Evelyn de Morgan, Love Potion
La sostanza velenosa
sul piano simbolico rappresenta l’eterna presenza del negativo, ma
anche la possibilità che il male si muti in bene. Un affascinante articolo di Raffaele K. Salinari ci conduce in un viaggio dalla preistoria al Rinascimento tra miti e misteri.
Raffaele K. Salinari
La lunga tradizione di
guaritori e avvelenatori
«Nulla è di per sé
veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che fa il
veleno» diceva Paracelso. Nel libro di Castor Durante, medico e
speziale rinascimentale, Il tesoro della sanità, edito nel 1586 in
Roma, l’autore sostiene che, proprio per questo, ogni veleno ha il
suo antidoto, se non specifico, almeno in grado di aiutare il corpo
a contrastarne l’effetto. E, in vero, la storia dei veleni
e dei loro antidoti è antica quanto quella dell’umanità
stessa, affondando nella cosmologia dei tanti mondi possibili che
l’umanità ha immaginato per spiegare il suo esserci.
Veleno deriva dal
latino venènum, messo in connessione, fatto interessante,
con Venus, Venere, dea della bellezza e dell’amore,
poiché indicava in origina non una qualsiasi pozione bensì, in
specifico, il filtro d’amore. Il venènum diviene poi, per
estensione «ogni materia specialmente liquida, capace per la sua
forza penetrante di mutare la proprietà naturale di una cosa». Ecco
allora che i romani aggiungevano di volta in volta
l’aggettivomalum, per designare un prodotto nocivo, distinguendolo
così da quello che poteva servire da rimedio.
Nel Digesto, la
raccolta di decisioni e pareri di giuristi romani fatta redigere
dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo, si legge infatti: «Qui
venenum dicit, adicere debet, utrum malum an bonum: nam et
medicamenta venena sunt, quia eo nomine omne continetur, quod
adhibitum naturam eius, cui adhibitum esset, mutat», ossia: «Chi
dice veleno deve aggiungere cattivo o buono; invero anche
i medicamenti sono veleni, poiché con tal nome si comprende
tutto quello che, applicato, modifica la natura di ciò cui lo si
applica». Da questo spirito definitorio si capisce bene anche
l’etimologia anglosassone di drug che indica sia il
farmaco sia lo stupefacente.
Le prime tracce di
utilizzo del veleno risalgono a oltre 10.000 anni fa. Già nel
Magdaleniano, l’ultima fase del Paleolitico superiore europeo, le
comunità che popolavano il nostro continente usavano il veleno per
cacciare. Nel 1858, il paleontologo Alfred Fontan rinvenne, durante
scavi presso la grotta inferiore di Massat, nell’Ariége (regione
del Midi-Pirenei), fra i resti ossei di grossi mammiferi, alcuni
frammenti di frecce, ricavate dall’osso o dall’avorio degli
animali, sulle cui punte erano presenti delle scanalature,
probabilmente per trattenere su di esse il veleno. Chi scrive ha
vissuto una decina d’anni tra i pigmei Bambute delle foresta
dell’Ituri nella Repubblica Democratica del Congo, ed anche tra
quelle popolazioni di cacciatori raccoglitori l’uso delle frecce
scanalate per cacciare col veleno è ancora in uso.
Ma, al di là
e soprattutto prima dei suoi usi profani, il rapporto tra veleno
ed umanità rileva di significati sacri che affondano nei primordi
delle civiltà. Prima tra tutte è la relazione tra veleno
e creazione, tanto intima quanto metaforica di quella tra Bene
e Male; la sostanza velenosa rappresenta infatti, sul piano
simbolico, l’eterna presenza del negativo in ogni cosa, ma anche la
possibilità, attraverso un contra veleno, che il male trasmuti nel
bene, e viceversa.
Nella civiltà cattolica,
non a caso, è il serpente, animale velenoso per
eccellenza, anzi la cui unica arma efficace è spesso solo
quella della sua produzione mortale, a proporre all’uomo di
accedere alla «conoscenza del bene e del male»: secondo
l’interpretazione giudaico-cristiana un «veleno dell’anima» che
lo porterà alla cacciata dal paradiso e a dover sopportare il
peso del peccato originale.
Da questo anche l’ombra
peccaminosa gettata su Eros che, giustamente dirà Nietzsche, «è
stato avvelenato dal cristianesimo sino a trasformarlo in
lussuria». Ma ogni mitologia delle fondazioni dedica al veleno un
mito complesso, il cui mitologema risiede proprio in questo assunto
dualistico inestricabile e mutevole: la polarità simbolica
veleno contra veleno come costitutiva del tessuto stesso della
realtà.
Gian Giacomo Barbelli, Olimpo
Il mondo Greco
Nelle mitologia greca la
triade che sovrintendeva, non solo alla medicina, ma al molto più
complesso rapporto tra normalità e patologia, era composta di
ben tre divinità. La prima è Ermes-Mercurio, la divinità
dell’annuncio e della sottile ironia, dello «spirito che
rende liberi e sani», ma anche della duplicità e della
trasformazione insite nell’ordine delle cose. Il caduceo di
Mercurio è il simbolo della coniugazione degli opposti, i due
serpenti la cui risalita e avvinghiamento lungo «l’axis
mundi», genera un nuovo equilibrio. Ma il calice della salvezza, nel
quale si abbeverano le serpi, è quello nel quale Asclepio,
figlio di Apollo, dio dell’armonia, preparerà i suoi rimedi.
Questi saranno poi somministrati secondo «scienza e coscienza»
seguendo la saggezza di Atena.
Ma il rimedio,
il pharmakon, non sarebbe possibile senza il veleno del
serpente, in altre parole senza che anche il male partecipi alla
guarigione. Perché ciò che cura può anche uccidere, e viceversa.
L’etimologia di farmaco è infatti riferita sia ad un
principio di cura sia al veleno, forse derivando
dall’egiziano mak che significava la compresenza dei due.
Il serpente dunque, simbolo non della malvagità ma della parte
oscura, nascosta e strisciante che vive in ognuno di noi, non
solo non deve essere demonizzato ma è fondamentale associarlo
invece alla cura.
La coppia Ermes-Apollo da
una parte, ed i due serpenti dall’altra, delineano allora un
dualismo che riflette essenzialmente il rapporto archetipico tra il
normale ed il patologico, che non possono e non devono essere
scissi ma vanno invece ricongiunti. Dice un testo alchemico:
«La cura è nel ricongiungimento tra gli opposti.
Ermes si occupa di mostrarci la strada regia della congiunzione,
Apollo la sua misura, ma sono i serpenti, mobili come il
mercurio, terrestri come gli elementi minerali, umidi a mutevoli
al contatto con il sole e la luna, che ci forniscono la prima
materia». Come nella tragedia greca Dioniso ed Apollo si
complementano, così la diade veleno farmaco va letta nella stessa
chiave.
Il veleno cosmico
Narra il mito indù che
Vishnù mise d’accordo i Deva e gli Asura, dei e demoni
sempre in lotta tra loro per il possesso del Mondo, e li spinse
ad una forzata collaborazione per produrre l’Amrita,
chiamata Soma nei Veda, la bevanda che rende immortali. Il
procedimento consisteva nella zagolatura dell’Oceano di latte, la
mente umana, usando come frullino la montagna cosmica Mandara e come
frusta l’immenso serpente cosmico policefalo Vasuki dalla
cui bocca, all’inizio, schiumò un denso veleno, ilkalakuta, che
rischiava di annientare tutto il Mondo. Solo lo yogi cosmico, il
potente Shiva, poteva berlo ed annientarne così i nefasti
effetti: ecco perché il collo del dio sarà sempre tinto del suo blu
mortale; da qui uno dei suoi nomi Nilakantha (colui che ha
il collo blu).
Levi-Strauss, nel suo Il
crudo ed il cotto, ci riporta invece i miti fondatori delle
popolazioni indios Kachuyana situate nella foresta
amazzonica brasiliana tra il fiume Trombetas ed
il Chacorro, inerenti la creazione del curaro, uno dei
leggendari veleni da caccia. Quelle popolazioni narrano che un
cacciatore, dopo aver ucciso una scimmia, non riusciva a mangiarne
le carni per un senso di rispetto sacrale. Dopo molti giorni,
trovando sempre un pasto caldo al ritorno dalla caccia, espresse il
desiderio di avere una moglie che si comportasse allo stesso modo:
entrato nella capanna vide una splendida fanciulla che gli preparava
da mangiare; la scimmia era sparita. Dopo le nozze il giovane
cacciatore presentò sua moglie alla famiglia. Poi venne il turno
della moglie: era la sua una famiglia di scimmie. Il cacciatore fu
però lascito solo sugli alberi mentre tutte le altre scimmie
scomparivano, inclusa la moglie. Passava di li un avvoltoio al quale
il ragazzo chiese aiuto: questi starnutì e dai filamenti di
muco si formò una liana. Ma era troppo sottile perché il giovane
potesse scendere. Allora l’avvoltoio chiamò l’aquila-arpia che
produsse nello stesso modo una liana molto più grossa. Una volta
sceso dall’albero al cacciatore l’aquila-arpia insegnò anche
come cuocere la liana e ricavarne il curaro col quale egli
uccise tutte le scimmie meno una piccolina, dalla quelle vengono
tutte quelle attuali.
Anche qui è da
notare una relazione tra la nascita del veleno e la donna,
mitologema comune a quasi tutte le culture arcaiche, in cui il
potere creatore e distruttore del femminile è molto
presente.
Levi-Strauss commenta il
mito così: «Si direbbe che, per giungere al veleno, i miti
debbono tutti passare per una specie di varco, la cui angustia
avvicina singolarmente la natura alla cultura, l’animalità
e l’umanità», facendo notare che ancora oggi, nelle
preparazione del veleno ci si deve astenere da qualsiasi contatto con
le donne ma che, soprattutto, le popolazioni indios ritengono che
l’aquila-arpia sia l’incarnazione dell’aldilà, del mondo dei
morti che ha prodotto quello dei vivi ed ancora veglia su di loro.
E dunque il veleno è un dono, il segno di una alleanza,
non solo tra generazioni, ma anche tra mondo animale e mondo
umano.
Queste
le riflessioni finali di Levi-Strauss sul significato simbolico del
veleno, ove il termine simbolico, cioè sin-ballo riunire, diventa
etimologicamente coerente con la tesi dell’autore di Tristi
Tropici: «La natura e la cultura, l’animalità e l’umanità
divengono reciprocamente permeabili. Si passa liberamente e senza
ostacoli da una sfera all’altra… queste due sfere si mescolano
a tal punto che ogni termine dell’una evoca immediatamente un
termine correlativo nell’altra, in quanto essi sono in grado di
significarsi reciprocamente… Esso (il veleno) è infatti una
sostanza naturale che viene ad inserirsi come tale in un’attività
culturale… Il veleno è incomparabilmente più potente
dell’uomo e dei mezzi ordinari di cui questi dispone,
amplifica il suo gesto ed anticipa i suoi effetti, agisce più
rapidamente e con maggiore efficacia».
E dunque attraverso
l’uso del veleno e dei suoi ascendenti mitologici, la natura
penetra momentaneamente nella cultura; conclude Levi-Strauss che:
«Per alcuni istanti si svolgerebbe un’operazione congiunta, nella
quale le rispettive parti diverrebbero indiscernibili… Se abbiamo
correttamente interpretato la filosofia indigena, l’uso del veleno
apparirà come un atto culturale generato direttamente da una
proprietà naturale… punto di isormofismo tra natura e cultura,
risultante dalla loro compenetrazione».
Carlo I il Cattivo
Il veneficio come arma
politica
Una legge romana,
risalente all’imperatore Antonino Pio, enuncia chiaramente: «Plus
est hominem extinguere veneno, quam occidere gladio», cioè «È più
grave uccidere un uomo con il veleno che con la spada».
Il venefico è da
sempre il mezzo più diffuso per togliere discretamente di mezzo
i propri nemici. La capacità di un veleno di uccidere in modo
invisibile, e a distanza di tempo dalla sua assunzione, ne ha
sempre fatto uno strumento perfetto per omicidi e vendette
politiche in cui il colpevole voleva restare anonimo, o avere il
tempo di allontanarsi dalla scena del delitto. Anche il suicidio
politico con il veleno annovera casi famosi, si pensi a Socrate
ed alla sua cicuta o a Cleopatra ed al suo aspide.
Probabili venefici furono
ancora quello dell’imperatore Claudio avvelenato dalla moglie
Agrippina con un piatto di funghi e una piuma intrisa di una
pozione letale, come anche la morte di Britannico per mano di Nerone.
Arrivando al Medioevo, troviamo il famoso avvelenatore Carlo detto il
Cattivo, re di Navarra e conte d’Èvreux, che regnò dal 1349
al 1387, anno della sua morte. È addirittura con la
benedizione del Papa che Machiavelli, testimone delle congiure ordite
dai Borgia, con la tristemente nota acqua Tofana, parla del
veneficio come arma politica.
Bartolomeo Veneto, Ritratto di Lucrezia Borgia
L’acqua Tofana
L’acqua
Tofana (o Toffana), era composta da una soluzione di
anidride arseniosa addizionata con un alcoolato di cantaridina,
estratta dalle ali della cantaride, la famosa «mosca spagnola»,
nota già dai tempi di Plinio ed usata anche come afrodisiaco. Le
cronache contemporanee narrano ancora di giovani sprovveduti deceduti
per via della cantaridina usata in questo modo. Il filtro mortale ha
preso il nome da colei che sembra averlo creato: Giulia Tofana, una
cortigiana di Filippo IV di Spagna. La sua storia ci dice che nei
primi del Seicento a Palermo, una relazione con un farmacista le
permise di aver accesso ai veleni più comuni, e di
impratichirsi al loro uso. Pare un vezzo di famiglia, in quanto
Giulia era forse la figlia di una certa Thofania d’Adamo,
giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633, così ci riportano le
cronache, per aver fatto morire «cum veneno propinato» suo marito
Francesco e per aver venduto una sostanza velenosa che aveva
causato altri decessi.
Ma forse la più nota
avvelenatrice politica fu Lucrezia Borgia che mise a punto la
cosiddetta «camicia italiana». Si prendeva un indumento che doveva
stare a stretto contatto con la pelle (una camicia, o una
maglia appunto) e lo si strofinava delicatamente con sapone
all’arsenico. Se consideriamo che a quei tempi l’igiene
faceva difetto, e che dunque un indumento era indossata anche
per moltissimo tempo, la vittima lentamente ma fatalmente moriva.
Forse una tecnica utilizzata anche dagli inglesi per uccidere
Napoleone. In tempi più recenti il veleno è stato usato in
casi come quello di Aleksandr Litvinenko, ex agente del KGB morto Il
23 novembre 2006 a causa di un avvelenamento da
radiazione da polonio-210, e probabilmente anche per
uccidere Yasser Arafat.
Vaso da farmacia per teriaca
La Teriaca
Il numero dei veleni
è pressoché infinito: ve ne sono di provenienza dal vasto
regno animale, si pensi ai serpenti, ai ragni, alle scolopendre, alle
meduse, alle tracine, e di origine vegetale, curaro e cicuta,
o minerale, arsenico e via enumerando. Non possono mancare,
ovviamente, in questo sommarissimo elenco categoriale, quelli di
sintesi: dall’iprite al Zyklon B, per non parlare dei più
tristemente noti, sino alla diossina che inonda i polmoni di
tanti cittadini residenti nelle vicinanza di noti impianti
siderurgici. Ma, per limitarsi a quelli naturali, il sogno della
farmacologia è sempre stato quello di trovare un antidoto
universale che li sconfiggesse tutti.
A questo proposito, in un
piccolo bloc-notes risalente agli anni ’30-’40 del secolo scorso
di Giovanni Recordati, fondatore della nota casa farmaceutica,
troviamo un ricettario galenico nel quale era riportata la
composizione dell’«Acqua Teriacale». Il termine, secondo quanto
scrive G. Olmi nel suo articolo Il Farmaco principe: la Teriaca,
era già in uso negli ambienti medici di Alessandria d’Egitto nel
IV-III secolo a.C.. Il suo nome viene fatto derivare dal femminile
di theriacòs, cioè «buono contro le morsicature degli
animali», a sua volta derivato da therìon, animale
velenoso.
Nel tempo la composizione
della Teriaca è molto mutata: Nicomede II di Bitinia, ad
esempio, studiava e ricombinava diversi antidoti, mentre Attalo
III Philometore, re di Pergamo nel I secolo a.C., mescolava
piante velenoso con altre non pericolose ed elaborava i suoi
antidoti. Fu per suo ordine che il celebre farmacologo Nicandro di
Colofone (ca. 150 a.C.) scrisse i due
trattati: Theriaka e Alexipharmaka, il primo sugli
avvelenamenti da animali ed il secondo su quelli da vegetali. La
storia della Teriaca vera e propria inizia però con un altro
antidoto famoso: quello sviluppato da Mitridate VII (o forse VI)
Eupatore, re del Ponto (132–63 a.C.), il più celebre tra i sovrani
esperti di tossicologia.
Plinio il Vecchio, nella
sua Storia Naturale (Vol IV, Libro XXIX, cap. 24:285),
scrive che: «IlMithridatiumum antidoton era formato da 54
ingredienti». Secondo Pazzini nel suo Storia dell’Arte
Sanitaria dalle origini a oggi, il sovrano aveva
studiato, assieme al suo medico Crateua, tutti i possibili casi
di avvelenamento e di ognuno lo specifico rimedio; mettendo
assieme tutti gli antidoti si poteva così contrastare ogni possibile
veneficio. Plinio poi ci dice anche: «Uni ei excogitatum cotidie
venenum bibere praesumptis remediis, ut consuetudine ipsa innoxium
fieret». Da questa consuetudine di ingerire quotidianamente il
veleno nasce il fenomeno del «mitridatismo» quello, cioè, del
principio di assuefazione progressiva ai tossici naturali.
Nel 63 a.C., dopo
ripetute guerre con Roma, Mitridate fu definitivamente sconfitto da
Pompeo e si fece uccidere da un servo con la spada non essendo
riuscito a morire di veleno. Dopo la vittoria, Gneo Pompeo portò
con sé a Roma il Mithridatium, la ricca biblioteca di
ricette tossicologiche del sovrano sconfitto. Circa un secolo più
tardi, Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, rielaborò la formula
teriacale di Mitridate, aggiungendovi soprattutto la carne di vipera.
Il concetto base era sempre quello dell’assuefazione: il veleno
è antidoto a se stesso cioè, come dicono gli
omeopati, similia similibus curantur. E così, con
l’aggiunta della carne di vipera, che produce un veleno di tipo
emotossico, a differenza di quello degli elapidi, come ad
esempio il Cobra, che producono invece una tossina neurotossica, la
Triaca di Andromaco divenne l’antiveleno per antonomasia.
Galeno ci scrisse due
piccole opere e ricordò anche il modo per fare i trocisci
(i precursori delle nostre pastiglie) con la carne di vipera, i quali
servivano poi per confezionare la Teriaca. Federico De Romanis nel
suo studio Cassia, Cinnamono, Ossidiana, nel capitolo dedicato
a medicina e società nella Roma imperiale, ci dice come
fosse nota: «La costanza con cui l’ipocondriaco Marco Aurelio era
solito premunirsi da avvelenamenti con la quotidiana ingestione di
antidoti, soprattutto quelli potentissimi e costosissimi, come
la Mithridàteios e la Theriakè».
Durante il medioevo la
Teriaca godette di alta considerazione nella medicina araba: Giovanni
Mesue Damasceno descrive anche la Theriaca diatessaron cioè
«composta di quattro cose», mentre Avicenna la richiama nel
suo Liber Canonis precisandone l’efficacia in base
all’età della sua composizione; età che paragona a quelle
dell’uomo. Moses Maimonides, un gigante
della medicina, nel 1198 nel suo celeberrimo Treatise on Poisons
and Their Antidotes, riprende il tema scrivendo che: «Universal
antidotes consist of the great theriac, the electuary of Mithridates,
and the small theriac (composed of only four ingredients)».
Dopo l’Alto Medioevo la
medicina esce da quegli stessi monasteri che avevano trascritto, in
mezzo alla barbarie ed all’ignoranza volgare, anche della Chiesa,
i testi della civiltà greco-latina, e nascono le prime
scuole laiche. Nel X secolo era celebre quella di Salerno.
Il Flos Medicinae Scholae Salerni raccomandava: «La
Teriaca è efficace per l’apoplessia …la pleurite …la
fredda idropisia …il morto feto …l’epilessia…».
Le crociate
Le crociate da un lato ed
i commerci con l’Oriente di Veneziani e Genovesi
dall’altro portarono in Europa nuove spezie e nuovi veleni.
E dunque anche la Teriaca dovette adattarsi a queste nuove
configurazioni geopolitiche. Già nell’ambito strettamente
mediterraneo esisteva da tempo un contravveleno per i morsi di
tarantole, scorpioni, serpenti e scolopendre: la terra sigillata
di Malta, prodotta dall’Ordine Cavalleresco con specifiche
sigillature, dalla grotta nella quale si diceva avesse dimorato
S Paolo. Il Santo, infatti, nel suo viaggio a Roma verso il
60 d.C., aveva fatto naufragio nell’isola e si era riparato in
una grotta nella quale, però, era stato assalito da serpenti
velenosi. Il Santo li aveva scacciati senza alcun danno e da
allora il terreno della grotta aveva rappresentato un antiveleno
riconosciuto e, per questo, amministrato dall’Ordine.
Ma la Teriaca,
sponsorizzata dai nuovi padroni delle rotte delle spezie, aveva la
fama di poter contrastare ogni tipo di veleno, e dunque divenne
un farmaco di dominio pubblico ma, proprio per questo, sottoposto
a regole ben precise. Il primo a prepararla al cospetto dei
cittadini fu il farmacista Moisis Charas, prima ad Orange poi
a Parigi. La Serenissima ne fece invece, per diverso tempo, un
vero e proprio monopolio e la sua preparazione avveniva con
una cerimonia ufficiale e pubblica. La composizione era
autenticata da un apposito documento, ancora consultabile presso la
Biblioteca Marciana, il Codice Farmaceutico per lo Stato della
Serenissima Repubblica di Venezia. A Bologna il confezionamento,
sempre garantito dal Collegio dei Medici e degli Speziali,
avveniva nel cortile dell’Archiginnasio.
Prospero Alpino, medico
al seguito del patrizio veneto Giorgio Emo, inviato dalla Repubblica
veneta console al Cairo, parti da Venezia il 21 settembre 1580 per
approdare ad Alessandria non prima del 22 marzo 1581, dove fu
trattenuto a lungo, causa la peste; giunse al Cairo appena il
7 luglio. In Egitto restò poco più di tre anni e nel
novembre 1584 era di nuovo a Venezia. In seguito divenne
«lettore dei semplici» all’università di Padova nel 1594.
Nel suo De medicina
aegyptiorum del 1591 (Libro IV, cap. VIII), ci dice che al Cairo
tutti potevano preparare privatamente i medicamenti più comuni,
dunque presumibilmente l’ascish e l’oppio, ma nessuno la
Teriaca che si confezionava invece solo nel tempio detto Morestan.
Nel capitolo successivo Alpino elenca dettagliatamente le dosi dei
ben cinquanta elementi delle Teriaca di Andromaco presenti in loco.
Alessandro Bonvicino, Ritratto di Andrea Mattioli
Il tramonto della Teriaca
Come tutti i prodotti
commerciali di successo, anche la Teriaca suscitava critiche ed
invidie: Bernardo il Provenzale già nel 1150 dichiarava scadente
quella della scuola medica di Salerno dove, non disponendo dell’orobo
lo sostituivano con la lobelia; i Veneziani gettavano dal ponte
di Rialto quelle a loro dire false; a Bologna Ulisse
Aldrovandi, grande naturalista, avendovi introdotto il Costus
Arabicus e l’amomo, si trovò contro il Collegio dei
Medici e degli Speziali. Da una parte quindi l’aggiunta di
componenti esotici e costosi, dall’altra le difficoltà di
approvvigionamento anche di una parte di quelli originari per il
mutare delle colture, finivano per renderne difficile la produzione
esatta e corretta.
Ne parla Pietro Andrea
Mattioli, medico senese di chiara fama, chiamato da Ferdinando I a
Praga come medico personale del suo secondogenito nel 1555, anche se
già l’anno successivo fu costretto a seguirlo in Ungheria
nella guerra contro i Turchi. Nei suoi Discorsi sopra i sei
libri di Pedacio Dioscoride si era reso conto delle conseguenze
di tale situazione. Nella dedica a Caterina Regina di Polonia,
dopo gli elogi della Teriaca «molto più valorosa in ogni sua
operatione d’ogni altro qual si voglia antidoto» faceva notare,
per gli ingredienti, che certe «così rare cose», già all’epoca
di Galeno venivano dai confini dell’impero, ma che ai suoi tempi
ciò era impossibile. Per questo così concludeva: «Il che n’avisa
che non ci dobbiamo meravigliare, se le nostre theriache, &
Mitridati non si possano compiutamente preparare, & non
corrispondano con la virtù à gli effetti, che ne promettono
i nomi loro…».
Anche per la Teriaca,
esattamente come per le false pasticche di terra maltese sigillata,
fiorivano usanze assai discutibili, come quella di confezionare le
«tazze teriacali» gettando nel metallo in fusione, col quale poi si
dovevano fondere le tazze, una certa quantità di Teriaca per
trasfondere in esse il principio antiveleno. Una tazza di terra
maltese sigillata è ancora visibile nel Museo di Palazzo Poggi
a Bologna, mentre non restano tracce conosciute delle tazze
teriacali. Nel volume Avvertimenti al popolo sulla sua
salute del dottor Tissot, edito a Venezia nel 1716, si cita
ancora l’acqua teriacale canforata.
Nel corso del secolo XIX
la carne di vipera scompare definitivamente, ma la Teriaca era ancora
usata nell’800. Ad esempio negli Annali Civili del regno delle
Due Sicilie, del 1837, Volume XIII pag. 76, si cita ancora il rimedio
come : «Acconcio a frenare la diarrea con piccole dosi di
ipercacuana» mentre lo Zambeletti nel suo Manuale
Teorico-Pratico (1869) riportava la ricetta dell’acqua
teriacale, con l’indicazione: «Comunemente si crede che
quest’acqua riesce efficacissima ad uccidere i vermi
intestinali»
Ma il secolo breve
cancella, anche se non del tutto la Teriaca, come infine ci dicono
nel loro completissimo studio del 2004, Signorelli, Tolomelli
e Rota: «Non suona dunque come un’eccentricità che anche un
vecchio taccuino della Farmacia Recordati riportasse la formula
dell’Acqua teriacale. Cancellare un termine con oltre duemila anni
di storia non era certamente facile». Eppure, molte erboristerie
contemporanee la producono ancora, segno che il vecchio mito del
farmaco universale, della Panacea, non morirà mai.
Il manifesto/Alias – 7
novembre 2015