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Debord e il Situazionismo revisited. Punto della Situazione n. 1, a
cura di Antonio Saccoccio, che comprende anche un nostro testo su
Asger Jorn. Anticipiamo il contributo di Roberto Massari.
Roberto Massari
Complicanze
spettacolari
Produrre ancor oggi
qualcosa di originale su ciò che Debord ha scritto o fatto, è
un'impresa molto ardua. Apparentemente tutto su di lui è stato
detto, tutto di lui è stato letto e visto, mentre il suo nome si
conferma sempre più come un contrassegno simbolico di un'epoca: gli
anni delle avanguardie e del ribellismo presessantottesco.
Il nome di Debord è oggi
più noto di quanto non lo fosse vent'anni fa e spesso, nella cronaca
giornalistica, rimpiazza ingiustamente il nome del movimento di cui
egli fu controverso alfiere: il Situazionismo. Resta il fatto, però,
che il ritmo storicamente sempre più vorace con cui si consumano
mode e riti letterari, ha reso impossibile un'assimilazione reale dei
contenuti della sua battaglia. Quasi nulla del suo messaggio affiora
nel mondo della politica istituzionale (anche della più radicale,
contestatrice o alternativista), ma nulla o quasi anche nel mondo che
viene ipocritamente definito «dell'antipolitica», benché sarebbe
più corretto parlare di mondo dell'antiparlamentarismo e
dell'antipartitocrazia.
La verità è che ben
poco è stato assimilato persino negli ambienti che operano con buone
intenzioni anticapitalistiche o antisistemiche, travolti ingenuamente
dal crollo delle ideologie tradizionali e ancora incapaci di
elaborare il lutto.
Attende Debord un destino
simile a quello di altre icone eversive novecentesche: la società
dello spettacolo (quella reale e non quella letteraria) si sta
impadronendo della sua opera, della sua vita e del suo messaggio -
peraltro così «spettacolarmente» conclusi col suicidio del 1994.
In lingue e traduzioni varie fioriscono libri su libri, articoli su
articoli, via via ingarbugliando intuizioni che sarebbero invece
fondamentali per una comprensione critica della nostra epoca.
A leggere o rileggere il
suo capolavoro del 1967 (la SdS)1, si può verificare
agevolmente che quelle intuizioni erano relativamente semplici nella
loro essenzialità e nella loro formulazione apodittica (cioè
autoevidente, ma per questo anche indiscutibile); mentre complicata
era e tale rimane la cornice complessiva all'interno della quale
erano inserite. Non c'è dubbio che si fatica a seguire il filo del
discorso, come ho potuto verificare di nuovo e concretamente alcuni
anni fa quando, con scarso successo, feci dei corsi sulla SdS e
i Commentari per dei giovani.
Forse un po' meglio è andato
il mio tentativo di rendere comprensibili (quindi sintetizzabili,
trasmissibili e linguisticamente semplificabili) le idee portanti
della critica debordiana alla società spettacolare, come ho fatto
nel breve saggio/compendio che redassi per un convegno su Debord
(L'Aquila, 2008 - qui in appendice). Confesso che, accingendomi a
quel lavoro, mi chiedevo se la sintesi mi sarebbe riuscita, ammesso
che fosse possibile.
La complicanza principale
è rappresentata dal fatto che la costruzione concettuale della SdS è
fortemente asistematica. I temi si accavallano; abbondano i
salti logici; il gusto dell'aforisma sostituisce il dovere della
dimostrazione e la formulazione assiomatica l'indagine deduttiva;
continuo è il ricorso a calembour, assonanze linguistiche e in
genere a giochi di parole che lasciano interdetto il lettore,
oscurando il processo formativo di concetti peraltro veri,
affascinanti, futuribili.
Non ci si lasci ingannare
dalla struttura per Tesi: espediente procedurale tradizionale in
campo filosofico, che qui denota una parentela diretta con lo stile
di Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus del
1918-22. Nonostante il titolo, anche questo rappresenta una sfida
letteraria alla coerenza logica, tanto da prestarsi a seconda degli
autori a letture epistemologiche, gnoseologiche, estetiche, etiche,
di filosofia del linguaggio e perfino mistiche. In alcune parti non
matematiche (per es. 1.1-2.023, 2.04-2.14) o quando affronta il
rapporto tra linguaggio e realtà, ci si ritrova davanti alla
procedura per aforismi e assiomi tipica della SdS, a parte i
diversi termini di riferimento: uguale è l'intenzione apodittica,
comune il tono «oscuro» delle connessioni (il disordinato intreccio
di tematiche), esplicita l'ambizione (presunzione?) di creare un
sistema «superiore» di analisi del rapporto linguaggi/pensiero. È
stata colta anche una possibile affinità tra i due:
«La ricognizione
wittgensteiniana dello spazio linguistico basata sulla pratica
esplorativa dei giochi di linguaggio non sembra lontana nella
sostanza dal tentativo debordiano di ripensare lo spazio urbano
attraverso modalità inconsuete di esperirlo. In questo senso, la
sperimentazione di Wittgenstein sul linguaggio si configura
come una sorta di deriva…»2.
Senza voler sminuirne il
ruolo, va detto che se la SdS ha fornito un contributo
imperituro alla storia del pensiero, lo ha fatto soprattutto con le
sue grandi e lungimiranti intuizioni, in assenza pressoché
totale di dimostrazioni - concettuali, logiche o storiche -
e senza una «bibliografia» ragionata di corredo. Si
capisce che il campo di letture propedeutiche debordiane è immenso,
con predilezione per autori marxisti, anarchici o comunque del
movimento operaio.
A parte la mole di
riferimenti a Marx, seguìto da Bakunin e Hegel, compaiono più o
meno fugaci accenni al pensiero di Erodoto, Machiavelli, Novalis,
Bossuet, Feuerbach, Stirner, Engels, Hilferding, Ebert, Bernstein,
Luxemburg, Lenin, Parvus, Trotsky, Eastman, Lukács, Korsch, Rizzi,
Ciliga, Lyssenko, Freud, Kierkegaard, Burckhart, Cohn, Mumford,
Gabel, Boorstin.
Con l'eccezione di Joseph
Gabel (1912-2004) - autore de La fausse conscience: essai sur la
réification, del 1962, e di altri scritti sull'alienazione, da Marx
alle moderne concezioni della schizofrenia - l'unico di questi autori
che abbia attinenza diretta con la materia trattata da Debord è il
Daniel Joseph Boorstin (1914-2004) di The Image: A Guide to
Pseudo-events in America, del 1962.
Per il resto, silenzio
assordante su tutti coloro che hanno affrontato in epoca moderna
(novecentesca) le tematiche della spettacolarizzazione sociale,
dell'invasione consumistica, della massificazione nella comunicazione
con la nascita dei suoi nuovi media, della rappresentazione
immaginifica eteroindotta e sostitutiva della realtà,
dell'inflazione pubblicitaria, della falsa rappresentazione
(tele)visiva ecc.
Tralasciando il
contributo di studiosi ipernoti e funzionali per l'apologia del
sistema (valga per tutti Marshall McLuhan), resta il fatto che Debord
tace su almeno due studiosi radicali francesi che furoreggiavano in
campo filosofico e sociologico negli anni della sua maturazione
teorica: autori che conosceva bene e che avevano già elaborato
importanti contributi proprio sui temi essenziali della futura SdS.
Si tratta ovviamente di Henri Lefebvre (1901-1991) e di Edgar Morin
(n. 1921).
Al momento della stesura
della SdS, del primo erano usciti due volumi della
trilogia Critique de la vie quotidienne (1947, 1961, 1981).
E qui importa rilevare l'ampiezza di tematiche del secondo volume
pertinenti per il discorso debordiano, come la distinzione tra
bisogno e desiderio, la nuova configurazione del consumatore di
massa, la «colonizzazione della vita quotidiana» (espressione che
Lefebvre riprende dall'Internationale Situationiste n. 6/1961,
citando esplicitamente Debord) e molto altro. Lefebvre era stato
membro dell'IS e vi aveva esercitato una notevole influenza. Poi il
litigio e la separazione: ragion per cui Debord non volle riconoscere
il debito teorico gigantesco che aveva contratto con lui.
Non accennare a Morin in
un libro sulla spettacolarizzazione sociale è come non citare
Umberto Eco in un libro di antisemiotica. Anche in questo caso,
all'origine vi erano stati dissapori per le critiche che Morin, come
direttore della rivistaArguments (1957-1962), aveva rivolto
dapprima al gruppo di Socialisme ou Barbarie e poi agli
eredi raccolti nell'IS.
Da notare che l'autore
de L'esprit du temps (Grasset, 1962) all'epoca era già
considerato il padre nobile della sociologia delle comunicazioni di
massa, e comunque il principale studioso delle culture di massa: un
terreno - come oggetto di studio dell'antropologia della società
industriale - nel quale Debord affonda le mani, estraendone quei
frutti eversivi e antisistemici che erano invece mancati
nell'elaborazione moriniana. Il debito, comunque, restava e le
affinità tra i due sono state messe in rilievo più volte. Per es.
da studiosi come Christopher Lasch (1935-1994)3 o Anselm Jappe
(n. 1962)4.
Del resto è lo stesso
Debord che nel suo film Sur le passage de quelques personnes à
travers une assez courte unité de temps, del 1959, aveva preso a
prestito da Morin5 linguaggio e concetti nella
pubblicità detournée di un sapone in cui era fatta
apparire Anna Karina (futura celebre attrice e poi moglie di Jean-Luc
Godard) per esemplificare il discorso situazionista sul fenomeno
delle star (lo star system)6.
Altra complicanza è data
dall'assenza nella SdS di una polemica frontale (esplicita)
con la forma-partito. Non si parla del suo ruolo essenziale
nella formazione delle caste statali o variamente istituzionali,
distinte dalle caste burocratico-manageriali che produce lo sviluppo
economico del capitalismo. Eppure sono le caste partitiche che
incarnano più di chiunque altro la spettacolarità sociale,
traendone il massimo vantaggio.
Ciò non è più vero
unicamente per i regimi totalitari (lo stalinismo è ricordato da
Debord), ma investe globalmente i paesi industrialmente avanzati
(Italia in primis). Tra le feconde intuizioni debordiane è assente
il rapporto che lega la spettacolarizzazione della vita sociale alla
statalizzazione degli apparati (burocratici, sindacali, partitici,
culturali ecc.).
Più promettente a tale
riguardo è il discorso di Vaneigem quando definisce il processo di
specializzazione politica come «forma» d'integrazione nella logica
del sistema:
«Quando un politicante
si esprime in modo tonto, meschino o ingannevole in un discorso
pubblico… questa Forma, questa maniera d'essere e di reagire non
provengono unicamente da lui stesso, ma gli sono imposte
dall'esterno»7.
1 Così citerò
d'ora in avanti l'edizione de La società dello spettacolo che
pubblicai come Massari editore nel 2002 (a cura di Pasquale
Stanziale) e della quale è in circolazione la terza ristampa (del
2008).
2 Luca
Lupo, Filosofia della Serendipity, Guida, Napoli 2012, p. 30.
3 The Minimal Self:
Psychic Survival in Troubled Times, del 1984 [L'io minimo. La
mentalità della sopravvivenza in un'epoca di turbamenti,
Feltrinelli, 2004, p. 185].
4 Guy Debord.
Essai (édition revue et corrigée par l'auteur), Éditions
Denoël, Paris 2001, pp. 93-7 [manifestolibri, 2013].
5 Edgar Morin, Les
stars, Seuil, 1957, p. 111.
6 Guy
Debord, Œuvres, Gallimard, Paris 2006, p. 482-3. Cit. da
Gabriel Ferreira Zacarias, «La vedette, "représentation
spectaculaire de l'homme vivant"», Revue Ad Hoc, n. 1,
luglio 2012.
7 Raoul
Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove
generazioni, a cura di P. Stanziale, Massari editore, Bolsena 2004,
p. 113.