TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 17 febbraio 2019

Le foibe, l'esodo e il silenzio della sinistra



Si è tenuto ieri nella Sala Rossa del Comune di Savona un incontro con il professor Davide Conti autore di approfondite ricerche sull'occupazione italiana nei Balcani e sui criminali di guerra italiani. L'iniziativa si collocava nel quadro più complessivo del “Giorno del Ricordo”. Di seguito la sintesi del nostro intervento introduttivo.

Giorgio Amico

Le foibe, l'esodo e il silenzio della sinistra

Entrare nel merito della questione delle foibe e dell'esodo degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia non è facile, considerato l'uso politico distorto che della questione è stato fatto a destra nonché delle evidenti reticenze della sinistra ad affrontarlo in termini non ideologici. Sicuramente l'intera questione dei confini orientali è incomprensibile se non viene inserita in un contesto complessivo, se si riduce a singoli episodi o ad un elenco di efferatezze e crudeltà che rischiano però così di restare inspiegabili e di provare solo la naturale propensione del genere umano alla crudeltà e alla distruttività. Ma non di filosofia spicciola o di moralismo interessato c'è bisogno, quanto di analisi storica priva del tabù del politicamente corretto e i tempi sono più che maturi trattandosi di avvenimenti ormai lontani nel tempo, almeno quanto basta a garantire il necessario distacco. Insomma, non accusare, non difendere, ma cercare di comprendere. Avendo ben chiaro che comprendere non significa in alcun modo giustificare e che l'aver patito ingiustizie non legittima a commetterne, anche se è lezione eterna che il sangue chiama sangue, che la barbarie produce altra barbarie secondo quel principio, enunciato da Junger nelle sue riflessioni sulle atrocità della seconda guerra mondiale, che “chi annienta arbitrariamente il suo nemico, non può aspettar clemenza per se stesso, ed ecco allora che si formano leggi di lotta sempre più dure”.

E di annientamento arbitrario si può parlare a proposito della politica fascista verso gli slavi della Venezia Giulia e delle questioni relative al confine orientale e al contenzioso con il neonato regno di Iugoslavia a partire dal famoso discorso del 1920 a Pola di Benito Mussolini in cui il futuro “Duce del fascismo” esalta lo squadrismo contro gli slavi “razza inferiore e barbara” che per essere governata e disciplinata richiede una spietata “politica del bastone”. Il libro di Davide Conti “L'occupazione italiana nei Balcani” ha il merito grande di cancellare il mito degli italiani “brava gente”, incapaci di crudeltà, per natura in grado di essere soldati senza perdere la propria umanità, è di mostrare invece il volto feroce di un'azione repressiva che fu prima squadrista, poi poliziesca negli anni del regime e infine militare al momento dell'invasione e dell'occupazione dell'Albania, della Slovenia, del Montenegro e di rincalzo ai nazisti della Grecia. Una storia tutta italiana, fino al libro di Conti mai raccontata, fatta di stupri, di torture, di crudeli rappresaglie, di deportazioni di massa (il Campo di Cairo Montenotte destinato agli slavi ne è solo un piccolo esempio), di villaggi bruciati a decine, di migliaia di morti.


Le foibe, soprattutto quelle istriane dell'autunno 1943 rappresentano in primo luogo la risposta iugoslava a questa ferocia, il trattamento “senza clemenza” degli ex-occupanti fascisti. Un quadro ben delineato in un recentissimo studio dell'Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia:

Dopo la capitolazione italiana dell’8 settembre, per poco più di un mese la penisola istriana cadde per la maggior parte sotto il controllo del movimento di liberazione croato (jugoslavo), che vi applicò le pratiche di lotta correntemente adottate nel corso della lotta di liberazione / guerra civile / rivoluzione in Jugoslavia. Tali pratiche prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l’immediata eliminazione dei «nemici del popolo». Questa era una categoria di origine bolscevica e staliniana estremamente flessibile, che nel caso dell’Istria riguardava alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi, squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere”.


Quanto poi accadde con le stragi del maggio 1945 nella Venezia Giulia è molto simile, ma rispetto al carattere prettamente antifascista dei fatti istriani, ora si evidenzia anche una caratteristica anti-italiana. Le motivazioni sono sempre politiche e rimandano alla presa del potere e all'instaurazione di un regime modellato, a partire dall'uso sistematico del terrore, su quello staliniano dell'URSS degli anni Trenta, ma l'obiettivo diventa l'intera comunità italiana, sbrigativamente assimilata nella sua interezza al fascismo e alla sua crudele politica antislava. Fenomeno che non sfuggì anche al segretario del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, che ne parlò, anche se con toni complessivamente giustificativi, in un articolo su l'Unità del 2 febbraio 1947:

Chi vorrà negare che le terre istriane siano state il teatro, negli ultimi decenni, di un'ampia e spesso inumana lotta nazionale? Abbiamo noi dimenticato le atrocità fasciste contro gli slavi? Ignoriamo noi che la guerra partigiana degli slavi non poteva, in quelle circostanze, non prendere essa pure il colorito nazionale, anzi, per essere più precisi, il colorito talora persino della rappresaglia nazionale?”

Anche su questo punto il documento già citato dell'ISREC di Trieste aiuta a fare chiarezza, facendo anche una comparazione fra le stragi giuliane e le violenze nell'Italia del dopoguerra:

Si trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici del potere politico jugoslavo fin dall’autunno del 1944, organizzata e gestita da organi dello stato (in particolare dall’Ozna, la polizia politica). Sta in questo la sua differenza sostanziale con l’ondata di violenza politica del dopoguerra nell’Italia settentrionale. Quest’ultima infatti può venir interpretata come resa dei conti di una guerra civile iniziata negli anni ’20 ed anche come tentativo di alcuni segmenti del partigianato comunista di influire sui termini della lotta politica in Italia, ma non era inserita in alcun disegno strategico di natura rivoluzionaria, perché il PCI in Italia non doveva fare la rivoluzione. Viceversa, nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia, quella violenza era strumento fondamentale per il successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime.
Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei confronti di chi era accusato di crimini contro i popoli sloveno e croato (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla Jugoslavia (membri dei CLN, combattenti delle formazioni partigiane italiane che rifiutavano di porsi agli ordini dei comandi sloveni, autonomisti fiumani); ed aveva finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo ordine.”


Il fenomeno tragico e di massa dell'esodo degli italiani dalla Dalmazia e dall'Istria è fenomeno qualitativamente diverso e si inserisce in una più generale risistemazione degli assetti continentali dopo la fine della guerra. In un'Europa “continente selvaggio”, che Lo storico inglese Keith Lowe ha ricostruito a fondo in un bellissimo (e terribile) studio uscito in Italia nel 2013 per Laterza.

Lowe prende la Iugoslavia, a cui dedica un capitolo, a simbolo di “una violenza pan-europea” che vide solo nel caso della Germania ben dodici milioni di rifugiati (di contro ai trecentomila italiani) espulsi dalla Prussia Orientale e dalla Pomerania diventate polacche e dai Sudeti cecoslovacchi. E conclude:

Queste operazioni si stavano verificando in tutta Europa. Gli ungheresi furono espulsi anche dalla Romania, e viceversa. I cham albanesi furono espulsi dalla Grecia; i rumeni furono espulsi dall'Ucraina; gli italiani furono espulsi dalla Iugoslavia. Un quarto di milione di finlandesi furono costretti a lasciare la Carelia occidentale, quando l'area fu ceduta all'Unione Sovietica alla fine della guerra. Ancora nel 1950 la Bulgaria cominciò ad espellere circa 140mila turchi e zingari attraverso il confine con la Turchia. E la lista continua”.


Si trattò come qualcuno ripete di una pulizia etnica? Nel caso dell'Italia pensiamo di no, riteniamo invece che più che in termini etnici la fuga in massa degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia vada letta in termini politici. Perché l'esodo non fu la conseguenza immediata e diretta dell'arrivo dei partigiani di Tito e del terrore che come abbiamo visto si creò allora, ma si consumò soprattutto in due fasi: nel 1947 dopo il Trattato di pace e l'annessione di gran parte della Venezia Giulia alla Iugoslavia e dopo il Memorandum di Londra del 1954 che assegnava Trieste all'Italia e la cosiddetta Zona B alla Iugoslavia, quando il terrore delle foibe era ormai un fatto, per quanto tragico e vivo nella memoria, passato. La politica ufficiale iugoslava non fu quella dell'espulsione di massa degli italiani, ma quella della pacificazione, addirittura della “fratellanza italo-slava”. Ma allora, perché gli italiani fuggirono in massa almeno fino al 1959? Ancora una volta risulta illuminante la ricostruzione fatta dall'ISREC di Trieste che riprendiamo per esteso:

La politica ufficiale del regime comunista jugoslavo nei confronti degli italiani fu quella della «fratellanza italo-slava». Si trattava di una politica di integrazione selettiva. In primo luogo, non si rivolgeva a tutti quelli che si consideravano italiani, ma solo agli italiani etnici, considerati minoranza nazionale legittima. Gli italiani di origine slava (anche remota) dovevano venir ricondotti alla loro nazionalità originaria. In secondo luogo, si rivolgeva solo agli italiani «onesti e buoni», cioè quelli disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo. Gli altri erano considerati «residui del fascismo», «imperialisti», «sciovinisti» e «nemici del popolo», ai quali era riservata la repressione. In terzo luogo, aveva per interlocutore le «masse popolari», proletarie e contadine e non i «borghesi», per i quali non vi era posto in uno stato socialista.
La politica della «fratellanza» quindi era limitata ad una minoranza della componente italiana, mentre la maggioranza non rientrava nei suoi parametri di accettabilità.  Per di più, tale politica, elaborata dai vertici del partito, venne gestita sul campo dalla classe dirigente locale, formatasi durante la guerra di liberazione contro tedeschi ed italiani, considerati questi ultimi un tutt’uno con i fascisti. Si trattava quindi di una classe dirigente politicamente e nazionalmente estremista, propensa all’autoritarismo ed alla repressione, diffidente per principio nei confronti degli italiani e quindi del tutto inadatta a gestire una politica di mediazione.
Ne seguì una serie infinita di abusi, prevaricazioni e violenze, che colpirono duramente quanti dalla «fratellanza» erano esclusi per le ragioni più sopra indicate, ma anche individui e gruppi che potevano rientrarvi, come i ceti popolari urbani non proletari ed i piccoli coltivatori. Tutti questi soggetti, chi prima chi dopo, finirono con il ritenere il regime di Tito come un nemico da cui difendersi, perché intento a distruggere la loro identità e compromettere le loro condizioni di vita.
I limiti intrinseci alla politica della «fratellanza», sommandosi alle sue modalità di applicazione, provocarono una situazione di invivibilità, che colpì in primo luogo le comunità italiane, ma suscitò disaffezione verso il regime anche in alcuni ambienti slavi, soprattutto croati, che durante la guerra avevano attivamente sostenuto il movimento di liberazione e la lotta per l’annessione alla Jugoslavia”.


Una analisi che ha un preciso riscontro nelle fonti comuniste italiane del tempo che, dopo la rottura violentissima di Tito con Stalin del 1948 e la scomunica dei russi che definirono “banda di criminali fascisti” i dirigenti iugoslavi, non hanno più (almeno fino alla riconciliazione successiva) alcuna remora ideologica o politica a denunciare ciò che accade agli italiani di Iugoslavia. E così sul numero 10 di Rinascita nell'autunno 1949 si può leggere di una “repressione antidemocratica” che ha “carattere nettamente anti-italiano” e addirittura ne l'Unità del 26 novembre 1949 di “terrore nella Zona B”. Così come Gianni Rodari, poi grande autore di fiabe bellissime, allora giornalista all'Unità in una serie di articoli dell'aprile 1950 denuncerà la “snazionalizzazione” in corso di quei territori, addirittura “pogrom contro gli italiani che nulla hanno da invidiare a quelli organizzati dai nazisti contro gli ebrei” e che hanno lo scopo di “far evacuare il maggior numero possibile degli abitanti”.

Per concludere, una tragedia che il silenzio durato oltre mezzo secolo non ha fatto che esacerbare. Un silenzio che fu, crediamo, uno dei motivi che rendevano ancora negli anni Settanta per molti italiani poco credibile la proposta riformatrice e sostanzialmente social-democratica del PCI. Un silenzio che in parte si spiega con la situazione internazionale di allora, per cui forse davvero, come qualcuno ha scritto, Togliatti non poteva realisticamente muoversi molto diversamente da come fece, ma che oggi, nel momento in cui quei fatti non sono più materia di lotta politica ma sono diventati storia, non ha più alcuna ragione di mantenersi. Anzi, crediamo fermamente che fare i conti senza paura con quel passato sia la premessa indispensabile per ridefinire la prospettiva di una sinistra credibile per l'oggi.

Savona, 16 febbraio 2019