Il Seder costituisce l’insieme di atti e letture seguito nelle case ebraiche la prima sera di Pesach. Gli scopi del Seder sono essenzialmente due: ricordare la liberazione dalla schiavitù egiziana e trasmetterne il messaggio alle nuove generazioni, destando particolarmente l’attenzione dei bambini. Noi lo ricordiamo con un vecchio articolo del Manifesto. Che sia una Pasqua di Pace per tutte le amiche e tutti gli amici di Vento largo.
Pasqua con Judith e
Julian
Al centro, un lungo
tavolo di legno chiaro, basso e circondato da cuscini e tappeti.
Tutto intorno, addossata alle pareti di una fragile e accogliente
struttura di legno, una grande tavolata. Al primo tavolo si sistemano
gli ospiti dei Living Theatre, mentre la seconda accoglie gli
"invitati-spettatori". Ingombrano la mensa piatti imbanditi
piuttosto parcamente, vino e succo d’uva, la matzah (il pane
azzimo, cioè non lievitato), ciotole piene d’acqua. Le note di un
flauto, accompagnato da una cantilena, danno inizio alla cerimonia.
È l’"Haggadah per
il Seder di Passover", (...) una cerimonia che il Living ha sempre continuato a celebrare in
forma privata, lungo tutta la sua storia. (…)
Julian Beck - e nella sua
posizione si riflette anche quella del Living - non poteva
probabilmente definirsi "religioso". Parlava di sé come di
un militante anarchico, in lotta per spezzare catene e barriere, a
cominciare da quelle delle ideologie, dai fanatismi delle ortodossie,
per una rivoluzione non-violenta (proprio durante gli "anni di
piombo", quando il suo "messaggio" sembrava meno
accettabile, fuori dal tempo, il Living aveva voluto stabilirsi in
Italia…).
Era tuttavia possibile,
con qualche forzatura, leggere nello slancio che animava Beck e il
Living qualche venatura profetica, quasi mistica; non a caso, alcuni
loro spettacoli sono interpretabili attraverso i testi sacri
dell’ebraismo - a cominciare dalla Rivoluzione di Paradise
Now,costruita su una struttura ripresa dalla Kabbalah.
Questo "doppio
binario" trova qualche riflesso in altri aspetti. La scelta
stessa di dedicarsi al teatro contravveniva, per esempio, a un
precetto implicito della religione ebraica, che evita la
rappresentazione come forma di idolatria, D’altro canto uno dei
fili conduttori dell’attività del Living è stato il continuo
tentativo di superare, all’interno della forma dello spettacolo,
proprio la rappresentazione: con un’immedesimazione realistica che
finiva per ingannare il pubblico ("questa è realtà, non è
teatro... restituiteci i soldi del biglietto..."); con un
coinvolgimento dello spettatore che tendeva a equipararlo all’attore;
o ancora con la convinzione da agit prop che vedeva gli effetti del
la rappresentazione diffondersi per contagio nell’intera società.
Dietro la scelta di
celebrare pubblicamente la cena pasquale s’intravedono queste
tensioni contrastanti, e un intelligente tentativo di mediarle: se la
storia del Living è un continuo tentativo di ritualizzare il teatro,
questa è, al contrario ma coerentemente, una spettacolarizzazione
del rito. Judith (figlia di un rabbino, oltre a essere da sempre la
regista del gruppo di cui è anche la guida carismatica, soprattutto
dopo la morte, due anni fa, di Julian) si è preoccupata della
legittimità dell’operazione: "quando ce l’hanno proposto,
abbiamo meditato a lungo. Ma nel testo del Seder sta scritto: "chi
ha fame venga e mangi". Perciò si tratta di una festa aperta a
tutto il mondo, ebrei e non-ebrei".
Non c’è invece nessun
bisogno di giustificare l’interesse del Living per questa
particolare ricorrenza: con la cena pasquale la liturgia ebraica
rinnova ogni anno il ricordo e l’esperienza della liberazione dalla
schiavitù dei Faraoni, "perché un tempo eravamo schiavi e poi
siamo stati liberati e se ora fossimo schiavi, dovremmo guardare alla
nostra libertà". Proprio per guardare alla prospettiva della
liberazione, per ricordarsi delle tante schiavitù dei Presente, per
rinnovare l’impegno a costruire un futuro di libertà, ecco questa
"Haggadah per Seder di Passover", ovvero in angloebraico
"Racconto della Sequenza del Passaggio"
L’episodio biblico
dell’Esodo è un luogo canonico della meditazione politica, per
secoli metafora obbligata – quasi eccessiva - di ogni liberazione:
"La rivoluzione che quivi troverà non già la sua fine, bensì
il suo inizio di organizzazione, non sarà una rivoluzione di breve
respiro. L’attuale generazione assomiglia agli Ebrei che Mosé
condusse attraverso il deserto. Non solo deve conquistare un nuovo
mondo: deve perire per far posto agli uomini nati per un nuovo mondo"
(Marx, 1948; questa citazione, come altre, è ripresa da Esodo e
Rivoluzione di Michael Walzer, Feltrinelli 1986).
Il ricordo dell’Esodo
non poteva non risucchiare il Living, diventando momento di
riflessione collettiva, occasione d’incontro e d’interpretazione.
Non per ricordare una liberazione avvenuta - o meglio conquistata -
una volta per sempre, ma per ricordare le possibilità, la necessità
della liberazione: una liberazione da conquistare ogni giorno.
Il rituale che precede la
cena vera e propria si snoda per quasi due ore, e illustra
minuziosamente le ragioni della celebrazione del Pesach, la Pasqua
ebraica, secondo la tradizione rabbinica, ma la interpreta
liberamente; e, quando è il caso, la critica e la corregge
puntigliosamente. In omaggio alla parità dei sessi, l’Altissimo
diventa "Uno Santo-Una Santa". Nella forma aperta di questo
rituale trovano un ruolo e una funzione, con tutta la loro efficacia
poetica, alcuni brani dei Canti della Rivoluzione di Julian Beck e
l’intramontabile Urlo di Allen Ginsberg.
E poi niente carne,
perché di sangue al mondo ne è stato già sparso fin troppo: "Siamo
arrivati ad una migliore comprensione / del nostro rapporto con le
altre creature di Dio / e ci sentiamo più vicini a loro / e non
uccidiamo per mangiare". E se l’agnello è un simbolo
veramente irrinunciabile, Judith ci ha portato una microscopica
pecorella giocattolo, che mostra con convinzione e ironia al momento
opportuno.
Il tutto debitamente
illustrato e intervallato dai gesti previsti: abluzioni, piatti che
vengono scoperti e poi nuovamente coperti, bicchieri che vengono
alzati, riempiti e così via. L’atmosfera è quotidiana, come
dovesse essere una festa in famiglia, attraversata a volte da un
brivido quasi solenne.
Partecipare a
un’esperienza di questo genere suscita sempre reazioni
contrastanti. C’è, per un non ebreo, la curiosità quasi
antropologica di conoscere usi e costumi diversi, confrontando riti
che sembrano magari somigliarsi, ma che lasciano intravedere
differenze e distinzioni profonde. Ma c’è anche la sensazione di
trovarsi come semplici spettatori di fronte a un evento che per altri
ha in qualche modo un carattere sacro: il disagio quindi di sentirsi
degli intrusi, di rubare qualcosa che non ci appartiene e che per
altri ha un diverso valore.
E tuttavia in questo caso
rito e spettacolo finiscono inevitabilmente per confondersi (…)
Perché quello che il Living costruisce non è ovviamente
interpretabile - almeno non per tutti - come pura e semplice
espressione di una religiosità. L’invito alla tolleranza che anima
ogni frase, ogni gesto, ha una portata più ampia: è rivolto - e
coinvolge - tutti coloro che si siano radunati in questa occasione.
(…) pratica di una vera e propria "ecologia della mente"
basata sulla tolleranza e sul rispetto dell’altro: un patrimonio di
una cultura come quella ebraica che non conosce né dogmi né eresie.
Un patrimonio che il Living ha trasformato nella pratica di una non
violenza attiva.
il manifesto- 20 aprile
1987