Giannino Balbis
Il romanzo “La
Cauzagna” di Rosilde Chiarlone
La notorietà – molto
limitata – dell’opera oggetto di questo intervento è
inversamente proporzionale all’importanza che essa ha per il
proprio contesto storico-culturale. L’opera in questione è il
romanzo La cauzagna di Rosilde Chiarlone; il contesto è quello della
Val Bormida o, per maggior precisione, dell’ “alta” Val Bormida
ovvero della Val Bormida “ligure”. La cauzagna è certamente il
testo letterario più significativo del Novecento valbormidese, per
intrinseco valore artistico ma innanzi tutto per capacità di
interpretazione e di rappresentazione nei riguardi della storia
valbormidese al suo livello più profondo.
Il romanzo esce nel 1975
per l’editore Sabatelli di Savona , opera prima (ed anche unica) di
una allora cinquantacinquenne docente della Scuola media di Cairo
Montenotte, originaria di una frazione di Piana Crixia – Cobarello
– che è anche il luogo d’ambientazione del racconto (con un nome
leggermente mutato: Cimarello); a Cairo la Chiarlone si distingue,
oltre che per l’insegnamento, anche per l’impegno sociale e
politico (fra l’altro, è consigliere al comune di Cairo dal 1970
al 1980, con delega alla Pubblica Istruzione e alla Cultura).
Il titolo del romanzo è
singolare e di forte impatto simbolico. Cauzagna è una variante
semi-dialettale di “capezzagna, cavedagna”; nel vocabolario
contadino indica il “solco di fondo”, quello in capo al campo,
perpendicolare agli altri solchi, un po’ solco e un po’
passaggio: perciò capace di rappresentare in metafora, proprio per
la sua perpendicolarità e la sua precarietà, la condizione e il
destino del mondo contadino.
La cauzagna, insomma, è
il solco della “malora”; nel caso in questione, della malora
valbormidese, che è nella sostanza identica a quella di ogni altro
contesto contadino, ma con un percorso storico suo proprio, con
accentuazioni e accelerazioni, dilemmi, contraddizioni e drammi suoi
propri, con significati ed esiti (sul piano sociale, politico,
economico ed anche ideologico e culturale) che, al tempo della
redazione de La cauzagna, sono ancora tutti da valutare e capire: il
che è esattamente uno degli obiettivi di fondo, se non l’obiettivo
primario, del romanzo della Chiarlone.
Già il titolo, dunque,
rivela le radici e le finalità prime del romanzo, entrambe
riconducibili a quella che si potrebbe chiamare la “questione Val
Bormida”, che attraversa l’intero corso della storia valbormidese
(dall’età pre-romana all’oggi) e conosce una fase di particolare
intensità proprio negli anni ’70 del ’900, momento di massima
industrializzazione della Val Bormida ed anche delle prime avvisaglie
della contestazione, della crisi, dell’inizio del declino.
Ma, come dicevo, la
“questione Val Bormida” è vecchia di secoli, perché da secoli –
si può dire da sempre – la Val Bormida è in cerca di una identità
storica e culturale, che continuamente sembra sfuggirle o presentarsi
sotto forme mutevoli, incerte, multipolari. Il destino di
incompiutezza, di identità difficile della regione valbormidese è
quello tipico di tutte le aree di frontiera, con l’aggiunta di
alcuni caratteri di problematicità tipicamente liguri.
C’è un pezzo di
Liguria, infatti, – la fascia della Liguria dell’oltregiogo (di
cui è parte la Val Bormida, come lo sono le terre che ospitano
questo convegno) – che si pone storicamente come Liguria “altra”
rispetto alla marittima. È una fascia lungo la quale ha lasciato
segni molto evidenti la contrapposizione fra i due fondamentali
modelli storici di Liguria: quello di una Liguria “in verticale”,
raccordata con l’entroterra padano (è il modello presente nella
Liguria dioclezianea, con capitale Milano, o in quella delle tre
marche di Berengario), e quello di una Liguria “in orizzontale”,
più chiaramente proiettata sul mare (è il modello della Liguria
bizantina, opposta all’oltregiogo longobardo, o della Liguria
“genovese” medievale). Insomma: Liguria verticale vs Liguria
orizzontale.
Il secondo modello – la
“Liguria orizzontale” – è quello apparentemente vincente nella
Liguria moderna, quello più facilmente leggibile nella Liguria di
oggi. In realtà, i due modelli sono ancora entrambi operanti. E la
dialettica che fra di essi si è determinata nei secoli è tuttora
particolarmente avvertibile proprio nella suddetta fascia della
Liguria d’oltregiogo: che da un lato guarda a sud, in direzione
mare, e dall’altro guarda a nord, in direzione padana; è attratta
dal contesto ligure-rivierasco, cui per altro appartiene sotto il
profilo politico-amministrativo, ma è attratta anche dal contesto
appenninico-padano, di cui è parte invece dal punto di vista
geografico. In definitiva, è una fascia a doppia identità,
combattuta fra due diverse opzioni di Liguria, ugualmente forti,
ugualmente importanti.
I riscontri di questo
bifrontismo ligure di lontane origini ed operante su vari piani
interconnessi (storico-politico, geografico, socio-economico,
culturale) sono numerosissimi. Per quanto riguarda in particolare il
caso valbormidese, non c’è che l’imbarazzo della scelta. A
livello storico-politico, ad esempio, dalle antiche opposizioni fra
Celti e Liguri, fra Liguri e Romani, fra municipio di Alba e municipi
di Albenga e/o Vado, si passa a quelle fra Longobardi e Bizantini,
fra Del Carretto del Finale e Del Carretto di Millesimo, fra Genova e
Stato Sabaudo, fino a quelle attuali fra Piemonte e Liguria, ovvero
fra province di Cuneo/Alessandria e provincia di Savona, fra diocesi
di Mondovì/Acqui e diocesi di Albenga/Savona: tutta la storia
valbormidese è solcata dalla presenza di confini che ne spezzano
sempre ogni potenziale progetto di unitaria identità. Sotto il
profilo geografico, poi, è impossibile separare in maniera netta l’
“alta” dalla “bassa” Val Bormida, la Val Bormida dalla Langa,
la Val Bormida dal Monferrato: i confini fra queste realtà non sono
mai precisi ma sempre sfumati ed elastici.
Ed è perfino improbabile
la definizione di Val Bormida al singolare, di fronte alla presenza,
in realtà, di più Bormide e di più valli delle Bormide. Ma è
sotto il profilo culturale, soprattutto, che la Val Bormida, stretta
fra Langhe, Monferrato e Riviera di Ponente, sembra priva di una
fisionomia univoca e piuttosto aperta alla dinamica sintesi di
influssi di varia provenienza; sicché la sua specificità culturale
sembra consistere in una vocazione a farsi alveo di confluenza di
identità culturali esterne, che in Val Bormida – sfumando –
vengono a incontrarsi e intrecciarsi. Sotto il profilo
socio-economico, infine, l’antico bipolarismo fra civiltà della
terra e civiltà dell’emigrazione si è trasformato, nel Novecento,
nel bipolarismo fra mondo contadino e mondo dell’industria.
Ecco allora che la fine
della cultura contadina è nient’altro che l’ultimo capitolo di
una ininterrotta saga della ricerca dell’identità, che è l’intero
senso della vicenda storica passata e presente della Val Bormida. La
scomparsa del mondo contadino è, naturalmente, un evento non
soltanto valbormidese; ma in Val Bormida esso ha un peso e un impatto
più evidenti e immediati che altrove.
La malora è stata
ovunque malora, ma quella valbormidese ha conosciuto un radicamento
forse maggiore e punte di arcaicità più forti rispetto ad altri
contesti (ad esempio quello langarolo, tanto per fare il paragone più
scontato, ma anche più vicino e significativo); e poi ha conosciuto
un crollo più rapido e traumatico, più violento (più “provocato”),
più chiaramente irreversibile, a causa di una politica di
industrializzazione (a tutti ben nota), che, dopo la riconversione
nel primo dopoguerra delle fabbriche belliche di Cengio e Ferrania,
sorte tra fine Ottocento e inizio Novecento, è andata in costante
crescendo, soprattutto dagli anni ’30 al boom degli anni ’60, e,
a parte Cengio, ha puntato massicciamente proprio sull’area
cairese. Dalla fine degli anni ’60 e dai primi anni ’70 – il
romanzo della Chiarlone, ribadisco, è del 1975 (non a caso) –
comincia poi una lunga fase, di stasi prima e di declino poi, che,
fra contestazioni, dismissioni e riconversioni varie, può
considerarsi tuttora in atto.
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