Passare un fiume
rappresenta sempre un'avventura alla ricerca di un altrove.
Giorgio Amico
Il traghettatore
Da bambino abitavo in un
piccolo paese di campagna situato lungo la riva di un fiume. Non un
grande fiume, quasi un torrente, ma che diventava grande e impetuoso
negli ultimi chilometri del suo corso, quasi al momento di buttarsi
in mare. Non c'erano ponti allora. Il primo fu costruito solo agli
inizi degli anni Sessanta. Ho ancora da qualche parte una foto
dell'inaugurazione che ritrae anche me allora poco più di un
bambino. Per passare da una riva all'altra si prendeva un traghetto,
una piccola chiatta capace di ospitare una decina di persone, qualche
bicicletta e forse, nel caso, un paio di mucche. Macchine no, allora
ne circolavano poche e comunque non passavano da lì.
Una lunga e robusta fune
d'acciaio univa le due sponde e ad essa era legata la chiatta che
veniva spostata, grazie ad un ingegnoso sistema di carrucole, a forza
di braccia da una sorta di gigante, conosciuto come Panzanera per
l'abbronzatura della pelle e le dimensioni pantagrueliche
dell'addome.
Per me bambino passare il
fiume sul traghetto di Panzanera era un'avventura senza eguali. Per
quanto piccolo avevo già scoperto la magia dei romanzi di Salgari e
i canneti lungo le rive mi facevano immediatamente pensare a uomini
in agguato e tigri feroci pronte al balzo. Pensavo alle paludi del
Bengala e ai crudeli thugs, gli strangolatori dal laccio di seta,
adoratori della sanguinaria dea Kalì. Ma non avevo paura, perché accanto a me c'era mio padre, il maresciallo dei carabinieri del
paese che ogni tanto mi portava con sé nei suoi giri di ispezione.
Fin da piccolo avevo notato, senza ben capirne il perché, il
riguardo timoroso con cui gli altri si rivolgevano a lui, il
silenzio che si creava quando si entrava nelle osterie di campagna.
Come i canti cessassero e i giocatori di carte abbassassero il tono
della voce. E poi quasi immediato il saluto ossequioso del padrone.
Ero un bambino e non potevo sapere nulla dell'effetto che ancora
poteva fare una divisa in un'Italia appena uscita dalla parentesi buia della dittatura e da una
guerra che anche lì aveva visto la ferocia dell'occupazione tedesca. Un paese povero dove la gente si arrangiava come poteva.
Quel silenzio, che si
creava improvviso attorno a noi, mi pareva solo rispetto, mi
inorgogliva, mi faceva sentire importante. Ma sul traghetto era
un'altra cosa. Panzanera non faceva silenzio, ne mostrava un
particolare ossequio, continuare a regnare sulla sua piccola chiatta
indifferente a tutto e a tutti e al suo confronto mio padre quasi
spariva. La cosa un poco mi turbava e ogni volta il fascino di quel
gigante scuro ne usciva ulteriormente accresciuto.
Il tempo è passato, dal
1962 il traghetto è sparito, soppiantato da un ponte moderno che
il fiume si è già portato via più volte. Ma la figura magica del
traghettatore non mi ha mai abbandonato e l'ho ritrovata ogni volta
che la vita mi ha fatto incontrare uomini che, contro venti e maree,
cercavano tenacemente di traghettare altri uomini dalla sponda grigia
del conformismo a quella verdeggiante e misteriosa della libertà, a
vivere, oltre i flutti tumultuosi della vita, avventure degne di
essere ricordate.
Traghettatore è stato il
prof. Locatelli, il mio vecchio insegnante di latino e greco, e Don
Bof, prete, confidente e amico, e Lello De Cicco, che aveva solo tre
anni più di me, ma mi fa fatto scoprire la grande utopia del
comunismo. Traghettatori verso un altrove senza pirati e tigri, ma
non meno meritevole di essere cercato.