Vincitore di 6 Oscar, The Hurt Locker di Kathryn Bigelow racconta la storia di un uomo qualunque impegnato in una delle guerre feroci che oggi si ama chiamare "missioni di pace". Un film per certi versi insopportabile nella geometrica descrizione di un inferno quotidiano su cui non si danno giudizi. Come sempre accade nel grande cinema sono le immagini a parlare.
Armida Lavagna
The Hurt Locker, ovvero la guerra è una droga
Un film adrenalinico, quasi insopportabile in certe sequenze, per l’inevitabile insorgere di un’angoscia viscerale nel seguire le delicatissime operazioni svolte da una squadra speciale dell’esercito americano di stanza a Baghdad: artificieri intenti a disinnescare bombe.
Nei primi minuti del film, durante i quali la tensione arriva immediatamente alle stelle, vi è lo sfortunato esito di uno di quei pericolosi interventi. La macchina da presa si sposta dall’uno all’altro dei tre affiatati componenti della squadra, segue gli sguardi dei due che fanno da “copertura” al terzo e tengono sotto controllo ogni oggetto che si presenti nel loro campo visivo. Così, mentre l’attesa si fa spasmodica, vediamo anche gli abitanti, ai lati di quella strada che fa da palcoscenico. Alcuni si allontanano spaventati, altri spiano la scena dalle finestre, qualcuno persino si avvicina per intavolare una conversazione impossibile, con l’unico risultato, voluto o meno, di far salire il nervosismo.
Percepiamo palpabile l’atmosfera in cui tutti si trovano invischiati: i soldati americani armati ed equipaggiati alla perfezione ma in perenne allarme, a indovinare ogni guizzo d’occhi scuri, puntando le armi su ogni mano che si muove troppo velocemente, su ogni bancarella o carretto o vestito o mucchio di spazzatura che potrebbe nascondere un ordigno esplosivo; gli iracheni che cercano di conciliare brandelli di vita quotidiana, avanzi di magri mercati, con la possibilità continua di saltare per aria in una di quelle esplosioni o di finire in mezzo a qualche scontro a fuoco o persino di essere uccisi per un ordine intimato e non eseguito perché non compreso, per un movimento troppo brusco, per un gesto istintivo mal interpretato.
The Hurt Locker, ovvero la guerra è una droga
Un film adrenalinico, quasi insopportabile in certe sequenze, per l’inevitabile insorgere di un’angoscia viscerale nel seguire le delicatissime operazioni svolte da una squadra speciale dell’esercito americano di stanza a Baghdad: artificieri intenti a disinnescare bombe.
Nei primi minuti del film, durante i quali la tensione arriva immediatamente alle stelle, vi è lo sfortunato esito di uno di quei pericolosi interventi. La macchina da presa si sposta dall’uno all’altro dei tre affiatati componenti della squadra, segue gli sguardi dei due che fanno da “copertura” al terzo e tengono sotto controllo ogni oggetto che si presenti nel loro campo visivo. Così, mentre l’attesa si fa spasmodica, vediamo anche gli abitanti, ai lati di quella strada che fa da palcoscenico. Alcuni si allontanano spaventati, altri spiano la scena dalle finestre, qualcuno persino si avvicina per intavolare una conversazione impossibile, con l’unico risultato, voluto o meno, di far salire il nervosismo.
Percepiamo palpabile l’atmosfera in cui tutti si trovano invischiati: i soldati americani armati ed equipaggiati alla perfezione ma in perenne allarme, a indovinare ogni guizzo d’occhi scuri, puntando le armi su ogni mano che si muove troppo velocemente, su ogni bancarella o carretto o vestito o mucchio di spazzatura che potrebbe nascondere un ordigno esplosivo; gli iracheni che cercano di conciliare brandelli di vita quotidiana, avanzi di magri mercati, con la possibilità continua di saltare per aria in una di quelle esplosioni o di finire in mezzo a qualche scontro a fuoco o persino di essere uccisi per un ordine intimato e non eseguito perché non compreso, per un movimento troppo brusco, per un gesto istintivo mal interpretato.
Ciò che più balza agli occhi è la totale impossibilità d’intendersi, che trascende la pur presente volontà – occasionale, mai sistematica - di comunicare; la diffidenza incoercibile tra due mondi in guerra, che trasforma ogni volto in un possibile nemico, ogni ombra in una minaccia, ogni dialogo stentato in un’aggressione verbale da un lato, in un contraddittorio miscuglio di sottomissione scherno minaccia dissimulata dall’altro.
I due mondi sono così lontani tra loro che il principale elemento di sospetto per i soldati americani è vedere un iracheno maneggiare un oggetto “occidentale”: un telefonino, una videocamera che sbucano in stridente contrasto con macerie muli veli muri sabbiosi rappresentano una minaccia inquietante, anche perché mettono i militari nella disperata condizione di dover decidere in pochi secondi se sparare o no, se chi sta loro di fronte è un nemico o no. Rispetto alla guerra “tradizionale”, manca il paradossale vantaggio di avere di fronte un nemico al quale si è autorizzati a sparare dalla certezza che in caso contrario sarà lui a farlo. Qui è diverso. Si rischia di sparare alle persone sbagliate. Si rischia di non sparare e morire.
Il principale pregio del film è proprio quest’efficacia nella resa della condizione in cui si trovano le truppe statunitensi, che sono in posizione di forza solo in apparenza, ma che in sostanza si sentono animali braccati ogni volta che scendono da un mezzo corazzato e si aggirano tra la folla, portati inevitabilmente a sospettare una spia in ogni mercante, un kamikaze in ogni tunica, un agguato dietro ogni svolta di vicolo. Il che può servire a farci riflettere sull’utilità di questa strada per “esportare la democrazia”...
Il soggetto fa sì che questo sia un film d’azione, drammatico e duro, che però riserva un certo spazio ad una sorta di indagine psicologica dei personaggi principali, consentendo allo spettatore di coglierne le profonde differenze nelle reazioni a questo tipo di stress ed insieme a quello, altrettanto o ancor più devastante, cui sono sottoposti per le loro delicatissime mansioni. Dei tre personaggi, quello più controverso è quello che risulta essere il vero protagonista: il sergente che si avvicina a passo spavaldo agli ordigni, perfettamente a suo agio nella pesantissima tuta protettiva, che mostra sprezzo del pericolo, incoscienza, follia persino agli occhi dei compagni per la disinvoltura con la quale si getta ogni volta in una danza con la morte per sfidarla, esorcizzarla, sospettiamo a volte persino per cercarla, forse sentendo irrazionalmente che quello è l’unico modo per sottrarvisi.
Il suo comportamento, che espone a rischi ancora maggiori del solito la sua squadra, lo rende ad essa inizialmente insopportabile al punto che per un attimo i due compagni sono sfiorati dall’idea di ucciderlo loro per liberarsene. Poi lentamente si instaura un rapporto, non facile, contraddittorio, ma il cui collante è dato proprio dal fatto di sapere che ognuno dei tre ripone la propria vita nelle mani degli altri, che ognuno dei tre ogni giorno vede in faccia la possibilità della propria fine e legge negli occhi degli altri lo stesso pensiero, anche se affrontato in modi tanto diversi.
L’artificiere spavaldo e duro rivela però nel corso del film delle debolezze che lo rendono finalmente umano pur nella condanna ad essere ciò che è diventato perché ormai non è più capace di diventare altro: la guerra è una droga, come leggiamo all’inizio del film, una droga di cui qualcuno finisce per non saper più fare a meno, pur avendo sperimentato ogni orrore, pur avendo infilato le mani nello stomaco di un bambino il cui cadavere è stato trasformato in un ordigno esplosivo. Pur avendo la possibilità di scegliere una vita “normale”, che semplicemente però non è più in grado di indossare con la naturalezza con cui indossa la tuta protettiva andando incontro alla prossima bomba da disinnescare.
I due mondi sono così lontani tra loro che il principale elemento di sospetto per i soldati americani è vedere un iracheno maneggiare un oggetto “occidentale”: un telefonino, una videocamera che sbucano in stridente contrasto con macerie muli veli muri sabbiosi rappresentano una minaccia inquietante, anche perché mettono i militari nella disperata condizione di dover decidere in pochi secondi se sparare o no, se chi sta loro di fronte è un nemico o no. Rispetto alla guerra “tradizionale”, manca il paradossale vantaggio di avere di fronte un nemico al quale si è autorizzati a sparare dalla certezza che in caso contrario sarà lui a farlo. Qui è diverso. Si rischia di sparare alle persone sbagliate. Si rischia di non sparare e morire.
Il principale pregio del film è proprio quest’efficacia nella resa della condizione in cui si trovano le truppe statunitensi, che sono in posizione di forza solo in apparenza, ma che in sostanza si sentono animali braccati ogni volta che scendono da un mezzo corazzato e si aggirano tra la folla, portati inevitabilmente a sospettare una spia in ogni mercante, un kamikaze in ogni tunica, un agguato dietro ogni svolta di vicolo. Il che può servire a farci riflettere sull’utilità di questa strada per “esportare la democrazia”...
Il soggetto fa sì che questo sia un film d’azione, drammatico e duro, che però riserva un certo spazio ad una sorta di indagine psicologica dei personaggi principali, consentendo allo spettatore di coglierne le profonde differenze nelle reazioni a questo tipo di stress ed insieme a quello, altrettanto o ancor più devastante, cui sono sottoposti per le loro delicatissime mansioni. Dei tre personaggi, quello più controverso è quello che risulta essere il vero protagonista: il sergente che si avvicina a passo spavaldo agli ordigni, perfettamente a suo agio nella pesantissima tuta protettiva, che mostra sprezzo del pericolo, incoscienza, follia persino agli occhi dei compagni per la disinvoltura con la quale si getta ogni volta in una danza con la morte per sfidarla, esorcizzarla, sospettiamo a volte persino per cercarla, forse sentendo irrazionalmente che quello è l’unico modo per sottrarvisi.
Il suo comportamento, che espone a rischi ancora maggiori del solito la sua squadra, lo rende ad essa inizialmente insopportabile al punto che per un attimo i due compagni sono sfiorati dall’idea di ucciderlo loro per liberarsene. Poi lentamente si instaura un rapporto, non facile, contraddittorio, ma il cui collante è dato proprio dal fatto di sapere che ognuno dei tre ripone la propria vita nelle mani degli altri, che ognuno dei tre ogni giorno vede in faccia la possibilità della propria fine e legge negli occhi degli altri lo stesso pensiero, anche se affrontato in modi tanto diversi.
L’artificiere spavaldo e duro rivela però nel corso del film delle debolezze che lo rendono finalmente umano pur nella condanna ad essere ciò che è diventato perché ormai non è più capace di diventare altro: la guerra è una droga, come leggiamo all’inizio del film, una droga di cui qualcuno finisce per non saper più fare a meno, pur avendo sperimentato ogni orrore, pur avendo infilato le mani nello stomaco di un bambino il cui cadavere è stato trasformato in un ordigno esplosivo. Pur avendo la possibilità di scegliere una vita “normale”, che semplicemente però non è più in grado di indossare con la naturalezza con cui indossa la tuta protettiva andando incontro alla prossima bomba da disinnescare.