro mecenate, l'avvocato Paride Accetti, collezionista - fra l'altro - di disegni d'architettura futurista (possedeva buona parte dei progetti di Sant'Elia). Conosce anche Fontana che era un po' il punto di riferimento per le ricerche più avanzate di quel momento. La mia impressione personale - che peraltro ritengo fondata - é che il Gruppo CoBrA sia stato conosciuto in Italia solo con l'arrivo di Jorn e comunque da un numero molto limitato di persone. In realtà, persino artisti come Appel o Corneille, più giovani di Jorn, mi sembrano già degli epigoni pronti ad utilizzare la situazione per lanciarsi sul mercato internazionale dell'arte. Jorn, poi, sempre nella sua particolare visione movimentista delle cose, aveva contattato un gruppo, anche questo piuttosto marginale: l'Internazionale Lettrista, nata sul terreno della contestazione artistica legata soprattutto ad esperienze di tipo cinematografico. L'Internazionale Lettrista in seguito avrebbe assunto connotati sempre più manifestamente politici, di azione diretta nei confronti, ad esempio, della guerra d'Algeria.
Anche in questo caso si trattava di un piccolo gruppo, aggressivo ma conosciuto solo in un ristretto ambiente parigino attraverso la rivista "Potlach". Jorn entra in contatto con loro perché esisteva un possibile legame intorno alla concezione dell'"urbanesimo unitario". Anche i membri dell'I.L. erano interessati al problema - caro a Jorn - del rapporto fra l'arte e gli ambienti della vita sociale. Debord aveva lavorato con Henri Lefebvre. I lettristi erano passati da problemi più strettamente linguistico cinematografici al fenomeno della "psicogeografia". Le mappe psicogeografiche disegnavano ipotesi estremamente affascinanti, legate ad un vivere marginale nella metropoli. Si cercava di passare nei pochi luoghi d'incontro, ad esempio i bar, attraverso una "deriva": di muoversi nella città e di vedere dove questo movimento riusciva a condurti. Su questo girovagare si costruiva in seguito una mappa di percorso. Le mappe erano il resoconto di questo andare alla deriva nella città. Restava comunque il problema di evitare una rigidità procedurale che bloccasse la deriva stessa. L'idea - che era anche di Jorn - di rimettere continuamente in moto il corso delle vicende non appena rischiavano di fermarsi, ha alle spalle il concetto di "rivoluzione permanente" di Trotzkij. In comune fra tutte queste ricerche c'era la protesta, un disagio nei confronti delle istituzioni, una forza gravitazionale.

C.V. - A quell'epoca quali forme d'istituzione artistica v'infastidivano di più? C'era, su questo punto, una differenza con Jorn?

P.S. - Si, c'era una differenza, che si può riscontrare anche da come poi sono andate le cose. Io ero mosso da un rifiuto, da una rivolta motivata contro il mercato e in particolare contro un sistema dell'arte fondato sui pilastri dell'estetica, della critica, del professionismo artistico, delle gallerie.
Questa d'altronde é una storia che continua. Tutto l'insieme non é stato per nulla intaccato, anzi la situazione é divenuta sempre più smaccata. Comunque non c'è solo l'aspetto denunciato da Debord: questa crisi, la società dello spettacolo. C'è anche il fatto che la crisi non rappresenta la soluzione; la crisi può continuare perché non c'è limite all'infezione. Continua il sistema artificiale dei valori, al quale - bene o male - finisce con l'aderire chiunque. A quel tempo io me la prendevo contro tutto questo, cercando di "devalorizzare" a mio modo. La via d'uscita che mi pareva più praticabile (e questo era il punto di maggior intesa con Jorn) stava nell'approfondire il rapporto tra arte e scienza. La linea ufficiale consisteva invece nel separare nettamente i due campi operativi: l'arte appartiene all'universo che Debord definirà "dello spettacolo", la scienza invece all'universo delle attività cosiddette serie.
La differenza fra Jorn e me, invece, verteva più sull'atteggiamento verso il mercato: io non l'ho mai accettato mentre Jorn riteneva che movimento e mercato fossero due piani separati ma non incompatibili: il mercato poteva eventualmente fornire i soldi necessari per il movimento: tra i due campi non c'era alcun rapporto se non questo, di carattere strumentale.
La posizione di Debord era ancora diversa: non gli importava di nessuna di queste cose e voleva muoversi in una direzione decisamente "anti", che cavalcava la protesta politica.
Da questo punto di vista, in realtà, del movimento CoBrA non vedo nessuna realizzazione. Non é che qui si fosse ricostituito perché CoBrA aveva avuto una sua collocazione precisa, molto legata al dopoguerra e alla storia della cultura dei paesi nordeuropei, una cultura di carattere progressista. Qui, in Italia, cose del genere non esistevano. Ad esempio, tra Jorn e Fontana non vedo - sinceramente - nessun tipo di rapporto, nei lavori che realizzavano. Fontana veniva da tutt'altri percorsi: credo anzi che fondamentalmente non si comprendessero. Anche se, proprio perché era finita la guerra, c'era una ripresa dell'idea di avanguardia, dato che il mondo si era distrutto. Il tratto comune a tutti noi non era che un'aspirazione al rinnovamento. Ad un certo punto, infatti, Jorn pensava di poter inserire nel movimento le istituzioni, in particolare quelle dei musei olandesi e scandinavi. che si trovavano su posizioni all'avanguardia. In Danimarca, amici di Jorn avevano occupato posti dirigenziali nei musei d'arte contemporanea e lui, attraverso questi rapporti, cercò di far entrare il movimento.

C.V. - Questi sforzi ebbero esiti concreti?

P.S. - Si, ma non nello spirito del movimento, perchè quando si creò la possibilità d'un accesso museale, proprio questa circostanza determinò l'esplosione del progetto. Jorn mi raccontò che, quando venne lanciata la manifestazione organizzata dallo Stedelijk Museum di Amsterdam nel '61/'62, gli interessi dei vari gruppi erano ormai completamente centrifughi. Constant, fra l'altro, aveva ideato un labirinto nell'ambito di una più vasta progettazione legata al concetto di "derive", ma non appena diede vita a "New Babilonia" venne allontanato perché - secondo Debord - rappresentava un passo indietro, riproponendo la questione nei termini tradizionali dell'arte, e quindi il suo tentativo veniva visto come un vendersi a quella società che si sarebbe dovuta scardinare.
Per Gallizio, invece, la mostra rappresentava una sorta di rivincita, nei confronti della sua posizione, e così via... Ognuno perseguiva uno scopo diverso da quelli degli altri. Jorn, dal canto suo, poteva permettersi qualche lusso, dato che dal '57 era entrato nel giro del grande mercato ed era divenuto così un valore.
La mia idea di laboratorio, quindi, la portai avanti in altro modo: insegnando.
Ma, per tornare al Congresso di Alba, alcune delle posizioni espresse dal gruppo di Debord (l'Internazionale Lettrista) sconvolsero i milanesi. Non accettarono di firmare una dichiarazione contro la Triennale e vennero così immediatamente esclusi.
Nel '62, poi, erano fuori tutti gli artisti che avevano partecipato alla costituzione dell'Internazionale Situazionista, compresi Jorn e Constant. La storia dell'I.S. durerà ancora dieci anni ma il discorso diventerà sempre più chiuso, più settario, con l'uso disinvolto dell'attacco e della provocazione.

(continua)

PIERO (PIETRO) SIMONDO é nato a Cosio d'Arroscia, in provincia di Imperia, il 25 agosto 1928. E' laureato in filosofia. Ha studiato pittura con Felice Casorati all'Accademia Albertina di Torino. Nel 1955 ha fondato con Asger Jorn il Laboratorio sperimentale per una Bauhaus immaginista; nel 1957 ha partecipato alla fondazione dell'Internazionale Situazionista. Nel 1962 ha fondato, a Torino, il C.I.R.A. (Centro per un istituto internazionale di ricerche artistiche) con il proposito di recuperare l'esperienza di laboratorio della Bauhaus immaginista e soprattutto la sperimentazione artistica in senso lato. Dal 1972 si è occupato dei Laboratori di attività sperimentali presso la facoltà di Magistero dell'Università di Torino."


(Da: OCRA, circolare sui problemi dell'arte, Genova, ottobre 1992.



sabato 4 settembre 2010

Il protestantesimo nell'età moderna


Centro Culturale Valdese


Fondazione Centro Culturale Valdese – Torre Pellice (To)




Corso di formazione
IL PROTESTANTESIMO NELL’ETÀ MODERNA


a cura di Giorgio Tourn*

Il corso prevede una presentazione sintetica della storia dei protestanti nei secoli XVIII-XX. Si tratta di ripercorrere, con l’ausilio di immagini e lettura di documenti, le tappe essenziali del cammino del protestantesimo nell’età moderna, evidenziando quale incidenza in campo culturale ha avuto la sua riflessione teologica.
Fenomeni religiosi quali il Pietismo, il Metodismo, i grandi Risvegli americani, la critica biblica, le missioni, la teologia dialettica hanno segnato profondamente la cultura tedesca, anglosassone e, di conseguenza, quella europea in generale. Esserne consapevoli non è senza importanza per le scelte di oggi.

Il corso è accreditato dalla Facoltà valdese di teologia, Laurea in scienze bibliche e teologiche (2 crediti).

PROGRAMMA

Sette incontri di un’ora e mezza ciascuno (17.00 - 18.30) così suddivisi:

1 - La crisi della coscienza europea - 3 ottobre 2010

2 - La ragione e il cuore: il Settecento I - 7 novembre 2010
3 - La ragione e il cuore: il Settecento II - 5 dicembre 2010

4 - Il secolo protestante: l’Ottocento I - 10 gennaio 2011
5 - Il secolo protestante: l’Ottocento II - 6 febbraio 2011

6 - Nel secolo breve: il Novecento I - 6 marzo 2011
7 - Nel secolo breve: il Novecento II - 3 aprile 2011

*Giorgio Tourn, pastore valdese emerito, già direttore e presidente della Fondazione Centro Culturale Valdese, ha studiato teologia a Roma e a Basilea dove è stato allievo di Karl Barth e Oscar Cullman. È autore di numerose pubblicazioni in campo teologico e storico, molte delle quali edite dalla Claudiana - Torino.


Sede: Biblioteca della Casa Valdese, Torre Pellice, via Beckwith 2.

Iscrizioni
La frequenza è gratuita ma, per motivi organizzativi, si richiede l’iscrizione
entro il 30 settembre 2010 c/o la segreteria della Fondazione CCV: tel.0121.932179,
fax 0121.932566, e-mail: segreteria@fondazionevaldese.org.

giovedì 2 settembre 2010

Un anniversario. Luigi Cortesi: storico militante






Un anno fa, il 2 settembre 2009, moriva Luigi Cortesi, uno studioso fondamentale per il processo di formazione politico-culturale della generazione del '68. Lo ricordiamo pubblicando la recensione (che apparirà nel prossimo numero di Guerre & Pace in uscita a fine settembre) del suo ultimo lavoro di Gianluca Paciucci.

Luigi Cortesi (Bergamo, 31 gennaio 1929 – Roma, 2 settembre 2009) è stato uno storico italiano, che si è occupato della storia del socialismo, del comunismo e del movimento operaio, con particolare riferimento alla nascita del PSI e del PCI. Oltre all'impegno di storico, Cortesi è stato molto attivo nei movimenti per la pace e per l'ecologia.
Dopo aver partecipato giovanissimo alla Resistenza, nel dopoguerra inizia il suo itinerario di studioso del movimento operaio e di militante (in realtà poco ortodosso, Cortesi non fu mai stalinista)del PCI. A Milano collabora con Franco Della Peruta, Stefano Merli e Giuliano Procacci presso l'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, di cui dirige la Biblioteca. Già direttore della “Rivista storica del socialismo”, nel 1988 fonda e dirige la rivista “Giano. Pace ambiente problemi globali". Per molti anni è stato ordinario di Storia contemporanea all’Istituto Universitario Orientale di Napoli.

Gianluca Paciucci

Contro il comunismo, per il comunismo


UN ANNIVERSARIO.

A un anno dalla morte di Luigi Cortesi (2 settembre 2009), questa recensione dell'ultima sua fatica è l'omaggio a un uomo integro, combattivo e sereno, a uno studioso infaticabile, a un'assenza che addolora. “Contro il comunismo, per il comunismo”, come alcuni studenti sloveni scrissero su uno striscione visibile nella Facoltà di Filosofia di Lubiana nel 1970: potrebbe essere il senso di questo ampio volume, poderoso per qualità e forza del pensiero. Quasi un'opera narrativa, questa Storia del comunismo, grandiosamente adeguata al grandioso assalto al cielo del secolo passato. Utopia e Termidoro sono i confini stabiliti di una ricerca che avrebbe dovuto continuare (1): il termine a quo si perde nei secoli e nei millenni -Cortesi parla di “naturalezza storico-antropologica del comunismo” (p. 19)-, mentre quello ad quem è facilmente, e ormai quasi unanimemente, databile negli anni tra il 1924 e il '27; è inoltre situabile nell'Unione Sovietica dove intorno alla morte di Lenin venne ritracciata la strada al 'ritorno all'ordine' staliniano. È vero anche che nessun Termidoro è mai riuscito a scalzare dalla vicenda storica la lunghissima durata della Rivoluzione (di questa come di altre), ovvero del più grande tentativo mai realizzato di modificare le strutture economiche e relazionali tra le classi sociali e gli esseri umani, così che il sottotitolo del libro di Cortesi potrebbe essere semplicemente invertito, “Da Termidoro all'Utopia”, per raccontare l'oggi.

CONTRO LA GUERRA, CONTRO LO STATO.

Quattordici capitoli, una prefazione e un epilogo, corredati da fitte note (2) e da una ricca bibliografia, a malapena trattengono il materiale studiato, come reti metalliche a frenare la caduta di pareti di roccia: esso deborda, e solo le ragioni di una militanza multipla (socialcomunista, pacifista, ambientalista, antinuclearista), propria dell'autore, sanno evitare il crollo e permettono un viaggio lucido e confortevole. Chiaro è il nesso iniziale che lega il comunismo ideale e quello reale in una situazione specifica: la cosiddetta Grande guerra e i suoi crimini segnano l'orrore radicale da cui scaturiscono la volontà e l'occasione di sovvertire l'esistente. Tra mille contraddizioni e dissidi, il gruppo più vicino a Lenin agisce animato dall'obbligo dell'obbedienza alle alte intenzioni espresse in opere e atti, e la miseria del quotidiano, fatto di violenza e di paura. “...Va cioè registrato come dato caratterizzante che il comunismo novecentesco nasce dal fallimento della Seconda Internazionale, e si differenzia drasticamente da questa rifiutando i compromessi nazionalisti e affrontando in tutta la sua concretezza e nei suoi contorni più brutali il problema della guerra. Il comunismo è la forma più alta e più radicale d'un pacifismo che a sua volta aveva fallito. La stessa rivoluzione russa fu una rivoluzione contro la guerra, e fu in nome dell'internazionalismo e della pace e in una prospettiva universalistica che venne fondata l'Unione Sovietica...” (p. 283); e, poco più avanti: “il comunismo novecentesco era nato dalla coscienza del male storico avanzante”. Questa è la prima pietra, ormai da molto scheggiata e scartata, di un edificio la cui intenzione fondamentale era solida: fermare l'avanzata del male storico, non certo di quello metafisico ed eterno; e ciò era ben presente, sostiene Cortesi, nel pensiero e nell'azione di Luxemburg, Lenin, Bucharin e Trockij, ovvero dei fondatori della III Internazionale. Proprio qui risiede la differenza insanabile con il pensiero reazionario, quest'ultimo rassegnato (ma con il sostegno dei grandi istituti bancari e delle mafie, e sostenuto da eserciti e polizie) alla inevitabilità della guerra e del male, storico e metafisico confusi, in un mondo naturalmente consegnato, nel 1914 come nel 2010, alla follia bellica.
Se la risposta rivoluzionaria alla guerra è l'atto fondante del comunismo novecentesco, il manifesto teorico ne è Stato e rivoluzione (1918) di Lenin, il cui “target è europeo e internazionale, così come lo scenario evocato. Esso va considerato come la più alta testimonianza di un progetto che non poté avere attuazione, di un 'comunismo inedito' che non poté essere praticato né avviato a sperimentazione non solo come ordinamento di emancipazione sociale, ma anche come linea di liberazione del soggetto dai coaguli mentali di reificazioni e feticismi che ne inibiscono la realizzazione. Un progetto, quindi, la cui esigenza non è stata cancellata dal secolo trascorso e si fa anzi più urgente sotto i colpi di uno sviluppo capitalistico che dilania il mondo...” (p. 227). Comunismo contro la Guerra e contro lo Stato, che dovrà “estinguersi”, con corollario d'accuse di filoanarchismo: due progetti paralleli, ma estinto il primo nella tragedia subìta del comunismo di guerra (inizialmente un ossimoro),(3) per la condotta criminale delle potenze antibolsceviche; schiacciato il secondo nel rafforzamento spaventoso della struttura statuale sovietica dettato dalla necessità di una storia tagliente, e nondimeno segno di accettazione della realtà così com'è anche dalle più alte cariche del Partito, anche dai bolscevichi più intransigenti. Accettazione come involuzione reazionaria. “...Il passaggio dalle altezze del 1917 agli orrori del '37 e alla facilità della liquidazione del 1989-'91 pone grandi problemi, e forse l'intero problema della costruzione storica. Eppure, non è possibile dimenticare o sottovalutare gli aspetti nuovi dell'eleborazione ideale e della costruzione politica del comunismo rivoluzionario, il suo contributo alla liberazione dell'uomo, proprio quello che il potere staliniano avrebbe ferocemente contrastato...” (p. 300). Qui, come in altri passaggi, Cortesi non nasconde la sua perplessità e la sua irritazione nei confronti di una regressione storica che doveva/poteva essere fermata, ma che le rigidità dell'ortodossia hanno vigorosamente favorito.

COSTRUZIONE DELLO STALINISMO.

Il 1917 ha poi un'altra responsabilità, anche questa non inevitabile, ovvero l'aver legato dogmaticamente i destini della Rivoluzione a quelli dell'Unione Sovietica (“russocentrismo”), a detrimento delle più avanzate visioni del marxismo occidentale (normalizzazioni e obbedienze sempre più cieche richieste da Mosca, interventi “ex cathedra” di Zinov'ev contro Lukàcs e Korsch, etc.). L'analisi di Cortesi si indirizza, in pagine efficaci, all'esame dei vari tentativi di rivoluzione fuori dall'URSS nel primo dopoguerra (Germania, Ungheria) e della nascita dei vari partiti comunisti, con particolare attenzione ai casi tedesco, francese e italiano (nel “livornismo” italiano spicca la rigorosa figura di Bordiga, colpevolmente estirpato dalle storie ufficiali e dal patrimonio storico della sinistra italiana). Le speranze di una rivoluzione in occidente (nel 1923 si chiude di fatto la fase rivoluzionaria tedesca e s'apre quella nazionalsocialista con il putsch, sia pure farsesco, di Monaco) falliscono quasi contemporaneamente al manifestarsi della malattia di Lenin, alle incertezze relative alla Nuova Politica Economica e all'irrigidimento del partito bolscevico. “...Durante la malattia di Lenin s'era delineata un'alleanza tra Zinov'ev, Kamenev e Stalin, e le incertezze sul problema tedesco furono certo influenzate dal timore che Trockij avrebbe tratto dal successo del movimento maggior potere in URSS e nel comunismo internazionale (...). La trojka si saldò appunto sullo sfondo del fallimento del comunismo tedesco, e i fatti del 1923 fornirono alimento al contrasto latente nel partito bolscevico. L'assenza di Lenin gravò su tutta la situazione in modo determinante. Entro breve tempo sarebbe stata la stessa rivoluzione russa ad entrare in crisi...” (pp. 506-7). Il ruolo della 'personalità' nella storia è sempre ambiguo, fondamentalmente alienante/umiliante (il leaderismo invocato dalle sinistre italiane d'oggi non ne è che una mediocre riproposizione), ma è certo che la grandezza di Lenin incarna desideri e proiezioni di tutta un'epoca, in ascolto della forza delle masse che accompagnano/subiscono la travolgente attività del capo della Rivoluzione mondiale. La sua malattia e morte, il suo rigor mortis provocarono l'irrigidimento di tutto il Partito e di tutto il Paese dei Soviet: ciò che aveva rivestito il carattere della provvisorietà e delle eccezionalità, divenne struttura permanente e scelta. Nel capitolo “Kronštadt, il punto 7 e la Nep. Democrazia e rivoluzione” (p. 438 e segg.) Cortesi affronta le contraddizioni principali del leninismo: “...Lo stesso pensiero di Lenin, di fronte al nesso sopravvivenza-terrore, ebbe un netto ripiegamento, constatabile nella dissolvenza della tematica di Stato e rivoluzione, orgogliosamente rivendicata ma schiacciata da una serie di stati di necessità. Lo scadimento procede di pari passo con l'inevitabile decadenza dei Soviet e con l'emergere del partito come unico scoglio nella tempesta, ed è impressionante. Forse è lì il vero 'giro di boa' non solo dell'elaborazione ideale della rivoluzione, ma della rivoluzione stessa. È in ogni caso la fine della sua forza propulsiva immediata, il passaggio ad una fase difensiva dall'esito ignoto...” (p. 449). La morte di Lenin porterà a compimento tutte le tendenze più distruttive di questa fase della Rivoluzione: le ripetute “crisi di estraneità” di Trockij (assente ai funerali del leader bolscevico; non si oppone alla segretazione del cosiddetto 'testamento di Lenin') impediscono il coagularsi di un fronte di critica organizzata all'emergere di Stalin, abile e moderato in questa fase, capace di sconfiggere gli avversari su un terreno prettamente politico; inoltre la crescita economica tra il 1924 e il '25 darà fiato ai fautori più radicali della Nep, per nulla preoccupati della rinascita di elementi di capitalismo nella Russia dei Soviet (resa alla 'inevitabilità' delle logiche del mercato) e delle necessità di uno sviluppo industriale anche basato sulla sottrazione sistematica delle ricchezze prodotte dalla campagna (il 'destro' Stalin sconfigge politicamente la 'sinistra' trockista, ma ne adotta ed estremizza le politiche anticontadine, fino ai massacri della 'dekulakizzazione'). La costruzione dello stalinismo diventa il risultato di due altre costruzioni: quella del 'trockismo' come male assoluto, in un'impressionante campagna di stampa; e quella del 'leninismo' come sacro e indiscutibile patrimonio.(4) Alla fine di questa fase di lotte accanite, il moloch sovietico si caratterizzerà per “una serie di antinomie: tra economia pianificata e lavoro comandato, fine della proprietà privata e possesso statale, potenzialità di emancipazione e negazione dei diritti, sviluppo culturale e limiti della partecipazione critica: deriva e capovolgimento delle finalità umanistiche del comunismo, contraddizioni insanabili che culminano nello stragismo degli anni '30. Le malattie sociali del capitalismo non erano state superate, ed altre se ne erano aggiunte...” (p. 708). Solo l'esito vittorioso della Seconda guerra mondiale (socialpatriottica) prolungherà la vita dell'URSS fino all'implosione poco clamorosa del 1991 (i clamori verranno dopo, e ancor oggi sentiamo tutte le grida di dolore della costruzione del socialismo e della sua dissoluzione).

LA COMPLICAZIONE.

Merito affascinante dell'opera di Cortesi è quello di condurci attraverso gli eventi di un secolo senza che mai la tensione cali, guardando sia alla Storia maggiore (idee e fatti) sia alla “vita popolare quotidiana”, ai “rapporti sociali nella loro concretezza” (pp. 727-8, in particolare), oscillando tra due poli, con accorata e non definitiva prevalenza del secondo: da una lato l'assunzione di tutte le vicende del comunismo, nessuna esclusa, senza angelismi né demonizzazioni, contro le tendenze di un antistorico e autoassolutorio ritorno a un Marx ripulito da tutti i marxismi e i comunismi del Novecento; dall'altro il ripudio di quanto di più atroce dal nome comunismo (o in nome di questo nome) è stato generato. La ferocia degli anni dello stalinismo “non aveva nulla a che fare con le durezze della lotta di classe, né con il naturale autoritarismo della rivoluzione, né con il ricorso difensivo al terrore nella guerra civile; qualcosa di totalmente estraneo al marxismo e di repellente al movimento operaio e alla sua cultura” (p. 728). Questo presunto tradimento è l'impasse, questa è l'irrisolta 'complicazione' (ne ha scritto benissimo Claude Lefort)(5) portata dal comunismo, questa è la sfida attuale, tra spossatezze e crimini di nuova generazione. Non viverla insieme a Luigi Cortesi ci fa più deboli, e ci responsabilizza.

Note

1. Cortesi scrive che il suo “volume giunge fino al punto in cui sono già ben presenti i prodromi d'una crisi profonda del comunismo; ma esso anticipa in un riepilogo le prospettive del comunismo, sia ideale sia reale, fino al 1945. E' nelle mie intenzioni affrontare, in un successivo volume, il periodo dello stalinismo e le sue tracce profonde... ” (p. 21).
2. Note purtroppo fornite in ordine crescente in tutto il libro, e non per singolo capitolo, fino a raggiungere il numero ingestibile di 1534, in un volume già poco maneggevole per dimensioni. Ma queste sono le sole critiche da rivolgere a una pubblicazione meritoria.
3. “...La guerra civile fu in concreto largamente internazionale e non fu promossa, ma subita dal governo rivoluzionario; fu una guerra condotta con estrema durezza, anche con crudeltà, ma prettamente difensiva (...). I bolscevichi non inventarono né il campo di concentramento, né il terrore, né lo sterminio – elementi della cultura di guerra e di eliminazione del nemico largamente applicati dal colonialismo e dall'imperialismo di ogni nazionalità, compreso quello russo, cultura della quale certo subirono l'influenza, ma che non era la loro...” (p. 426).
4. “...L'invenzione del trockismo e l'attribuzione a questo di una funzione malefica fu all'origine di un danno incalcolabile per l'intero movimento comunista. Fu il crisma dato a un nuovo scolasticismo. Esportata mediante l'Internazionale, essa attraversò disastrosamente l'intero comunismo (...). La vera funzione della costruzione del trockismo fu nella sua utilità ai fini della costruzione d'un leninismo pietrificato e monolitico (...). La costruzione del leninismo ad usum era già stata avviata nei riti funebri, nell'imbalsamazione, nel linguaggio retorico degli eredi...” (p. 579).
5. Claude Lefort, La complication, Paris, Fayard, 1999, pp. 257.




Luigi Cortesi
Storia del comunismo. Da Utopia al Termidoro sovietico
Manifestolibri, 2010
€ 65


Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".

mercoledì 1 settembre 2010

Emozioni 7



E' da pochi giorni disponibile il n.7 della nuova serie di Emozioni, Foglio interno di Poesia & Varia Tematica, curato dal poeta imperiese Gianni Donaudi, del cui contenuto diamo un assaggio riportando alcuni passi del racconto di apertura. Seguono due poesie che Donaudi dedica al mare della sua Oneglia, tratte dal n.3 della rivista "Alto tradimento".


Il mare è un luogo dell'anima


Zia Luana diceva che l'amore per il mare si eredita come il colore degli occhi, la forma del naso o l'attitudine al canto, ed è irresistibile perchè è la voce del tuo destino. Vissuta nella prima infanzia sulle coste dell'Argentario, vi aveva fatto ritorno nella maturità, perchè ovunque andasse ogni brivido di vento le portava l'odore della salsedine ed era sufficiente il profumo del rosmarino che intisichiva in un vaso per fare affiorare alla memoria immagini di pini, ginepri, mirti, aggrappati a scogliere scoscese.
Di notte poi il mare dilagava nei suoi sogni e la trascinava come l'onda forte di risacca trascina fragorosamente le pietre del fondo. Capì che era inutile lottare contro quel richiamo, così come è inutile opporsi alla corrente impetuosa della vita, al flusso inarrestabile ed eterno che ti porta dove vuole.
Decise di lasciare tutto, di volare via verso il mare dei suoi ricordi e quello del suo navigare immaginario verso un orizzonte infinito dove finisce l'orizzonte di noi uomini limitati.
Obbedendo alla voce interiore, fece ritorno alle splendide marine della sua infanzia (...)
Su questa riva il mare, che arriva tumultuoso e schiumante nel corridoio tra pareti di scogli, frena il suo impeto, la sua onda illanguidisce andando a fluire con incredibile dolcezza in uno specchio di acqua purissima. Sembra un amante che rimane intimidito ed estatico all'improvvisa comparsa dell'amata. Le generazioni che si sono susseguite hanno raccontato vicende che si assomigliano tutte, perchè parlano lo stesso linguaggio di vita e di morte, di bellezza e di tragedia, come quelle che narrarono i cantastorie sulle piazze e le donne nei campi (...) perchè il mare è innanzitutto un luogo dell'anima, luogo di giorni perduti, metafora dell'immutabilità del destino umano.
Il mare sa che i sogni durano più a lungo della storia degli uomini, sovente ridotta a brandelli di memoria sempre più vicini al grande gorgo del nulla; perciò, quando li conserva o li restituisce, essi vanno ad alimentare altri sogni, altre leggende. Sempre ed ovunque il mare è testimone ed antagonista, soccorritore e nemico nell'umana vicenda. Etruschi e Romani, Saraceni e Spagnoli, Schiavoni e Tedeschi, predoni, soldati, coloni, vincitori e vinti sono stati tutti travolti dall'onda del tempo e la natura sovente ha trionfato sulle loro opere cancellandone la memoria. Ma il mare non li ha dimenticati e nel suo linguaggio arcano ci parla ancora di loro nell'eco delle onde imprigionata nel cuore roseo delle conchiglie.

Da: Carla Aiuti, Crocevia tra sogno e realtà, Emozioni 7)


Per informazioni e richieste di copie scrivere a G.Donaudi, via A. Doria 5, 18100 Imperia On./ Email: gdonaudi@yahoo.it




Macondo

Raffica di pioggia torrenziale
sembra lavare spirito e materia

Principio di allagamento
nella stretta via,
riecco le due città gemellate

Violenta mareggiata
ancora il Caribe di casa nostra

Gigantesche onde lanciano sassi
sul paseo del mar
ai piedi delle alte creole palme

Qualche romantico scatta immagini
in celluloide

All'orizzonte un piccolo mercantile
boccheggia come un'altalena
dell'infanzia...


Lungomare di notte

Aria d'ebbrezza umida e salata.
Le onde si schiantano
sul murazzo della spianata.

Il lungomare è deserto,
qualche goccia di pioggia.

Le fila di palme,
l'antica bombarda anti-pirati
mi offrono un angolo di Caribe.

Sul nero orizzonte
suggestive illuminazioni
segnaletiche
di moli e natanti al largo...


Gianni Donaudi (Imperia 1946), poeta e scrittore. Ha collaborato a molte testate, tra cui “Il Manifesto”, “Tracce di Piombino”, “Essere secondo natura”, “Nuove Angolazioni” di Napoli, “Punto di Vista”, il quotidiano “L’Umanità” di Roma. Da quindici anni cura la fanzine Emozioni dove inserisce racconti, poesie, articoli e vario materiale anche di altri autori, sia italiani che stranieri. È anche mail-artista e suoi lavori sono stati esposti in varie parti del mondo.