È ancora possibile
trovare un equilibrio tra le generazioni in un mondo che ha messo al
bando la vecchiaia? Marco Aime e Luca Borzani provano a rispondere
con un bel libro che verrà presentato alle 17.30 di oggi, 27
settembre, nei locali della Camera di Commercio di Genova, in via
Garibaldi 4.
Marco Aime
Invecchiano solo gli
altri
Avrà pur avuto ragione
Sant’Agostino a dire di non saper spiegare cosa sia il tempo,
concetto quanto mai sfuggente, che sembra materializzarsi solo
quando, noi umani, tentiamo di dargli una struttura per nostro uso e
consumo. Ma al di là delle speculazioni filosofiche, il modo più
evidente in cui noi percepiamo il tempo sono le trasformazioni del
nostro corpo e della nostra mente. Un processo biologico diverso per
ogni individuo, con scarti più o meno ampi, ma inesorabile e
irreversibile. “I capelli bianchi dicono: siamo venuti per
restare’” recita un proverbio africano: nonostante le
innumerevoli pratiche estetiche, psicologiche e lessicali messe in
atto da molti nostri contemporanei per celare questo processo,
l’invecchiare rimane un dato di fatto ineludibile.
L’età, e il tempo,
sono concetti culturali utili a dare forma e struttura al processo di
crescita, sviluppo e invecchiamento. Entrambi iniziano a esistere nel
momento in cui cerchiamo di calcolarli e strutturarli, e qualunque
sia il metodo che utilizziamo si tratta di fatti che attengono alla
cultura. La vita degli individui viene scandita in modo diverso a
seconda della società in cui essi vivono. Lo sviluppo e
l’invecchiamento biologico che il nostro corpo, come ogni altro
organismo vivente, subisce, è percepito e accompagnato, nelle
culture umane, da differenti processi di interpretazione. Tali
modelli riflettono le modalità di rappresentazione di ogni cultura e
definiscono i diversi sistemi di classificazione dell’età.
Se lo sviluppo biologico
segue un percorso lineare, cumulativo, costante e continuo, perché
la natura non fa salti, quello sociale viene invece frazionato in
fasi culturalmente determinate, che mettono in evidenza le
raffigurazioni che la società ha dei propri componenti. I vari
sistemi inventati per scandire la vita umana, non sono solamente
codici comuni finalizzati a definire più o meno approssimativamente
l’età di un individuo, ma sono anche modelli di attribuzione di
ruoli sociali, così che l’invecchiamento fisico si intreccia, in
modo più o meno evidente, con la posizione che la società ci
assegna.
La riflessione degli
autori parte dal fervore del dopoguerra, dalla ricostruzione e dal
crescente benessere che inducevano all’ottimismo di cui il
baby-boom fu uno dei volti più rilevanti. Saranno quei bambini nati
tra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta che,
una volta cresciuti, forti dei numeri, della nuova condizione di
benessere e di un copioso flusso di idee, faranno irruzione nella
società per la prima volta come “generazione” e daranno vita,
sul finire degli anni Sessanta, a un movimento destinato a lasciare
tracce negli anni a venire.
Poi tutto è successo
rapidamente, in poco più di mezzo secolo, così rapidamente che i
mutamenti non si sono sedimentati nel sentire collettivo e non hanno
prodotto rappresentazioni sociali adeguate. Eppure, ed è evidente a
tutti, non ci sono più gli anziani di una volta. Sono tanti e
saranno sempre di più. Godono in larga maggioranza di buona salute e
di possibilità economiche. Per la prima volta nella storia non
rivolgono solo lo sguardo al passato ma si misurano con un futuro
ancora lungo. Siamo, anche se lo rimuoviamo, nella società
dell’invecchiamento progressivo della popolazione. Gli effetti a
vedere le previsioni saranno, nel giro di pochi decenni,
catastrofici. Ma, appunto, facciamo finta di non vedere. La
generazione che si è riconosciuta come giovane, che ha riempito le
piazze e occupato scuole e università in nome della rottura con la
società dei padri fa ora i conti con la propria vecchiaia.
E lo fa nascondendola,
non guardandola, cercando di occupare comunque la scena.
Indipendentemente o meno dall’essere ormai arrivata alla pensione.
Perché sono i consumi che oggi dividono tra attivi e non attivi, tra
chi è vitale e chi è escluso. La grande paura è quella della non
autosufficienza, del decadimento fisico e mentale. Solo quelli sono i
vecchi. E, come è noto, invecchiano solo gli altri. Anche i giovani
non sono più quelli di una volta. Sempre meno numerosi,
discriminati, costretti a una lunga post adolescenza, a un presente
che svuota passato e futuro. Il conflitto generazionale non è più
politico e culturale ma innanzitutto economico e sociale. Siamo
diventati un Paese di vecchi che non si riconoscono tali e di giovani
che sembrano socialmente spariti, senza voce collettiva.
Questo libro segue il
filo di una generazione quella del “’68”, a cui per ragioni
anagrafiche gli autori non appartengono, ma della quale sono stati in
qualche misura, almeno culturalmente, parte. Con la convinzione che
lo spazio per i “nuovi anziani” non sia quello del rincorrere la
giovinezza perduta o i consumi, ma quello di un’età tutta da
vivere e da riempire con l’ investimento sociale. È la nuova e
ultima scommessa possibile di una generazione che credeva di aver
rotto con i padri e ha invece rotto con i figli.
E lo ha fatto con
spensierato egoismo, senza responsabilità, tarpando le ali a chi
veniva dopo; certa che quel futuro di cui si sentiva in possesso in
gioventù non dovesse comunque scappargli di mano. Minando la
speranza e il cambiamento possibile in nome, come avrebbe detto
Walter Benjamin, della “monetina dell’attualità”. Eppure
questa generazione che ha vissuto i più profondi e accelerati
cambiamenti della modernità potrebbe ritrovare le risorse morali e
intellettuali per reinventare la condizione anziana, sperimentare una
nuova funzione sociale di apertura e non di chiusura verso le
generazioni successive.
Insomma, provare a dare
vita a una sorta di nuovo patto intergenerazionale, a lasciare
“spazio” senza doversi negare una dimensione piena dell’
esistenza. Ma al di là di queste modeste utopie, la questione di
fondo, l’invecchiamento progressivo della popolazione, resta. E
stando ai numeri non può non spaventare. Il futuro rischia di avere
i tratti arcigni di una dilagante senescenza. Stiamo rischiando tutti
grosso. Forse troppo per non provare nemmeno a interrogarsi.