TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 21 febbraio 2019

Amadeo Bordiga visto dalla DC: un antistalinista coerente e coraggioso



Nonostante da decenni fosse lontano dalla scena politica, al momento della morte Amadeo Bordiga fu ricordato con rispetto da commentatori anche molto distanti dalle sue idee. E' il caso di questo articolo apparso su Il Popolo, organo centrale della Democrazia Cristiana.

Paolo Pinna

Bordiga, ovvero il dissenso proibito


Amadeo Bordiga, spentosi a 81 anni nell'abitazione di Formia dove si era riturato in rigorosa vita privata sin dal 1930 allorché, rimesso in libertà dal fascismo, aveva appreso che durante la propria relegazione al confino, i «dirigenti provvisori» del PCd'I lo avevano, senza possibilità di contraddittorio, espulso dal partito, fu il vero ideatore di un partito comunista in Italia. La sua scomparsa offre l'opportunità per alcune considerazioni su certo carattere permanente del partito comunista.

Sono sufficientemente note, almeno nelle loro linee di sviluppo, le vicissitudini talvolta paradossali attraverso cui questioni di strategia rivoluzionaria, strettamente connesse a precise opzioni ideologiche, condussero Bordiga ad una contrapposizione frontale con Gramsci e Togliatti, sino al provvedimento che doveva definitivamente estrometterlo dalla organizzazione e dalla vita stessa del partito ch'egli aveva fondato. Melanconica sorte, per colui che a Livorno, appena nove anni prima, aveva rotto gli indugi e al canto dell' Internazionale aveva abbandonato il teatro Goldoni, dove si celebrava il congresso socialista, per recarsi con i primi seguaci al teatro San Marco dove, con un fermo atto fideistico nell'imminenza di una rivoluzione proletaria in Italia, si procedette alla costituzione del nuovo movimento politico.

E' difficile stabilire, oggi, sino a qual punto egli sia rimasto rigorosamente coerente con la decisione di una volontaria apartheid, se è vero che taluni scritti apparsi ancora di recente, pur nell'anonimato dell'edizione, devono farsi risalire alla sua mano: recano essi, di volta in volta, aspri giudizi sui dirigenti comunisti che, in Russia ancor prima che in Italia, hanno avuto in braccio l'eredità della Rivoluzione d'Ottobre. Certamente, invece,  è rimasto vittima di quanto egli stesso era andato teorizzando, auspicando l'instaurazione di una ferrea disciplina, come può leggersi su l' Ordine Nuovo (21 giugno 1919) in una frase che ben rispecchia anche l'enfasi rivoluzionaria del tempo: «Il partito deve essere... il focolare della fede, il depositario della dottrina, il potere supremo che armonizza e conduce alla meta le forze organizzate e disciplinate», ragion per cui «il partito non può spalancare le porte all'invasione di nuovi aderenti, non abituati all'esercizio ... della disciplina».


Quando prefigurò il partito come l'insindacabile depositario della dottrina, probabilmente Bordiga non prevedeva che i dirigenti avrebbero fatalmente inclinato a identificare se stessi con l'ortodossia, con il partito. Certo è che, una volta enunciato così rigido assioma, sarebbe stato impossibile sottrarsi all'implacabile logica che ne discende. E infatti lo stesso Bordiga non poté far altro che assoggettarvisi.

Ancor meno nella sventura - d'altronde - egli avrebbe potuto disporre di strumenti e mezzi per opporsi. Per tre anni, durante il confino, era rimasto isolato dalle organizzazioni clandestine di base. Il fascismo aveva già ridotto anche il PCd'I ad una esigua, segreta attività «illegale». Non  esistevano dunque modi efficaci di opposizione. Ma anche per ciò l'espulsione si presenta ancor oggi, per taluni versi, come un provvedimento al limite del grottesco e si configura, al tempo stesso, in termini di autentica sopraffazione politica.

Probabilmente Bordiga avrebbe dovuto, facendo violenza al proprio temperamento uso fin dalla giovane età ad un'aperta, lineare opposizione alle classi agiate da cui egli discendeva, procedere con maggior cautela e circospezione, sapendo che Lenin già nel 1919 («L'estremismo»), riferendosi alla situazione italiana e al ruolo parlamentare di un partito rivoluzionario, aveva appuntato su di lui critiche di non poco conto, rilevando che «Bordiga e i suoi amici... non immaginano neppure una nuova utilizzazione del parlamentarismo e continuano a strepitare ripetendosi senza fine a proposito dell'utilizzazione vecchia, non bolscevica del parlamentarismo».

Erano rilievi di una brutalità strumentale che avrebbero dovuto suonare per lui come una precisa ammonizione al pari del famoso «punto 21» votato quello stesso anno dal II Congresso dell'Internazionale comunista, riunitosi in luglio a Mosca. Vi si legge istruttivamente: «Quei membri del partito che respingono... le condizioni e le tesi formulate dall'Internazionale comunista debbono essere espulsi dal partito».

Invece, anche in antitesi al conformismo di Gramsci e di Togliatti, Bordiga replicò che «tutto quanto i dirigenti dell'Internazionale dicono e fanno è materia di cui rivendichiamo il diritto di discutere».

Parole troppo nette, per un militante comunista. Il X Congresso , frattanto, sancendo il divieto del frazionismo, aveva decretato che il partito non sbaglia e che l'Internazionale neppure essa può sbagliare. Non importano i risvolti ideologici del nuovo assioma. Qui è sufficiente ricordare che spettò proprio a Luigi Longo, allora alfiere del movimento giovanile nella battaglia contro Bordiga, ribadire seccamente a quest'ultimo che «vi deve essere... una centrale che ordina a dei compagni costretti, dalla disciplina, a obbedire». Era il 17 luglio del 1925.


Preceduta da una serie di  "diktat" organizzativi nei confronti del gruppo dissidente, si giunse così all'espulsione, decretata dai dirigenti frattanto riparati all'estero, per aver Bordiga «sostenuto, difeso e fatto proprie le posizioni dell'opposizione trotskista... la quale conduce sistematicamente  la lotta... contro l'Unione sovietica».

Non pare dunque difficile ravvisare oggi nella vicenda politica di Amadeo Bordiga il singolare parallelismo con una situazione che ha caratterizzato recentemente la vita interna del partito comunista sino all'espulsione del gruppo Pintor-Natoli-Rossanda. Il raffronto con la vicenda de Il Manifesto sorge infatti immediato, sia per le configurazioni ideologiche del conflitto con il gruppo dirigente, sia per la conclusione cui la vicenda stessa è approdata.

Ieri l'accusa di trotskismo, oggi quella di maoismo; nell'un caso e nell'altro una rigida subordinazione alla strategia dell'Unione Sovietica. Allora Bordiga reclamava, come si è ricordato, il diritto di discutere le direttive del partito e della stessa Internazionale; il gruppo Pintor-Natoli-Rossanda, rivendicava oggi il diritto (e il dovere) di discutere la linea del partito e gli stessi orientamenti di Mosca, al di fuori dei restrittivi schemi dettati dai dirigenti in carica, che allora come oggi identificano se stessi con l'ortodossia e con il partito.

Né allora né oggi un vero metodo democratico ha consentito l'analisi e la ricerca critica. Come non ravvisare dunque in questa "costante", un dato permanente del modo di porsi del partito comunista rispetto alla società in cui opera, alle istituzioni ad ai suoi propri iscritti?

Il Popolo, 29 luglio 1970

(In ricordo di Sandro Saggioro e del sito "Avanti barbari!")