Nel romanzo Lorenzo Benoni, splendido affresco della Liguria risorgimentale,
Giovanni Ruffini racconta nei dettagli la sua iniziazione alla
Carboneria.
Giovanni Ruffini
L'iniziazione alla
Carboneria
I mesi passavano:
l'autunno aveva ceduto il luogo all'inverno, le noie della vita
universitaria erano sottentrate ai dolci ozi della campagna, ed io
stavo sempre aspettando. Nessuna notizia sul grande affare ricevevo
né da Cesare né da Fantasio [con questo nome nel romanzo è
raffigurato Giuseppe Mazzini – nota nostra]: appena a quando a
quando una parola d'incoraggiamento.
Ultimamente però
Fantasio aveva desiderato di sapere quanti denari avessi messo da
parte, avvertendomi di cambiare l'argento in oro e di portarlo sempre
meco «perché» diceva «tu puoi esser chiamato da un momento
all'altro, e farai bene a tenerti pronto all'appello per quando l'ora
sonerà». Ripetè quest'ultima frase diverse volte e vi fece una
particolare sottolineatura. Eravamo in mezzo al carnevale, e la
follia agitava molto allegramente i suoi campanelli; dappertutto
danze e banchetti.
«Si va stanotte al
veglione?» mi disse Cesare la mattina del martedì innanzi il
giovedì grasso: «Io ho un appuntamento per questa sera ma circa la
mezzanotte; possiamo vederci là, se ti piace». Fissammo la sala,
ove ci saremmo trovati. Veglione è il nome di un pubblico ballo nel
mondo elegante, che si fa nel saloncino del teatro Carlo Felice.
La folla era molta, e il
trattenimento animatissimo. Fuori pioveva e faceva un gran freddo:
ragion di più perché la folla crescesse a godervi un caldo
dilettevole. Tutto mi pareva bello, e ogni volto allegro e contento;
numerose erano le maschere, i travestimenti generalmente di buon
gusto, ed alcuni anche magnifici. Erano le undici e mezzo passate: mi
rimaneva ancora un'altra mezz'ora per fare un giro nella sala da
ballo (…) osservando l'onda animata e di tutti i colori che mi
passava dinanzi. Di tratto in tratto qualche maschera gridava il mio
nome, e in atto di minaccia scherzosa alzava il dito contro di me.
Due domino neri si fermarono sulla porta e guardarono attorno in atto
di cercare qualcuno, poi si avvicinarono a me.
Il più alto dei due mi
chiamò a nome e mi disse: «Che state qui facendo solo?».
«Osservo i matti, come
vedete».
«Forse aspettate
qualcuno?» soggiunse il più piccolo, che, quantunque mascherato da
donna, pure si vedeva bene che era un uomo.
«Aspetto appunto
qualcuno».
«Qualche signora,
scommetterei», continuò il più piccolo.
«In ogni caso» risposi
io «una signora con baffi neri».
«Che!Una bellissima
bionda!La conosco», ripigliò il più alto.
«Se è così, voi ne
sapete più di me».
«Io so il nome e ve lo
dirò in un orecchio». Il più alto domino, piegandosi, mi sussurrò
all'orecchio queste parole:
«L'ora è sonata!».
Io detti in una scossone
come toccato da una scintilla elettrica e dissi, alzandomi:
«Finalmente!Son pronto».
«Dunque seguiteci».
Attraversando le sale
affollate, scesero le scale e giunsero nella strada. Io li seguivo
dappresso, ed entrammo in un vicolo oscuro, dove le mie guide si
fermarono: «Vi domando scusa» disse il più alto «ma è necessario
che siate bendato».
Accennai di sì e mi fu
legato un fazzoletto alla testa. Il tempo era umido, freddo e scuro,
e tutti eravamo avvolti nel mantello. Secondo l'invito che me ne fu
fatto, m'imbacuccai la faccia col bavero del mio. Fui preso di qua e
di là a braccetto, e così camminammo in silenzio ora a destra, ora a sinistra, e qualche
volta, a quanto mi parve, tornando indietro. Due persone, per quello
che potei giudicare dal calpestio, ci seguivano a pochi passi.
Finalmente ci fermammo, senza che potessi punto raccapezzarmi dove ci
trovassimo. Sentii girare la chiave in una toppa, entrammo e salimmo
due scale. Una porta si aperse; passammo in un andito, e alla fine
fummo al luogo destinato. Mi fu tolta la benda, e mi trovai in
un'ampia sala, addobbata piuttosto con lusso che con eleganza.
Giovanni Ruffini
Un gran fuoco ardeva in
un enorme camino, e una lampada pesante con un globo d'alabastro
spandeva all'intorno una luce dolce e temperata. Sul pavimento era
steso un grosso tappeto di color rosso scuro; un magnifico drappo
damascato pendeva all'estremità della stanza, il quale probabilmente
nascondeva un'alcova. Eravamo cinque persone nella stanza: i miei due
conduttori, due altri, egualmente in domino nero, forse quegli stessi
che ci avevano seguiti, ed io. Il domino nero più alto, che pareva
essere il capo, e che io da qui innanzi chiamerò il Presidente, si
adagiò in una sedia a bracciuoli, i due ultimi venuti gli sedettero
l'uno a destra, l'altro a sinistra; dietro a lui si collocò il
domino donna. Il Presidente mi accennò d'avanzarmi; ed io, avendolo
fatto, venni a rimanere in faccia alle quattro persone, e dirimpetto
all'alcova. Dopo una breve pausa, cominciò una specie
d'interrogatorio. Parlava il domino più grande, il quale mi
rivolgeva la parola nella seconda persona singolare.
«Qual è il tuo nome,
cognome ed età?».
Glielo dissi.
«Hai tu congetturato lo
scopo della tua presenza in questo luogo?».
«Credo di sì».
«Persèveri
nell'intenzione d'entrare nella Confraternita dei Buoni Cugini?».
«Con tutta l'anima».
«Ti sei formata un'idea
chiara dei terribili doveri che stai per addossarti? Sai tu che
appena dato il solenne giuramento, il tuo braccio, le tue sostanze,
la tua vita, insomma tutto te stesso, non apparterranno più a te, ma
all'Ordine? Sei tu pronto a morire mille volte, anziché rivelare i
segreti della società? Sei tu disposto a obbedire ciecamente e a
rinunziare alla tua volontà dinanzi ai tuoi superiori dell'Ordine?».
«Sicuramente. Se mi
fosse comandato d'aprir la finestra e gittarmi giù a capofitto, non
esiterei un istante».
«Quali sono i tuoi
diritti per entrare nella Confraternita degli uomini liberi?».
«Io non ne ho alcuno,
eccetto l'amore della patria e il fermo proposito di contribuire alla
sua liberazione, o morir nella prova».
Mentre queste parole mi
sgorgavano dal petto bollente come lava, vidi, o mi parve di vedere,
le cortine dell'alcova muoversi insensibilmente. Fu un'illusione, o
qualcuno v'era nascosto dietro? Non mi fermai su questa
circostanza, perché poco importa un mistero di più o di meno in un
mistero sì grande. Finito l'interrogatorio,
il Presidente mi fece mettere in ginocchio e ripetere la formula del
giuramento, che pronunziò a voce alta e distinta, fermandosi con
enfasi sulle frasi più significative.
Ciò fatto, aggiunse:
«Prendi una sedia e mettiti a sedere; ora puoi farlo, poiché sei
de' nostri». Obbedii. Mi fu imposto un
nome d'adozione e mi furono insegnate alcune misteriose parole e
segni, perché potessi farmi conoscere ai miei confratelli, ma
coll'espresso comando di non farne uso, fuorché in caso di
necessità.
«Debbo inoltre»,
soggiunse il Presidente, «darti alcune spiegazioni ed avvertimenti.
Tu ora appartieni al primo grado dell'Ordine, quindi sei nello stadio
di prova. Nessun diritto tu hai, neanche quello di presentazione:
hai però dei doveri, ma ti sarà facile adempierli. Custodisci il
segreto religiosamente, aspetta con pazienza in uno spirito di fede e
di sommissione, e tienti pronto al momento dell'oprare. A suo tempo
saprai la Vendita a cui devi appartenere, e il capo da cui riceverai
gli ordini direttamente. Intanto, se occorrerà di darti qualche
comando, ti sarà comunicato dal Cugino che ti presentò e che già
conosci. L'Ordine a cui sei ascritto ha occhi e orecchi dappertutto,
e fin da questo momento, dovunque tu sia, qualunque cosa tu faccia,
esso ti vede. Tientelo a mente e
governa, così, la tua condotta. La seduta è sciolta».
Il Presidente si alzò, e
attraverso la barba della sua maschera mi dette un bacio su l'una e
l'altra guancia e sulla bocca. Tutti gli altri fecero lo stesso. Mi
fu imposta una tassa a beneficio dei confratelli poveri o infermi,
fui bendato un'altra volta e uscimmo. Il ritorno fu più breve che
l'andata, ma egualmente irregolare. Appena ci fermammo, il domino
alto mi disse: «Qui dobbiamo separarci; continuate il vostro cammino
senza voltarvi indietro: questo è il primo atto di ubbidienza che si
vuole da voi». E così dicendo mi tolse la benda dagli occhi.
Ubbidiente al comando, continuai senza voltarmi e riuscii
nella piazza del teatro Carlo Felice.
(Giovanni Ruffini,
Lorenzo Benoni, ovvero scene della vita di un italiano)