Melis, Viaggio sulla luna (1902)
Storia di viaggi
fantastici a cinquant'anni dall'allunaggio.
Raffaele K. Salinari
Che fai tu, Luna, in ciel?
Fly me to the Moon, cioè
fammi volare fino alla Luna… chi non conosce questo splendido brano
musicale, portato al successo da The Voice Frank Sinatra
nel lontano 1964, in piena Guerra Fredda e relativa corsa allo
spazio? Il valore simbolico della canzone fu tale, all’epoca, da
diventare la sigla della NASA nell’avventura lunare, lanciata solo
un anno prima della sua morte dal Presidente Kennedy con la famosa
frase: «Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre
cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili». Molti
anni dopo, Quincy Jones regalerà i dischi di platino di Fly
Me to the Moon al Senatore John Glenn, il primo astronauta USA,
ed al Comandante dell’Apollo 11 il «first man» Neil
Armstrong, e Clint Eastwood userà la canzone per la scena finale,
quella sulla Luna appunto, del suo romantico Space Cowboys. Più
italicamente Domenico Modugno, già nel 1962, in grande sintonia
italo-americana, urlava il suo: «Selene ene haaa…com’è bello
stare qua, il peso sulla Luna è la metà delle metà!».
Sono passati
cinquant’anni dallo storico allunaggio del luglio 1969, da quel
fatidico: «Un piccolo passo di uomo, un gande passo per l’umanità»,
ma il sogno di raggiungere, o semplicemente utilizzare, il nostro
satellite, nasce insieme alla poesia che ne canta il fascino sugli
innamorati, o adora ancora le sue ipostasi divine, perché, da
sempre, l’umanità ha guardato verso l’astro a noi più vicino in
modo ambivalente, com’è, d’altra parte, la natura di Selene.
L’astrologia lunare
«Perché, alzando gli
occhi al cielo e vedendo la Luna tu non sia trascinato a prostrarti
davanti e a servirla…». Così nella Bibbia, (Deuteronomio IV,
19) si afferma la gerarchia inflessibile tra il vero ed unico Dio e
l’influsso dell’astro sulla vita degli uomini. Eppure, ancora
oggi, ogni inizio di anno, l’astromantica, l’antica arte di
leggere negli astri gli auspici delle cose, ritorna con le rinnovate
previsioni dei suoi lunari e relativi oroscopi.
L’astrologia nacque
nell’antica Mesopotamia, nel regno tra i due fiumi, dove
un’atmosfera straordinariamente limpida, arroventata da un sole
sfolgorante, faceva apparire le masse celesti ancora più vicine e
potenti. Già Diodoro siculo, nella sua Bibliotheca Historica,
(Libro II, cap. IX) così ce ne rende testimonianza: «I Caldei, che
tra i Babilonesi sono i più antichi, si applicano per tutta la vita
agli studi filosofici e traggono principalmente assai gloria
dall’astrologia. E come molto si occupano dell’arte divinatoria,
predicono le cose future, e cercano, o con le espiazioni, o con i
sacrifici, o con certi incantesimi, di allontanare le cattive vicende
o di farne seguire le buone. E sono anche valenti nella scienza degli
auguri, ed interpretano i sogni ed i prodigi, e certamente vengono
reputati profeti esatti».
I pianeti, in
latino plànētes astéres, cioè stelle vagabonde indagati
erano quelli visibili ad occhio nudo già nell’antichità, prima
tra tutti la Luna, con i suoi cicli che accordano mestrui e maree:
era più che naturale cercare di capire, dai suoi movimenti, cosa
potesse accadere sulla Terra. Quando esattamente queste relazioni
furono fissate non è dato sapere, ma certo nel 2000 a. C. a
Babilonia nasce la geografia astrologica, in cui il mondo conosciuto
viene diviso in quattro Paesi corrispondenti alle regioni celesti.
Generalmente benigna, e
particolarmente osservata, era dunque la Luna, figura della notte
che, nella metamorfosi continua delle sue manifestazioni, ben si
incardinava nella mutevole vita del mondo sublunare. Anche Giove,
pianeta di Marduk, onnisciente creatore del cosmo, vivificatore
dei morti, veniva influenzato dalla sua vicinanza o meno con l’alone
lunare.
«La venerazione del
cielo stellato» dice Julius Wellhausen, noto biblista tedesco del
secolo scorso «era così radicata nei Semiti, che anche per i
monoteisti Ebrei rimase sempre una grande tentazione, dell’aver
resistito alla quale Giobbe così si vanta: Vedendo la Luna avanzare
solenne il mio cuore non ne è stato segretamente sedotto e non ho
mandato baci con la mano».
Nel corso dei secoli, la
relazione tra la Luna e gli affari degli uomini ha conosciuto alterne
vicende. La Chiesa si è opposta per secoli all’astrologia, e poi,
progressivamente, la scienza ha trasformato l’astromantica in
semplice astronomia. Ultimo tra i visionari che hanno cercato d
coniugare scienza e religione forse il grande Giordano Bruno, il
sincretico profeta astrologo che, però, troppo lontano si era spinto
a cercare la fede nella «saggezza della Madre Materia».
Leopardi, pur cantando
poeticamente la Luna nel suo Canto notturno di un pastore
errante per l’Asia: «Che fai tu, Luna, in ciel? dimmi, che fai
silenziosa Luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi
ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor
non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli?»,
chiarisce il suo amaro pensiero sugli oroscopi nel celebre Dialogo
tra un viaggiatore ed un venditore di Almanacchi: «Quella vita ch’è
una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si
conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il
caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si
principierà la vita felice. Non è vero?».
Ma è forse Goethe, con
il suo genio tollerante di Libero Muratore e lo sguardo perspicuo per
tutto ciò che humanun est a dire la parola definitiva: «La
superstizione astrologica si basa sull’oscuro senso di un universo
sconfinato. L’esperienza insegna che le stelle più vicine hanno un
influsso decisivo sul tempo, sulla vegetazione etc… non c’è che
da salire di grado in grado, sempre più in alto, e chi può dire
dove questa azione cessi?».
Sì chi può dirlo? Il
lunario di Frate Indovino, pubblicato dal 1945 con rubriche quali «le
stelle parlano» o «vedo e prevedo», e che continua a diffondere in
sei milioni di copie ogni anno le inesauribili osservazioni
astrologiche dei Frati Cappuccini, non è forse ritenuto da noi
tutti, credenti e non, un testo di profonda saggezza che legge negli
astri il Segno dei tempi?
I viaggi sulla Luna
«Dice la storia che un
tempo passato, quello in cui succedevano tante cose, reali,
immaginarie o fantasiose, un uomo concepì uno sterminato progetto;
scriver tutto l’universo in un libro e riempì con slancio un
fitto, eccelso, immenso ed arduo manoscritto, e limò e declamò
l’ultimo verso. Stava per render grazie alla fortuna, ma, alzando
gli occhi, un bel disco d’argento vide nel cielo e rimase sgomento:
s’era dimenticato della luna. La storia, anche se falsa, è ben
ordita per dimostrare quale maleficio grava su noi che usiamo, per
ufficio, trasmutare in parole questa vita… D’una luna di sangue
ebbe a parlare Giovanni nel suo libro, di feroci prodigi pieno e di
giubili atroci; ma vi son lune d’argento, più chiare. Pitagora col
sangue (narra una leggenda) su uno specchio un dì scriveva e il
riflesso di questo si leggeva dentro quell’altro specchio ch’è
la luna».
Questi sono alcuni versi
della poesia La luna di Borges, in cui troviamo, tra le
altre cose, sia la menzione dell’archetipo del “libro
universale”, declinato tante volte dall’autore in termini di
Biblioteca Universale, sia uno dei tanti usi strumentali del piccolo
satellite: lo specchio di Pitagora.
Già nell’antichità
Luciano di Samosata, infatti, narra, nel suo La storia vera, di
un viaggio sulla luna, che lui descrive come un’isola sospesa per
aria, tonda e luminosa, dove trova un oggetto simile ad un grande
specchio: «Vidi un’ancor più grande meraviglia nel palazzo del Re
Endimione. Era un grande specchio sospeso sopra un pozzo non molto
profondo. Scendendo nel pozzo si udiva tutto ciò che era detto sulla
terra e guardando nello specchio vi si vedevano tutte le città e
tutti i popoli come se si fosse in mezzo a loro». Qui, e siamo tra
il I ed il II secolo d.C., e già appare l’idea che andare sulla
Luna potesse servire a controllare ciò che accade sulla Terra.
Come ci riferisce Borges,
si tramanda che nell’antichità il sapiente Pitagora avesse
concepito uno specchio in grado di scrivere sulla superficie lunare:
in sintesi una prima forma di comunicazione a grande distanza.
L’erudito gesuita Athanasius Kircher, assemblatore di una delle più
monumentali Wunderkammer del Seicento, espone questa
suggestiva possibilità nel suo Nuova Criptologia, ampliando la
tesi contenuta nel Magiae naturalis di G. B. Della Porta
(1589), legata al leggendario specchio pitagorico.
Rafael Mirami, nella
sua Compendiosa introduttione alla prima parte della
specularia(1582), aveva già sostenuto che «gli specchi di Pitagora
erano talmente lucidi, e fatti con sottile artificio, che egli diede
occasione di credere che per vie riflesse facesse vedere nel corpo
luminoso della Luna immagini di lettere».
Ma da dove origina questa
storia, chi per primo descrive lo specchio di Pitagora e la sua
capacità di scrittura sulla Luna? Jurgis Baltrušaits, nel suo
erudito Lo specchio (1981) pone la genesi del prodigio
all’interno delle Nuvole di Aristofane, in cui ad un
certo punto Strepsiade replica a Socrate: «Se io assoldassi una maga
tessalica e facessi scendere di notte la Luna, e poi la rinchiudessi
in un astuccio tondo come uno specchio?». Alle maghe tessaliche era
attribuito sia da Platone sia da Plinio questo potere di «far
scendere la Luna» dal cielo. E dunque in quei tempi sembrava che
l’ipotesi più probabile, non fosse andare sulla Luna ma… farla
scendere sulla Terra; se la montagna non va a Maometto…
E non è forse quello
che, in qualche modo, farà Galileo con l’uso del suo telescopio,
anche se con l’intento di toglierle proprio quell’alone di magia
che ancora impediva lo studio delle cose celesti? Ma, se nel corso
del XVII secolo la scienza comincia a viaggiare verso la
Luna, l’antica leggenda dell’assedio di Milano e di una
trasmissione, via satellite lunare, verso Parigi rimane imbalsamata
all’interno di un… lunario che narrava una storia per ogni giorno
dell’anno. E così nell’edizione del 1680, il giorno 22 di
giugno, si legge una ricetta pratica che titola: «Maniera per
conoscere le cose assenti senza magia: bisogna scriverle a grandi
lettere su uno specchio e volgerlo verso la Luna, la quale le farà
conoscere in un altro specchio dove la si guarda».
Quasi
un secolo prima di Galileo, Astolfo, duca d’Inghilterra, viene
trasformato dalla sua amante, la maga Alcina, in una pianta di mirto.
L’amico Ruggiero e la buona fata Lagostilla liberano però Astolfo
dall’incantesimo; questa gli dona poi un corno dal suono
spaventevole ed un magico libro che insegna a difendersi dagli
incantesimi. Siamo nel Canto XVdell’Orlando Furioso, l’opera in
versi pubblicata nel 1516 da Torquato Tasso. Ecco che,
allora, grazie a questi oggetti preziosi Astolfo distrugge il
palazzo del gigante Atlante, doma l’Ippogrifo e, dopo aver
cacciato le Arpie che infestano la mensa di re Senapo, in sella alla
straordinaria cavalcatura, giunge alla montagna del Purgatorio dove
incontra San Giovanni, un vecchio venerabile nel viso che
gli spiega la sua missione: per volere della provvidenza divina dovrà
recarsi sulla Luna per ritrovare l’ampolla con il senno del
paladino Orlando,impazzito d’amore, e restituire così al cavaliere
la sua saggezza; in questo modo egli potrà di nuovo combattere e
portare l’esercito cristiano alla vittoria contro i saraceni. Così
Astolfo e San Giovanni salgono sul carro alato del profeta Elia,
trainato da quattro destrier più che di fiamma rossi e indi
vanno al regno della luna (Canto XXXIV, 1 -70).
Anche qui, come nel caso
di Luciano di Samosata, o delle streghe tessaliche, o dello specchio
di Pitagora, il viaggio sulla Luna, o il farla scendere sulla terra,
è chiaramente funzionale ad uno scopo ben preciso: in questo caso
alla guerra contro i saraceni.
Passano i secoli e la
Luna si avvicina sempre più, non solo per via delle lenti
galileiane, ma per la forza attrattiva di nuovi strumento che
sembrano anticipare nell’immaginario collettivo, quello che la
politica tiene più da conto, l’impresa reale: la fantascienza ed
il cinema.
Giulio Verne e Georges
Méliès
Dalla Terra alla Luna,
titolo originale De la Terre à la Lune, trajet direct en 97
heures 20 minutes, è il famoso romanzo di fantascienza di Jules
Verne, scritto del 1865, prima parte di un dittico che si chiude
con Intorno alla Luna, del 1870. Il genio esoterico e
visionario di Verne, Rosacruciano e Massone, anticipa con
straordinaria lucidità tutti gli elementi tecnologici che poi
sosterranno, effettivamente, l’impresa lunare cent’anni dopo.
Prima di tutto la propulsione e le forma dell’astronave: sparata da
un enorme cannone, la navicella proiettile finanziata dal Gun
Club arriverà sull’astro più vicino. Qui va notato un
elemento che, con gli occhi di oggi, assume una centralità
decisamente profetica: il ruolo dei privati. Mentre sino a pochi anni
or sono, infatti, i viaggi spaziali erano appannaggio solo delle
Agenzie spaziali nazionali o Europee, oggi il mondo del business
privato si affaccia con convinzione, non solo al turismo spaziale, ma
alla possibilità di trasferire una parte dell’umanità, quella che
ovviamente se lo potrà permettere, o in orbita, o sulla Luna. Su
questo scenario i film ed i romanzi di fantascienza si sprecano, non
ultime pellicole comeElysium il bellissimo Wally della
Pixar.
E allora non possiamo che
concludere questa piccola storia dei viaggi fantastici sulla Luna se
non citando il grande Georges Méliès con il suo Viaggio
nella Luna (Le Voyage dans la lune) film
muto del 1902 realizzato assieme al Viaggio
attraverso l’impossibile e liberamente tratto non solo sui
romanzi di Jules Verne ma anche dal I primi uomini
sulla Luna di H.G. Wells.
E così a cinquant’anni
dall’allunaggio, cerchiamo ancora d ricordare le tante storie che
ci legano alla “nostra” Luna, ma teniamoci cara la Terra, per non
dover un giorno essere costretti a guardarla da lassù senza poterci
tornare.
Il Manifesto/Alias – 13 luglio 2019