in occasione
dell'anniversario della strage di Piazza Fontana il presidente
Mattarella si è sentito in dovere di accomunare alle vittime
dell'attentato fascista anche la morte dell'agente Annarumma.
Riprendendo nella sostanza il vergognoso comunicato dell'allora
presidente della Repubblica Saragat (da più parti indicato come uno
degli ispiratori politici della strategia della tensione) che,
senza alcun riscontro, parlò immediatamente di "barbaro
assassinio", Mattarella ha di nuovo parlato di "uccisione",
a voler chiaramente suggerire, secondo la vecchia tesi democristiana
degli opposti estremisti, che il terrorismo nero era stato comunque
accompagnato dall'azione violenta della sinistra. Un libro, appena
pubblicato e di cui riportiamo la bella recensione di Saverio Ferrari
apparsa sul Manifesto, ricostruisce ciò che davvero accadde in
quella tragica giornata e ciò che ne seguì. La morte del giovane
agente resta dunque uno dei tanti misteri irrisolti di quegli anni.
Dunque, parlare di "uccisione" è del tutto arbitrario, E,
anche se ci piacerebbe pensarlo, non di una svista si è trattato.
Nel suo discorso, pur parlando di "strategia della tensione",
il presidente ha accuratamente omesso ogni anche minimo accenno al
ruolo svolto da apparati dello Stato, dai Servizi segreti all'Ufficio
affari Riservati del Ministero degli Interni. Intervento comprovato
fin nei minimi dettagli da decine di pubblicazioni oltre che dagli
atti delle inchieste giudiziarie e della stessa Commissione
parlamentare di inchiesta sulle stragi. Il discorso di Mattarella
rappresenta l'ennesima dimostrazione dell'incapacità da parte delle
Istituzioni e dei vertici dello Stato di fare realmente i conti con
la storia di quegli anni tragici. Insomma, che quella di Piazza
Fontana sia stata una "strage di Stato", resta ancora un
tabù.Ma noi, che di quei fatti fummo testimoni, lo sappiamo e non lo
dimentichiamo.
Saverio Ferrari
Strategia della tensione in una
storia mai narrata
Quando si tenne a Roma,
il 29 novembre 1969, la manifestazione nazionale dei metalmeccanici
comparve un cartello: «Saragat, operai 171, poliziotti 1». Si
ricordava polemicamente in questo modo al Presidente della Repubblica
la lunga lista dei lavoratori uccisi dal 1947 in scontri con le forze
dell’ordine.
Il poliziotto menzionato era invece morto solo pochi giorni prima, il 19 novembre a Milano, nel corso degli incidenti scoppiati durante lo sciopero generale per la casa indetto da Cgil-Cisl e Uil, la prima manifestazione unitaria dal 1948, cui aderì quasi il 95% dei lavoratori italiani. Si chiamava Antonio Annarumma di soli 22 anni, originario di Monteforte Irpino, una delle aree più povere d’Italia. Di «azione criminosa di un dimostrante» parlò il ministro dell’Interno Franco Restivo, mentre il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in un telegramma divenuto famoso, sentenziò che si era trattato di un «barbaro assassinio». Da qui il cartello.
La ricostruzione di quella tragica vicenda, a distanza di cinquant’anni, la dobbiamo ora al libro del giornalista Cesare Vanzella, già direttore di «Polizia e Democrazia», Il caso Annarumma. La rivolta delle caserme e l’inizio della strategia della tensione (Castelvecchi, pp.160, euro 17.50), intenzionato a superare narrazioni precedenti e verità ufficiali basandosi scrupolosamente sull’analisi dei fatti, gli atti giudiziari disponibili e il recupero fondamentale di inedite testimonianze.
IN QUEL NOVEMBRE si
era in pieno «autunno caldo». I lavoratori rivendicavano assieme
miglioramenti complessivi, una maggior democrazia nei luoghi di
lavoro e contare di più nella vita di fabbrica e nel Paese. La
richiesta di riforme andava dalle pensioni, da agganciare ai salari,
alla riforma sanitaria incentrata sulla prevenzione, alla casa, da
cui lo sciopero generale del 19 novembre.
A fronte di queste grandi lotte di massa i fascisti, veri e propri manovali del padronato più retrivo, si scatenarono in aggressioni e violenze. In quel 1969 si conteranno alla fine ben 145 attentati, quasi tutti di riconosciuta marca fascista. La «strategia della tensione» andava prendendo corpo.
Giorgio Benvenuto, all’epoca segretario della Uilm, in una delle due introduzioni al libro (l’altra è di Mario Capanna), ricorda ancora con angoscia quando fu convocato subito dopo il 19 novembre, insieme ai segretari di Fiom e Fim, dal ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin. «Siamo alla vigilia dell’ora X» – disse loro – «Il golpe è alle porte, bisogna mettere un coperchio sulla pentola che bolle».
Si riferiva quanto accaduto nell’aprile del 1967 in Grecia con la presa del potere da parte dei colonnelli e alla necessità di firmare immediatamente il contratto dei metalmeccanici. La strage di piazza Fontana arriverà il 12 dicembre successivo.
A fronte di queste grandi lotte di massa i fascisti, veri e propri manovali del padronato più retrivo, si scatenarono in aggressioni e violenze. In quel 1969 si conteranno alla fine ben 145 attentati, quasi tutti di riconosciuta marca fascista. La «strategia della tensione» andava prendendo corpo.
Giorgio Benvenuto, all’epoca segretario della Uilm, in una delle due introduzioni al libro (l’altra è di Mario Capanna), ricorda ancora con angoscia quando fu convocato subito dopo il 19 novembre, insieme ai segretari di Fiom e Fim, dal ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin. «Siamo alla vigilia dell’ora X» – disse loro – «Il golpe è alle porte, bisogna mettere un coperchio sulla pentola che bolle».
Si riferiva quanto accaduto nell’aprile del 1967 in Grecia con la presa del potere da parte dei colonnelli e alla necessità di firmare immediatamente il contratto dei metalmeccanici. La strage di piazza Fontana arriverà il 12 dicembre successivo.
Già a partire dal pomeriggio del 19 novembre scoppiò letteralmente una rivolta in due caserme di Milano, dove centinaia di agenti tentarono di varcare i cancelli per farsi «giustizia» da soli. Dovettero schierarsi alcuni reparti di carabinieri per impedirlo. La morte di Annarumma aveva fatto da innesco a un malumore profondo e diffuso dovuto ai turni massacranti, a una disciplina ferrea, nonché a condizioni di vita davvero misere in alloggi scadenti, con vitto mediocre e paghe bassissime. Annarumma percepiva una retribuzione netta di 82.630 lire mensili. La repressione fu durissima con trasferimenti punitivi e allontanamenti dal corpo. Da qui comunque si svoltò, almeno sul piano di alcune iniziative di natura economica per le forze di polizia. La smilitarizzazione e il sindacato di polizia arriveranno solo molto dopo, nel 1981.
I FUNERALI di
Antonio Annarumma si svolsero venerdì 21 novembre. Una gran folla,
stimata in cinquantamila persone, si radunò nel centro di Milano. I
fascisti colsero l’occasione per riprendersi la piazza. A
centinaia, organizzati in squadre, scatenarono la caccia ai «rossi»,
magari individuati solo per l’abbigliamento o i capelli lunghi. A
farne le spese furono in diversi, ma soprattutto Mario Capanna, il
leader del Movimento studentesco che si era recato alle esequie.
Rischiò il linciaggio. Venne salvato a stento da alcuni funzionari
di polizia che in compenso lo ammanettarono.
Per la morte di Annarumma non fu mai individuato chi avrebbe colpito con una sbarra il poliziotto alla guida del gippone. Tredici furono invece gli imputati per i disordini. Otto di loro furono assolti e cinque ebbero pene minime. Chi era accanto ad Annarumma testimoniò di non ricordare nulla. Fu il festival delle amnesie. Il professor Vittorio Staudacher, primario del Policlinico, mise in dubbio che l’agente fosse stato colpito da una sbarra. L’autore di un filmato amatoriale dichiarò di aver «ripresi due gipponi che si scontravano e un agente che moriva».
Per la morte di Annarumma non fu mai individuato chi avrebbe colpito con una sbarra il poliziotto alla guida del gippone. Tredici furono invece gli imputati per i disordini. Otto di loro furono assolti e cinque ebbero pene minime. Chi era accanto ad Annarumma testimoniò di non ricordare nulla. Fu il festival delle amnesie. Il professor Vittorio Staudacher, primario del Policlinico, mise in dubbio che l’agente fosse stato colpito da una sbarra. L’autore di un filmato amatoriale dichiarò di aver «ripresi due gipponi che si scontravano e un agente che moriva».
La conclusione di Cesare Vanzella è amara: nessuno ha mai cercato «una verità accettabile», tanto meno la polizia. «La sensazione» è che «Annarumma debba restare ancora, e forse per sempre, una storia da non raccontare».
il manifesto, 19 novembre
2019