Nel 1998 Antonio
Moscato scrisse per Inprecor un corposo articolo sul biennio 68-69 in
Italia. Nel 2002 il testo venne ripreso e aggiornato. Ne proponiamo
un paragrafo.
Antonio Moscato
Le lotte del 1968 e la
svolta sindacale dell'autunno caldo
Un anno prima della data
d’inizio dell’Autunno caldo la lotta contro le “gabbie
salariali” che penalizzavano i salari nel sud, raggiunge una
straordinaria forza di mobilitazione e spazza via un’altra leggenda
diffusa dai riformisti: “dobbiamo moderare le nostre rivendicazioni
perché i lavoratori del sud sono arretrati, sono influenzati dalla
destra, non lottano…”
Per piegare il padronato
ci vorranno in molte province ben 14 giorni interi di sciopero e
quindi di decurtazione di un salario già modestissimo; la mancanza
di strutture sindacali di fabbrica in quasi tutto il sud rendeva
infatti impossibile ogni forma di sciopero articolato o di poche ore,
e imponeva il blocco totale della fabbrica dall’esterno per 24 ore
con picchetti formati da operai di altre fabbriche, e soprattutto da
militanti di gruppi rivoluzionari. Nel corso di quella lotta si
gettarono le basi per ricostruire gli organismi sindacali distrutti
da una repressione pluridecennale, ed emersero anche nel Mezzogiorno
nuove generazioni combattive. Alcuni scioperi nazionali a sostegno
della lotta del mezzogiorno cementarono una nuova unità tra nord e
sud, facilitata d’altra parte dalla massiccia presenza di
lavoratori meridionali nelle fabbriche del nord.
Tuttavia anche nel sud
sintomi importanti di una crescita della combattività operaia si
erano avuti anche in precedenza in alcune lotte aziendali, in genere
come risposta a una provocazione aziendale (è il caso delle OMECA di
Reggio Calabria alla fine del 1967, dell’ATI e delle Fucine
Meridionali di Bari nell’estate 1968). Dopo l’esperienza
galvanizzante della lotta contro le gabbie salariali, si
moltiplicarono le lotte di fabbriche anche piccole per ottenere
l’elezione della commissione interna, e qualche aumento salariale.
Per piegare la resistenza tenace dei padroni fu necessario in genere
il blocco totale dello stabilimento dall’esterno, a volte di due o
tre settimane, ovviamente possibile solo ottenendo la solidarietà
concreta dei lavoratori di altre fabbriche della zona o dello stesso
settore produttivo. In alcuni casi anche al sud vi furono vertenze su
piattaforme avanzate: ad esempio al Pignone Sud di Bari, uno
stabilimento di oltre 1000 tra operai e impiegati del gruppo ENI,
nell’aprile 1969 fu fatto saltare il cottimo con una lotta tenace
che strappò anche il diritto di assemblea in fabbrica. Per regolare
le prime assemblee, molto caotiche, fu eletta una “presidenza”
basata su delegati di reparto revocabili, che di fatto fu uno dei
primi Consigli di fabbrica in Italia.
E’ in questo quadro che
si colloca la vicenda contrattuale del 1969, che assume una
straordinaria importanza per la sincronizzazione del rinnovo dei
contratti delle maggiori categorie dell’industria, che anche per le
ottuse resistenze del padronato erano stati rinviati fino a
coincidere negli stessi mesi del 1969 diventando quel grande
avvenimento politico ricordato come l’Autunno caldo. Si mobilitò
un numero senza precedenti di lavoratori, proprio grazie alla
concretezza delle piattaforme, che avevano al centro consistenti
aumenti salariali uguali per tutti, la riduzione d’orario a 40 ore
e la parità normativa tra operai e impiegati.
Quello che è meno noto è
che quelle piattaforme furono il frutto di una battaglia di minoranze
consistenti e decise, che provocarono il capovolgimento
dell’atteggiamento delle burocrazie sindacali. Basti pensare che
nel VII Congresso della CGIL, che si tenne a Livorno dal 16 al 21
giugno 1969, tutte le proposte che di lì a poco più di un mese
sarebbero state raccolte dai principali sindacati di categoria furono
respinte o rinviate a tempi futuri. Il segretario generale Agostino
Novella aveva ad esempio esplicitamente respinto nella sua relazione
“ogni forma astratta di egualitarismo salariale” (cioè gli
aumenti uguali per tutti rivendicati dai rivoluzionari), e aveva
rinviato le 40 ore a tempi futuri, proponendo per giunta che
dovessero “articolarsi secondo le situazioni specifiche” (cioè,
in parole povere, dove la forza operaia è troppo grande e i padroni
sono disposti a concessioni, va bene, gli altri si arrangino). Ogni
eventuale riduzione d’orario soprattutto avrebbe dovuto “anche
prendere in alcuni casi forme diverse, strutture diverse”. Il
progetto era spezzettare e lasciar disperdere la forza operaia.
Anche Vittorio Foa, che
rappresentava allora il PSIUP, e più in generale la “sinistra
sindacale”, evitava accuratamente in quel Congresso di prendere
posizione sulla richiesta semplicissima (e per questo mobilitante)
degli aumenti uguali per tutti e della riduzione secca e immediata
d’orario. Molte voci (dai metalmeccanici di Brescia, dai
siderurgici, dai chimici) rivendicavano la riduzione immediata alle
40 ore e anzi a 36 ore per siderurgici, chimici e in genere i settori
con forte nocività ambientale, ma la “Commissione sindacale”
preposta alle piattaforme insisteva sul fatto che le 40 ore
settimanali dovevano essere realizzate “anche gradualmente”,
eufemismo per dire semplicemente che dovevano essere introdotte solo
gradualmente e lentamente, come nei contratti precedenti (nel 1966 si
era ottenuta la riduzione di un’ora in tre anni, mezz’ora nel
novembre 1968 e mezz’ora nel maggio 1969, con nessun effetto
diretto sull’occupazione).
La logica della
frammentazione della forza operaia e dello scaglionamento della
riduzione d’orario per concedere al padronato di prepararsi al suo
riassorbimento, come è noto saltò. Nelle lotte aziendali di cui
abbiamo appena parlato, non solo si erano ottenuti importanti
successi normativi e salariali (spesso inversamente proporzionali per
attenuare le differenze), ma in molte aziende importanti erano emerse
nuove direzioni sindacali di fatto, in genere ancora formalmente
all’interno dei sindacati confederali, ma contrapposte alla loro
linea di collaborazione di classe.
Alla fine di luglio del
1969 una grande assemblea si riunì al Palasport di Torino per
concordare l’atteggiamento dei rivoluzionari nei contratti e per
regolare altre questioni (ad esempio lì si consumò la rottura
definitiva tra il gruppo dirigente della nascente Lotta Continua e
Potere Operaio). La quasi totalità degli interventi erano
caratterizzati da uno schematismo estremista che escludeva ogni
possibilità di un recupero di quelli che venivano definiti gli
“obiettivi operai” da parte delle burocrazie sindacali, e dava
per liquidato definitivamente il PCI.
Chi proponeva un’analisi
più realista fu accolto freddamente e persino fischiato quando
diceva che gli “obiettivi operai” che tutti proponevamo non erano
veramente “incompatibili con il sindacato”, come si affermava, e
che quindi la burocrazia poteva anche farli suoi. D’altra parte a
degnarsi di leggere gli organi dei partiti riformisti si potevano
cogliere i sintomi di un imminente mutamento, che avvenne già nello
stesso fine settimana in cui si riuniva l’assemblea di Torino: le
assemblee dei delegati metalmeccanici e chimici raccoglievano la
spinta partita dalle avanguardie delle fabbriche più politicizzate.
Erano passate appena sei settimane dal Congresso della CGIL e la
linea decisa in quell’alto consesso veniva bruscamente cambiata.
I burocrati si erano
“convertiti”? Erano stati messi formalmente in minoranza? Nulla
di tutto questo. Ma alcuni clamorosi insuccessi dei vertici sindacali
nelle assemblee di alcune fabbriche importanti, avevano fatto capire
che non avevano più davanti dei gruppetti ideologizzati e staccati
dalla classe, ma quadri operai maturi e stanchi dei compromessi. In
particolare l’assemblea della Borletti al Cinema Nazionale di
Milano (non si era ancora riconquistato il diritto di assemblea in
fabbrica) aveva respinto quasi all’unanimità la piattaforma
ufficiale del sindacato, votando per i forti aumenti uguali per
tutti, le 40 ore subito e la parità completa e immediata
operai-impiegati.
I vertici sindacali, pur
avendo ampi settori di operai meno politicizzati che li seguivano, e
pur non essendo vincolati da quelle assemblee che avevano convocato
come “consultive”, capirono che se volevano recuperare il
controllo della classe operaia non dovevano lasciar crescere
un’opposizione di quel tipo. Così i contratti ebbero finalmente
una piattaforma pagante e consistente, e mobilitarono milioni di
lavoratori, e per il momento le minoranze rivoluzionarie che avevano
proposto quegli obiettivi restarono spiazzate da quella giravolta. Le
loro critiche ai vertici non potevano essere comprese (e non erano a
volte neppure conosciute) dai milioni di lavoratori entrati per la
prima volta in lotta e che erano contenti che “il sindacato”
proponesse una lotta così concreta, senza sapere come e per merito
di chi ci si era arrivati. Il prestigio recuperato consentì poi ai
vertici di firmare un accordo di compromesso, che scaglionava parte
delle conquiste nell’arco dei tre anni.
Il 1969 in Italia è
diventato così l’anno dell’ondata operaia. Ci fu allora una
discussione se si trattasse di una vera situazione rivoluzionaria o
prerivoluzionaria, con opinioni molto diverse. In ogni caso va detto
che nei due anni precedenti, che pure non erano stati tranquilli,
c’erano state complessivamente 142 milioni ore di sciopero, in
quell’anno ben 302 milioni, di cui 232 nell’industria (contro 785
milioni dei due anni precedenti).
(Dal sito:
antoniomoscato.altervista.org)