Abbiamo
aspettato per parlare del crollo del ponte che si placasse l'ondata
emotiva e massmediatica. Iniziamo a parlarne oggi con questo
intervento di Giuliano Galletta, artista, critico d'arte, storico, ma
soprattutto attento e libero osservatore delle trasformazioni in
atto. Leggendolo abbiamo pensato che pari pari il discorso valga
anche per la Piattaforma Maersk, la discussa struttura in via di
costruzione che modificherà in modo irreversibile gli assetti della
rada e del territorio di Vado. Ci auguriamo di sbagliare, ma non ci
pare di notare negli amministratori vadesi più lungimiranza di
quelli di Genova.
Giuliano
Galletta
Il ponte e il
porto
Molti commentatori hanno
osservato che il crollo di Ponte Morandi potrebbe diventare
l'occasione per ripensare il futuro di Genova. Ma era necessario
sacrificare 43 vite per ripensare il futuro della nostra città? Non
credo. In realtà la catastrofe del 14 agosto ha evidenziato in modo
tragico proprio l'assenza di tale progettualità. Ipotizziamo, ad
esempio, che la società autostrade fosse intervenuta in tempo
chiudendo il ponte per restaurarlo o ricostruirlo; i problemi a cui
ci saremmo trovati di fronte sarebbero stati esattamente gli stessi
di oggi. Nessuno ha mai pensato a un piano B, che prevedesse
un'eventualità del genere. Non dico il crollo, ma la semplice
chiusura, un'eventualità che veniva considerata probabile se non
inevitabile. Tutti sapevano benissimo che una “metropoli” come
Genova, il porto più importante d'Italia, era in balia di quel
chilometro di calcestruzzo.
Dov'era la classe
dirigente, dov'erano i governi, i ministri e i parlamentari ligur, le
amministrazioni locali, le organizzazioni imprenditoriali, i
sindacati? Per guardare al futuro bisogna sempre analizzare con molta
attenzione il passato, altrimenti con l'alibi dell'emergenza, si
rischia di perseverare negli stessi errori.
Non sto parlando qui di
responsabilità penali o morali, che tutti ci auguriamo vengano
chiarite al più presto, ma di responsabilità politiche,
dell'assenza di un'idea di città che vada oltre la routine, della
sudditanza a interessi particolari, quasi sempre miopi se non
irresponsabili. In questo senso la questione cruciale resta
(dis)connessione fra porto e città.
Al netto delle inadempienze di manutenzione e di controllo, fra le ragioni dell'usura del ponte c’è, nessuno lo mette in dubbio, l'aumento incontrollato dei tir, carichi o scarichi, e dei container, pieni o vuoti, un peso quasi insostenibile sulle spalle, non solo del Ponte Morandi, ma dell’intera città, degli abitanti, dei lavoratori, trasportatori e portuali, che troppo spesso sull'altare di quegli affari hanno perso la vita.
In questi giorni si è
molto parlato di concessioni, a proposito di società autostrade, ma
nessuno, mi pare, ha segnalato che anche le banchine del porto sono
un bene pubblico dato in gestione ai privati. Sono questi privati a
controllare i movimenti delle merci e dovrebbe essere lo Stato, in
questo caso l'Autorità portuale, a garantire che il business non
sovrasti l'interesse pubblico, non divori la città.
Se non si scioglie questa
contraddizione, ma prima è necessario prenderne atto e non
occultarla, è difficile pensare a un qualsiasi futuro. il porto è
una fonte di ricchezza fondamentale per Genova, come ci viene spesso
ripetuto, ma bisognerà finalmente capire e far capire a questa
città, aldilà degli slogan e delle dichiarazioni di intenti, di che
tipo di ricchezza stiamo parlando e del vero rapporto costi/benefici.
Gli esperti di logistica
ci hanno, infatti, da tempo e in modo chiaro, spiegato come negli
ultimi vent’anni a Genova, con il passaggio dal porto-emporio al
porto industriale, siano aumentati produttività e profitti, ma non
si sia incrementata allo stesso modo la ricchezza per la città e
l’occupazione. Sono invece cresciuti in modo esponenziale le
“servitù”: traffico pesante, incidenti sul lavoro e stradali,
inquinamento.
Nella tragedia del ponte
si contano 43 vittime, la cui unica colpa e stata quella di fidarsi
di Genova; ritengo che la citta abbia il dovere di domandarsi perché
e in che modo ha tradito questa fiducia. Fare finta di nulla o
scaricare su altri le proprie responsabilità sarebbe una storico
errore. Senza verità e consapevolezza collettiva i giusti appelli
all’unità di azione non hanno significato.
Il Secolo XIX –
9 settembre 2018