TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 19 aprile 2020

Onore al vino di Savona e a Gabriello Chiabrera che ne cantò la dolcezza




Giorgio Amico

Onore al vino di Savona e a Gabriello Chiabrera che ne cantò la dolcezza

In questi giorni d'ozio forzato la lettura è piacevole svago e navigando in quell'enorme biblioteca online che è Google Books capita di fare scoperte affascinanti.

Nel 1874 nella sua "Guida storica economica ed artistica della città di Savona", Nicolò Cesare Garoni, "eruditissimo letterato" come viene descritto da un suo biografo, delinea un quadro idilliaco della campagna savonese compresa fra il torrente Quiliano e il Letimbro. Un piccolo, fertilissimo, territorio, oggi in gran parte ricoperto di palazzi e capannoni industriali, ma allora ancora in larga parte simile a quello cantato due secoli prima dal Chiabrera.

"Il suolo della Sabazia è la maggior parte calcareo, argilloso e siliceo. La celebre primavera perpetua delle riviere ligustiche fiorisce nelle sue valli e ne suoi orti, difesi da soffi acquilonari, un mese prima che nella gran valle del Po e matura il mandorlo, la noce, il nocciuolo, la giuggiola, il pruno; pesche che vincono di bontà e di bellezza le celebri di Verona; il pero d'inverno, il gelso il carubbo, il limone, l'arancio, l'arancina, Cypris aurantius sinensis, nel nostro volgare chinotto, il melograno e ogni primizia di saporiti legumi: nei giardini profuma i fiori più gai e sfoggiati, la rosa, il garofano, il gelsomino, l'ortensia e la sempre verde mortella e il pomo di Adamo e la palma. Sovra i colli educa l'ulivo e imbalsama l'uva.
I monti sono boschi di castagni e i sommi gioghi selve di pini e di roveri. Oche, anitre, galline, tortore e colombi popolano le corti e i giardini e i molini e i ruscelli e i canali e la mattina colle acute grida risvegliano i cacciatori: o colle lamentevoli voci accompagnano la quiete del mezzogiorno e la mestizia della sera. Dappertutto ronzano le api, intese al lavoro del miele, delizia degli uomini e degli Dei".



Ma sopra ogni cosa il Garoni elogia il vino, prodotto d'eccellenza e orgoglio del territorio. E nel farlo si appoggia sull'autorità del Chiabrera, eccelso poeta, amante di Venere, ma non insensibile al richiamo di Bacco. Nota il cronista:

"Il vino è pur sempre il principal prodotto dell'agro savonese, quantunque dopo il 1850 la crittogama s'abbia divorata quasi metà delle viti. Gabriello Chiabrera, che avea contezze e gusto degli ottimi vini d'Italia e sedeva fra i bevitori gentili, non negava suo titolo d'onore a ciascuno e amava quello di Savona". 

Ed in effetti il poeta compose un poemetto "Le vendemmie del Parnaso", dove il vino di Savona, anche se non paragonabile ai più celebri vini del tempo, è celebrato con affetto. Sono versi ancora oggi di piacevole lettura. Ne abbiamo scelti alcuni. Quelli che, a nostro giudizio, meglio rendono l'amore del poeta per quella campagna di Legino, dove aveva villa e terre coltivate a vigneto:

XXXII.
Corri alla grotta, o Clori,
Trova la manna di Savona, e spilla;
Poi colma l'orlo de maggior bicchieri.
Tutta la fronte mia sudor distilla;
Che mal prenda i levrieri.
Da che la bella Aurora in cielo apparse,
Finora i passi miei non fur mai fermi,
Chè delle fere le vestigia sparse
Cercai per poggi solitari ed ermi.
O forsennati cori,
Errar dal porto infra Cariddi e Scilla!
Vadan gli Adoni della caccia altieri:
A Bacco, che ci dà vita tranquilla,
Son servi i miei pensieri.

XXXIV.
Certo non è vin Greco,
Non Asprin, non Scalea,
Non Toscana Verdea,
Che titolo d'onor non aggia seco.
Tesor di Bacco puossi dire Albano:
Nè della Riccia la vendemmia è vile;
Ma dove sieda un bevitor gentile,
Veggo in aringo coronar Bracciano.
Se alcun giudice strano
Divulga altra sentenza,
Fugga la mia presenza,
Chè immantenente azzufferassi meco.



II.

Lodasi la vendemmia.

Parmi, caro Pizzardo,
L'Autunno a venir tardo,
Con tal desio l'aspetto;
E tanta smania in petto
Ho di tòrre alle viti
Gli acini coloriti:
Venturose giornate
A ragion desiate:
Veder chiome canute,
E fresca gioventute
Gir per la vigna intorno,
E come s'alza il giorno
I coltelli arrotare,
E i grappoli tagliare.
Alcuno è che racconcia
La pulita bigoncia;
Chi buon graticci appresta;
Altri riponsi in testa
Gran corba e gran paniere
Pien d'uve bianche e nere;
Chi pigia e cresce il vino
Al ben cerchiato tino.
Le vaghe forosette
Succinte in gonnellette
Fanno schiamazzo intanto,
E sollevano il canto
Gloria della vendemmia.
Gravissima bestemmia
Prenda l'uom che fa l'arte
Di ministrare a Marte
Micidiale acciaio;
Sia felice il bottajo:
Ei sol fabbrica in terra
L'arche dove si serra
Di Bacco il bel tesoro,
Bello vie più che l'oro.

XLI.

Che per la fredda stagione è da bevere.

Gonfio le gote
Sorge Aquilon sdegnoso,
E con spirti di neve il bosco ombroso
Aspro percote,
E va torbido e reo
Sul regno di Nereo.
In gioghi alpini
Non segna orma destriero;
Nè si arrischia d'arar cauto nocchiero
Campi marini,
Ma vuol rinchiuso in porto
Dal buon Leneo conforto,
Al crudo verno
Moviam dolce battaglia,
Facciasi distillar mosto di Taglia,
Più buon Falerno:
Ciascun si rechi in mano
Gran tazza di Murano.
L'anno d'intorno
Sen va con vario stile;
Quinci a poco vedrem l'amato Aprile,
Aprile adorno,
E liberal de' fiori:
Or versa vino, o Clori.