Il
1 dicembre a Cairo Montenotte nell'ambito del quarantennale di
fondazione della R.L. "Canalicum", si è tenuto a cura del
Grande Oriente d'Italia un partecipatissimo convegno sulla figura e l'opera di
Giuseppe Cesare Abba: garibaldino, massone e storico. Di seguito il testo del nostro intervento.
Giorgio
Amico
Giuseppe
Cesare Abba, testimone e interprete del Risorgimento
All'inizio del 1860, alla
vigilia di quella che passerà alla storia come "l'impresa dei
Mille", il giovane Abba, simile allo stendhaliano Fabrizio Del
Dongo, vive fino in fondo la sua condizione di uomo irrisolto.
Animato da una forte
spinta rivoluzionaria che lo fa sentire erede diretto delle due
generazioni precedenti, quella dei padri (Mazzini, Garibaldi e
soprattutto Giovanni Ruffini sui cui romanzi si formerà) e quella
dei martiri (Mameli, i Bandiera, Pisacane), Abba sente profonda la
frustrazione di vivere in un momento in cui la rivoluzione pare
sconfitta e in ritirata e persino Garibaldi in nome del realismo
politico è dovuto scendere a patti con Cavour e gli odiati Savoia.
A ciò si aggiunge il
sentirsi un pittore mancato, l'abbandono mai a pieno chiarito degli
studi, pure intrapresi con tanto entusiasmo, alla Scuola di Belle
Arti di Genova.
Tutto pare complottare
contro di lui: arruolatosi volontario nell'Aosta cavalleria allo
scoppio della seconda guerra di indipendenza, viene smobilitato prima
che il suo reggimento abbia terminato il periodo di addestramento.
Dalla sua caserma nelle retrovie, Abba legge della guerra sulle
Gazzette, circondato da commilitoni, non volontari come lui, ma
semplici coscritti, che detestano la guerra e non nutrono alcuna
idealità patriottica. Per lui, abituato alla retorica dei circoli
studenteschi, è un vero e proprio trauma.
Rivoluzionario, artista e
soldato mancato: così si sente quando a cambiare tutto arriva
Garibaldi. È una svolta radicale, Abba ha 22 anni per l'epoca una
età adulta. La partecipazione alla spedizione dei Mille diventa
l'evento cardine della sua vita, attorno a cui tutto ruoterà fino al
momento della sua morte cinquanta anni più tardi..
Fondamentale risulta
l'incontro con Garibaldi, di cui nelle Noterelle disegna un ritratto
umanissimo, ma anche con Mazzini, di cui ha sempre solo sentito
parlare (e il più delle volte con sarcasmo misto a disprezzo), che
casualmente incontra nelle vie della Napoli appena liberata e che lo
colpisce per il suo sereno coraggio:
"Vidi la prima volta
Giuseppe Mazzini in una via di Napoli, sul finire del settembre 1860.
Egli se ne andava tra la folla soletto, a passo lento. Ed erano i
giorni che gli si aveva voluto vietare di stare in Napoli, e che egli
aveva severamente risposto di credersi d'essere in terra libera.
Pareva che non si ricordasse d'essersi sentito urlato a morte, pochi
giorni avanti, dalla plebaglia condotta sotto le sue finestre. E noi
che eravamo in tre lo seguimmo a poca distanza, osservando come egli
camminava sicuro e pensavamo alle tante volte che avevamo sentito
accusarlo come uomo che mandava la gente a morire e badava bene a non
esporre la propria vita. Ma là in quei giorni, qualsifosse sicario o
fanatico avrebbe potuto piantargli un pugnale nel petto o nel dorso!
Eppure Mazzini non si guardava".
Nei mesi della campagna
contro i Borboni Garibaldi e Mazzini diventano per Abba figure non più
mitiche, ma concretissime di riferimento politico e ideale, su cui
orientare e costruire la sua vita di adulto in un'Italia, appena
riunificata, che è un groviglio di contraddizioni tanto complesse da
restare (come la questione meridionale) ancora oggi largamente
irrisolte. Al giovane cairese in cerca di sé stesso, Garibaldi e Mazzini trasmettono con l'esempio delle loro vite il senso autentico di un impegno politico e civile che è prima di tutto dovere etico: fare gli italiani, formare una identità condivisa, trasformare popolazioni divise da secoli in un popolo solo unito da legami fraterni.
In quest'ottica la battaglia culturale e
civile diventa la continuazione della lotta armata, anche se questa
non va ancora abbandonata: Venezia,
Roma, Trento, Trieste sono ancora in mano straniera. E Abba combatterà ancora e con immutato
coraggio tanto da meritare nel 1866 la medaglia d'argento al valor
militare per il suo comportamento durante la battaglia di Bezzecca.
Ma l'impegno cardine di
quella generazione di rivoluzionari è ormai un altro: contro i venti
di normalizzazione che già da subito soffiano impetuosi, costruire
un'Italia civile e democratica, capace di affrontare costruttivamente
il problema, che già si annuncia centrale, di "plebi",
sfruttate e incolte tanto al sud come al Nord, da trasformare in
popolo, in cittadini pienamente consapevoli dei propri diritti e dei
propri doveri. In ciò consiste la rivoluzione sognata che, alcuni
decenni più tardi in sede di consuntivo, dal buio del carcere
fascista Gramsci definirà, grazie ad uno sforzo poderoso di analisi
e di sintesi, "mancata".
Rivoluzione mancata per
l'accordo fra latifondisti del Sud e la borghesia industriale del
Nord, terrorizzati dalla possibilità di una riforma agraria che
desse finalmente la terra ai contadini e la concessione piena dei
diritti politici e della libertà di organizzazione sindacale agli
operai delle fabbriche del settentrione. Al sogno
mazziniano-garibaldino, carico di echi libertari e repubblicani, si
sostituì una politica segnata dal trasformismo, dall'abbandono degli
ideali risorgimentali, dalla corruzione, dalla repressione
sistematica di ogni anche timida protesta popolare. A partire da
quella tragedia immane che fu la guerra al "brigantaggio",
ovvero la normalizzazione manu militari della rivolta in larga parte
spontanea delle masse contadine di un Sud che aveva creduto in
Garibaldi "liberatore" e ora si sentiva tradito dai
"piemontesi" e più sfruttato di prima.
Lottare per un'altra
Italia significava allora avvicinare davvero intellettuali e popolo,
mischiarsi alla gente comune, partecipando ad esempio, come Abba fa a
Cairo Montenotte nel 1861 alla fondazione di una società di mutuo soccorso
fra gli operai che ancora oggi esiste e porta il suo nome. Ma anche
come sindaco dal 1870 al 1880 a potenziare e modernizzare il servizio
scolastico, a risanare il paese costruendo una rete fognaria prima
inesistente, a finanziare corsi serali di alfabetizzazione per
adulti, a favorire l’istituzione di una banca popolare al servizio
dei lavoratori, degli artigiani e degli agricoltori per liberarli
dall'incubo degli strozzini e delle banche in mano ai possidenti e al clero.Un
impegno democratico che lo impose all'attenzione di Mazzini, che non
lo conosceva, ma che in un suo taccuino ebbe a scrivere:"Abba.
Cairo Montenotte, consigliere comunale e nell'insegnamento: uno dei
Mille: ottimo e nostro".
Dunque, fatta l'Italia,
occorreva fare gli italiani. Il che in termini concreti significava
costruire un'immagine condivisa di un Paese e di una storia. Fare di
un "volgo disperso che nome non ha", tanto per citare
l'Adelchi manzoniano, un popolo consapevole delle sue comuni radici.
Compito che la Massoneria si assunse in prima persona e che la rese,
sempre secondo Antonio Gramsci, il primo autentico partito politico
moderno di un'Italia ancora profondamente arretrata. Una impresa il
cui sostanziale fallimento, già avvertibile in epoca giolittiana,
segnerà in profondità la storia futura d'Italia a partire già
dalla prima guerra mondiale e immediatamente dopo dal fascismo.
Una impresa, tuttavia, di
grande respiro politico e ideale, che spiega l'adesione convinta e
attiva all'istituzione libero-muratoria di uomini, per restare alla
Valle Bormida, come Giuseppe Cesare Abba a Cairo, Anton Giulio Barrili
a Carcare o Sisto Anfossi, medico di Dego, meno conosciuto degli
altri due, ma tra i padri fondatori a Torino nel 1859 della Loggia
Ausonia da cui prenderà poi vita il Grande Oriente d'Italia. Figura
straordinaria quella di Anfossi, medico e cospiratore, esiliato a
Parigi, fondatore di società segrete legate alla carboneria, di cui
ci ripromettiamo di trattare in altra occasione.
Dunque più che storico,
Abba si sente, ed è, un testimone e interprete del Risorgimento e dei
suoi ideali, ma anche, come vedremo, del suo sostanziale fallimento.
In questo consiste il suo lavoro non tanto di storico, quanto di testimone/narratore di ciò che è accaduto, ma anche di ciò che si voleva
accadesse e non è accaduto. Un Abba molto diverso dal
ritratto agiografico che tradizionalmente ne è stato fatto.
È la storia stessa del
suo libro più famoso, a dimostrarlo. Con il titolo minimalista di
"Noterelle di uno dei Mille", dichiarazione esplicita che si vuole trattare non di un'avventura individuale, ma di una impresa collettiva, il libro uscirà solo nel 1880
grazie all'interessamento di Carducci limitandosi a trattare della
liberazione della Sicilia, da Marsala a Messina. Solo nel 1891 a
trent'anni dagli avvenimenti narrati il libro esce nella versione
definitiva ed integrale con il titolo "Da Quarto al Volturno"
e dalle sue pagine traspare ad una lettura non agiografica una
profonda disillusione.
Si avverte, insomma, già
la delusione verso gli esiti moderati di quella che doveva essere una
rivoluzione espressa quasi negli stessi anni da Edmondo De Amicis nel
romanzo "Sull’Oceano" del 1889, in cui si raccontano le
traversie di migliaia di disperati che, in tutto simili agli attuali
dannati della terra che sbarcano sulle nostre coste, inseguono sul
mare un sogno di libertà e di riscatto. Attenzione! Non è il De
Amicis, agiografico e patriottico di "Cuore", ma lo
scrittore tormentato di "Primo Maggio", il primo vero
romanzo italiano sulla questione operaia. Tra questa massa di
disperati in cerca di un futuro c'è anche un ex garibaldino che
ragionando sul presente e sulle miserie dell'Italia unita ad un tratto
se ne esce con una affermazione terribile: «se metà degli uomini
che avevan dato la vita per la redenzione dell’Italia fossero
resuscitati, si sarebbero fatti saltare le cervella».
Nelle ultime pagine del
libro ben avvertibile è la sensazione, che Abba ci trasmette con
poche decise pennellate, che spiri già aria di restaurazione e siamo
appena all'indomani del tanto mitizzato "incontro di Teano".
Abba parla di Garibaldi:
«Ieri il Dittatore non
andò a colazione col Re. Disse di averla già fatta. Ma poi mangiò
pane e cacio […] circondato dai suoi amici, mesto, raccolto,
rassegnato. […] Ora odo dire che il Generale parte, che se ne va a
Caprera e mi par che cominci a tirar un vento di discordie
tremende».
Mesto, raccolto,
rassegnato. Tre aggettivi a descrivere una vittoria militare
trasformatasi in sconfitta politica. Alla fine hanno vinto i Savoia,
la rivoluzione non c'è stata, come nelle parole del principe Salina
nel grande romanzo di Tomasi di Lampedusa, tutto è cambiato perché
nulla cambiasse davvero. Come aveva già intuito, padre Carmelo,
frate guerrigliero alla Camilo Torres, nel memorabile breve dialogo
con Abba sulle aspettative reali dei contadini siciliani a cui lo
scrittore non sa rispondere:
"E chi vi dice che
non aspettino qualche cosa di più? Non seppi che rispondere e mi
alzai..."
Osserva amaramente Abba:
"Questo popolo che ci ha fatta la luminaria la notte del 25
maggio, quando eravamo pochi e con poche speranze, adesso non ci
riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non si può
indovinarlo".
Abba non lo sa, ma questo
è il momento in cui nasce la questione meridionale, in cui
si svela l'incapacità profonda da parte di questi giovani
rivoluzionari venuti da Nord di comprendere davvero la realtà
del Sud e l'aspettativa creata nelle masse dei senza terra di una
rivoluzione che non si fermasse ai proclami patriottici, ma sapesse
diventare distruzione del latifondo, riforma agraria, libertà ma anche terra da coltivare senza sentire sul collo il peso dei latifondisti e della mafia, che a sua volta fa capolino in una pagina del libro.
L'Italia degli anni
Novanta dell'Ottocento non vede il trionfo degli ideali mazziniani e
garibaldini. Ben altri sono i segni dei tempi: lo scandalo della
Banca Romana nel 1893 (la prima tangentopoli della nostra storia), la
repressione sanguinosa dei Fasci siciliani (1894) e dei moti per il
pane di Milano (1898), la nascita di un imperialismo "straccione"
segnata dal massacro di Adua (1896). Tra gli spiriti più avvertiti
si diffonde un senso condiviso di disagio e frustrazione ben
rappresentato da "I vecchi e i giovani", grande romanzo di
un ancor giovane Pirandello, ambientato nei giorni dei fasci e che
vede la morte simbolica di un vecchio ex-garibaldino per mano dei
soldati mandati a reprimere la protesta dei contadini. Una visione
sconsolata che ritroviamo in una lettera di Abba all'amico Francesco
Sciavo del 26 febbraio 1901:
"Il nostro paese è
così fatto [....]. Io l'Italia l'ho veduta farsi, e so come s'è
fatta. Essa è venuta qual doveva venire: il feudo di una classe di
furbi, viventi di mutua assistenza e di mutui salvataggi".
Un Abba profondamente
disilluso che nei suoi scritti si attacca ancora di più alla memoria
dell'epopea garibaldina perché solo testimoniando di quelle lotte,
solo non perdendo la memoria di ciò che si voleva fare e di come
l'Italia avrebbe potuto essere, si poteva ancora nutrire la speranza
che le nuove generazioni rialzassero quelle bandiere e riprendessero
quel percorso di libertà.
E in questo Abba appare a
noi, figli di una Resistenza oggi da più parti vilipesa e negata nei suoi valori
fondanti la nostra Repubblica, attualissimo.
Cairo Montenotte, 1
dicembre 2019