Si
è tenuto ieri nella Sala Rossa del Comune di Savona un incontro con
il professor Davide Conti autore di approfondite ricerche
sull'occupazione italiana nei Balcani e sui criminali di guerra
italiani. L'iniziativa si collocava nel quadro più complessivo del
“Giorno del Ricordo”. Di seguito la sintesi del nostro intervento
introduttivo.
Giorgio
Amico
Le foibe,
l'esodo e il silenzio della sinistra
Entrare
nel merito della questione delle foibe e dell'esodo degli italiani
dall'Istria e dalla Dalmazia non è facile, considerato l'uso
politico distorto che della questione è stato fatto a destra nonché
delle evidenti reticenze della sinistra ad affrontarlo in termini non
ideologici. Sicuramente l'intera questione dei confini orientali è
incomprensibile se non viene inserita in un contesto complessivo, se
si riduce a singoli episodi o ad un elenco di efferatezze e crudeltà
che rischiano però così di restare inspiegabili e di provare solo la
naturale propensione del genere umano alla crudeltà e alla
distruttività. Ma non di filosofia spicciola o di moralismo
interessato c'è bisogno, quanto di analisi storica priva del tabù
del politicamente corretto e i tempi sono più che maturi trattandosi
di avvenimenti ormai lontani nel tempo, almeno quanto basta a
garantire il necessario distacco. Insomma, non accusare, non
difendere, ma cercare di comprendere. Avendo ben chiaro che
comprendere non significa in alcun modo giustificare e che l'aver
patito ingiustizie non legittima a commetterne, anche se è lezione
eterna che il sangue chiama sangue, che la barbarie produce altra
barbarie secondo quel principio, enunciato da Junger nelle sue
riflessioni sulle atrocità della seconda guerra mondiale, che “chi
annienta arbitrariamente il suo nemico, non può aspettar clemenza
per se stesso, ed ecco allora che si formano leggi di lotta sempre
più dure”.
E
di annientamento arbitrario si può parlare a proposito della politica
fascista verso gli slavi della Venezia Giulia e delle questioni relative
al confine orientale e al contenzioso con il neonato regno di
Iugoslavia a partire dal famoso discorso del 1920 a Pola di Benito
Mussolini in cui il futuro “Duce del fascismo” esalta lo
squadrismo contro gli slavi “razza inferiore e barbara” che per
essere governata e disciplinata richiede una spietata “politica del
bastone”. Il libro di Davide Conti “L'occupazione italiana nei
Balcani” ha il merito grande di cancellare il mito degli italiani
“brava gente”, incapaci di crudeltà, per natura in grado di
essere soldati senza perdere la propria umanità, è di mostrare
invece il volto feroce di un'azione repressiva che fu prima
squadrista, poi poliziesca negli anni del regime e infine militare al
momento dell'invasione e dell'occupazione dell'Albania, della
Slovenia, del Montenegro e di rincalzo ai nazisti della Grecia. Una
storia tutta italiana, fino al libro di Conti mai raccontata, fatta
di stupri, di torture, di crudeli rappresaglie, di deportazioni di
massa (il Campo di Cairo Montenotte destinato agli slavi ne è solo
un piccolo esempio), di villaggi bruciati a decine, di migliaia di
morti.
Le
foibe, soprattutto quelle istriane dell'autunno 1943 rappresentano in
primo luogo la risposta iugoslava a questa ferocia, il trattamento
“senza clemenza” degli ex-occupanti fascisti. Un quadro ben delineato in un recentissimo studio dell'Istituto
regionale per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea
nel Friuli Venezia Giulia:
“Dopo
la capitolazione italiana dell’8 settembre, per poco più di un
mese la penisola istriana cadde per la maggior parte sotto il
controllo del movimento di liberazione croato (jugoslavo), che vi
applicò le pratiche di lotta correntemente adottate nel corso della
lotta di liberazione / guerra civile / rivoluzione in Jugoslavia.
Tali pratiche prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente
liberate, l’immediata eliminazione dei «nemici del popolo».
Questa era una categoria di origine bolscevica e staliniana
estremamente flessibile, che nel caso dell’Istria riguardava alcuni
segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai
partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi,
squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella
società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani
accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il
nuovo potere”.
Quanto
poi accadde con le stragi del maggio 1945 nella Venezia Giulia è
molto simile, ma rispetto al carattere prettamente antifascista dei
fatti istriani, ora si evidenzia anche una caratteristica
anti-italiana. Le motivazioni sono sempre politiche e rimandano alla
presa del potere e all'instaurazione di un regime modellato, a
partire dall'uso sistematico del terrore, su quello staliniano
dell'URSS degli anni Trenta, ma l'obiettivo diventa l'intera comunità
italiana, sbrigativamente assimilata nella sua
interezza al fascismo e alla sua crudele politica antislava. Fenomeno che non
sfuggì anche al segretario del Partito comunista italiano, Palmiro
Togliatti, che ne parlò, anche se con toni complessivamente
giustificativi, in un articolo su l'Unità del 2 febbraio 1947:
“Chi
vorrà negare che le terre istriane siano state il teatro, negli
ultimi decenni, di un'ampia e spesso inumana lotta nazionale? Abbiamo
noi dimenticato le atrocità fasciste contro gli slavi? Ignoriamo noi
che la guerra partigiana degli slavi non poteva, in quelle
circostanze, non prendere essa pure il colorito nazionale, anzi, per
essere più precisi, il colorito talora persino della rappresaglia
nazionale?”
Anche
su questo punto il documento già citato dell'ISREC di Trieste aiuta a fare
chiarezza, facendo anche una comparazione fra le stragi giuliane e le
violenze nell'Italia del dopoguerra:
“Si
trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici
del potere politico jugoslavo fin dall’autunno del 1944,
organizzata e gestita da organi dello stato (in particolare
dall’Ozna, la polizia politica). Sta in questo la sua differenza
sostanziale con l’ondata di violenza politica del dopoguerra
nell’Italia settentrionale. Quest’ultima infatti può venir
interpretata come resa dei conti di una guerra civile iniziata negli
anni ’20 ed anche come tentativo di alcuni segmenti del
partigianato comunista di influire sui termini della lotta politica
in Italia, ma non era inserita in alcun disegno strategico di natura
rivoluzionaria, perché il PCI in Italia non doveva fare la
rivoluzione. Viceversa, nella Venezia Giulia come nel resto della
Jugoslavia, quella violenza era strumento fondamentale per il
successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime.
Nei
territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei
confronti di chi era accusato di crimini contro i popoli sloveno e
croato (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle
istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi);
aveva finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad
esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla
Jugoslavia (membri dei CLN, combattenti delle formazioni partigiane
italiane che rifiutavano di porsi agli ordini dei comandi sloveni,
autonomisti fiumani); ed aveva finalità intimidatorie nei confronti
della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo
ordine.”
Il
fenomeno tragico e di massa dell'esodo degli italiani dalla Dalmazia
e dall'Istria è fenomeno qualitativamente diverso e si inserisce in
una più generale risistemazione degli assetti continentali dopo la
fine della guerra. In un'Europa “continente selvaggio”, che Lo
storico inglese Keith Lowe ha ricostruito a fondo in un bellissimo (e
terribile) studio uscito in Italia nel 2013 per Laterza.
Lowe
prende la Iugoslavia, a cui dedica un capitolo, a simbolo di “una
violenza pan-europea” che vide solo nel caso della Germania ben
dodici milioni di rifugiati (di contro ai trecentomila italiani)
espulsi dalla Prussia Orientale e dalla Pomerania diventate polacche
e dai Sudeti cecoslovacchi. E conclude:
“Queste
operazioni si stavano verificando in tutta Europa. Gli ungheresi
furono espulsi anche dalla Romania, e viceversa. I cham albanesi
furono espulsi dalla Grecia; i rumeni furono espulsi dall'Ucraina;
gli italiani furono espulsi dalla Iugoslavia. Un quarto di milione di
finlandesi furono costretti a lasciare la Carelia occidentale, quando
l'area fu ceduta all'Unione Sovietica alla fine della guerra. Ancora
nel 1950 la Bulgaria cominciò ad espellere circa 140mila turchi e
zingari attraverso il confine con la Turchia. E la lista continua”.
Si
trattò come qualcuno ripete di una pulizia etnica? Nel caso
dell'Italia pensiamo di no, riteniamo invece che più che in termini etnici la fuga in massa degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia vada letta in termini politici. Perché l'esodo non fu la
conseguenza immediata e diretta dell'arrivo dei partigiani di Tito e
del terrore che come abbiamo visto si creò allora, ma si consumò
soprattutto in due fasi: nel 1947 dopo il Trattato di pace e
l'annessione di gran parte della Venezia Giulia alla Iugoslavia e
dopo il Memorandum di Londra del 1954 che assegnava Trieste
all'Italia e la cosiddetta Zona B alla Iugoslavia, quando il terrore
delle foibe era ormai un fatto, per quanto tragico e vivo nella
memoria, passato. La politica ufficiale iugoslava non fu quella
dell'espulsione di massa degli italiani, ma quella della
pacificazione, addirittura della “fratellanza italo-slava”. Ma
allora, perché gli italiani fuggirono in massa almeno fino al 1959?
Ancora una volta risulta illuminante la ricostruzione fatta
dall'ISREC di Trieste che riprendiamo per esteso:
“La
politica ufficiale del regime comunista jugoslavo nei confronti degli
italiani fu quella della «fratellanza italo-slava». Si
trattava di una politica di integrazione selettiva. In primo luogo,
non si rivolgeva a tutti quelli che si consideravano italiani, ma
solo agli italiani etnici, considerati minoranza nazionale legittima.
Gli italiani di origine slava (anche remota) dovevano venir
ricondotti alla loro nazionalità originaria. In secondo luogo, si
rivolgeva solo agli italiani «onesti e buoni», cioè quelli
disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la
costruzione del socialismo. Gli altri erano considerati «residui del
fascismo», «imperialisti», «sciovinisti» e «nemici del popolo»,
ai quali era riservata la repressione. In terzo luogo, aveva per
interlocutore le «masse popolari», proletarie e contadine e non i
«borghesi», per i quali non vi era posto in uno stato socialista.
La politica
della «fratellanza» quindi era limitata ad una minoranza della
componente italiana, mentre la maggioranza non rientrava nei suoi
parametri di accettabilità. Per di più, tale politica,
elaborata dai vertici del partito, venne gestita sul campo dalla
classe dirigente locale, formatasi durante la guerra di liberazione
contro tedeschi ed italiani, considerati questi ultimi un tutt’uno
con i fascisti. Si trattava quindi di una classe dirigente
politicamente e nazionalmente estremista, propensa all’autoritarismo
ed alla repressione, diffidente per principio nei confronti degli
italiani e quindi del tutto inadatta a gestire una politica di
mediazione.
Ne seguì
una serie infinita di abusi, prevaricazioni e violenze, che colpirono
duramente quanti dalla «fratellanza» erano esclusi per le ragioni
più sopra indicate, ma anche individui e gruppi che potevano
rientrarvi, come i ceti popolari urbani non proletari ed i piccoli
coltivatori. Tutti questi soggetti, chi prima chi dopo,
finirono con il ritenere il regime di
Tito come un nemico da cui difendersi, perché intento a distruggere
la loro identità e compromettere le loro condizioni di vita.
I limiti
intrinseci alla politica della «fratellanza», sommandosi alle sue
modalità di applicazione, provocarono una situazione di
invivibilità, che colpì in primo luogo le comunità italiane, ma
suscitò disaffezione verso il regime anche in alcuni ambienti slavi,
soprattutto croati, che durante la guerra avevano attivamente
sostenuto il movimento di liberazione e la lotta per l’annessione
alla Jugoslavia”.
Una
analisi che ha un preciso riscontro nelle fonti comuniste italiane
del tempo che, dopo la rottura violentissima di Tito con Stalin del
1948 e la scomunica dei russi che definirono “banda di criminali
fascisti” i dirigenti iugoslavi, non hanno più (almeno fino alla riconciliazione successiva) alcuna remora
ideologica o politica a denunciare ciò che accade agli italiani di
Iugoslavia. E così sul numero 10 di Rinascita nell'autunno 1949 si
può leggere di una “repressione antidemocratica” che ha
“carattere nettamente anti-italiano” e addirittura ne l'Unità
del 26 novembre 1949 di “terrore nella Zona B”.
Così come Gianni Rodari, poi grande autore di fiabe bellissime, allora giornalista all'Unità in una serie di articoli dell'aprile 1950 denuncerà la “snazionalizzazione” in corso di
quei territori, addirittura “pogrom contro gli italiani che nulla
hanno da invidiare a quelli organizzati dai nazisti contro gli ebrei” e che hanno lo scopo di “far evacuare il maggior numero possibile
degli abitanti”.
Per
concludere, una tragedia che il silenzio durato oltre mezzo secolo non
ha fatto che esacerbare. Un silenzio che fu, crediamo, uno dei motivi
che rendevano ancora negli anni Settanta per molti italiani poco
credibile la proposta riformatrice e sostanzialmente
social-democratica del PCI. Un silenzio che in parte si spiega con la
situazione internazionale di allora, per cui forse davvero, come
qualcuno ha scritto, Togliatti non poteva realisticamente
muoversi molto diversamente da come fece, ma che oggi, nel momento in
cui quei fatti non sono più materia di lotta politica ma sono
diventati storia, non ha più alcuna ragione di mantenersi. Anzi,
crediamo fermamente che fare i conti senza paura con quel passato
sia la premessa indispensabile per ridefinire la prospettiva di una
sinistra credibile per l'oggi.
Savona,
16 febbraio 2019