Ephraim Moshe Lilien,
«Dybbuk», 1908
La parola apocalisse è
collegata erroneamente all'idea di collasso irreversibile del
modello"mondo", ma significa scoperta, svelamento.
Raffaele K. Salinari
Apocalisse pandemica,
dal Grande Nulla al Dybbuk
Verso la fine degli anni
’50 del secolo scorso esce un romanzo visionario: Guerra al
Grande Nulla di James Blish. L’opera diventa subito un cult,
parte di quel complesso mosaico di suggestioni lisergiche che,
insieme ad altri classici della science fiction come Straniero
in terra straniera di Robert A. Heinlein del ’61 – basti
pensare che ispirò l’omonima canzone dei Doors – darà vita alla
cultura Beat. Le trame dei due romanzi sono l’una il riflesso
dell’altra, intrecciandosi nelle immagini di un’unica,
psichedelica, profezia.
Il Grande Nulla
Nel primo libro troviamo il gesuita-scienziato Ramon Ruiz-Sanchez in missione sul pianeta Alpha Arietis, abitato da una specie intelligente di tipo rettiliano. Questi lucertoloni, alti e possenti, vivono in piena armonia all’interno di un’organizzazione sociale priva di ogni attrito o conflitto, pur non credendo in nessuna divinità e non avendo comandamenti o leggi. La condotta morale è ispirata al loro stesso ciclo di vita: si sentono infatti parte integrante del pianeta e lo rispettano. Il sacerdote giudica tutto questo opera demoniaca: una enorme trappola che il Maligno ha messo di fronte all’umanità per indurla in tentazione. Decide dunque di lasciare il pianeta al suo destino, escludendolo dalle rotte terrestri. Un rettiliano, però, gli dona un vaso contenente l’embrione del proprio figlio: Egtverchi. Questi viene dunque portato sulla Terra dove ottiene i diritti di cittadinanza globale da parte dell’ONU. Cresciuto in mezzo ai terrestri, ma con la sua ecologica struttura mentale, Egtverchi diviene in breve il leader mondiale degli emarginati e dei derelitti, la voce e lo specchio dove si riflette un’umanità costretta ad un’esistenza miserabile a causa delle minacce nucleari che tutti attribuiscono a tutti.
Il precario equilibrio su
cui si regge l’intera società viene contestato duramente dal
rettiliano, che con le sue parole ed il suo stile di vita decisamente
anticonformista svela le ipocrisie della morale terrestre, sollevando
milioni persone ad esprimere finalmente la propria gioia di vivere.
Egtverchi diviene così l’Anticristo; il sistema che amministra e
lucra sulle paure decide di fermarlo: il suo pianeta viene atomizzato
insieme a lui. Ma il processo innescato dalla grandiosa operazione di
autocoscienza collettiva finirà per travolgere un potere oramai
logoro, che attendeva solo il catalizzatore per una reazione
palingenetica.
In terra straniera
Parimenti, nell’altro romanzo, ma a parti invertite, il protagonista Valentine Michael Smith è un terrestre allevato dai marziani, che torna sulla Terra e comincia a porre le stesse domande scomode: finirà anch’egli ucciso, ma trasfigurato in un novello Prometeo.
Ciò che accomuna i due
romanzi è decisamente il tema dell’alieno, del totaliter
aliter che però sembra il solo in grado di porre all’umano le
questioni fondamentali per la sua esistenza. Ma qui non sono tanto le
domande in sé a suscitare le risposte, quanto le visioni che
Egtverchi e Valentine evocano: sono immagini del nostro stesso mondo,
riflesse però nello sguardo eterotopizzante di una vita aliena, in
parte simile in parte diversa dalla nostra. A questo punto, come
suggeriscono i protagonisti delle due storie parallele, c’è da
chiedersi perché sia necessario un evento ingovernabile con i
consueti dispositivi per arrivare a quella che, in senso stretto, è
una rivelazione apocalittica, sia sul piano personale sia su quello
collettivo.
Eterotopia
Abbiamo parlato di apocalisse, qual è il suo vero significato? Nei racconti, non a caso, viene spesso evocata; si continua a dire, ad esempio, che Egtverchi è il suo agente, che il messaggio del rettiliano, oramai seguito da miliardi di persone, porterà alla «fine del mondo». E questa «profezia» usata per spaventarne i seguaci che tornano sulla superficie dopo gli anni segregati nei bunker antiatomici, si rivelerà assolutamente vera, ma in un senso del tutto positivo. E allora vale la pena soffermarsi sul senso profondo, prospettico, di una parola erroneamente collegata, specie in questi tempi pandemici, a un’idea disperata, se non nichilista, di sconvolgimento, di collasso irreversibile del modello-mondo.
Il termine, com’è
noto, deriva dal greco e significa invece, letteralmente, «scoperta»
o «svelamento». Questo rende ragione del suo utilizzo originario
come disvelamento di verità altrimenti nascoste o che vanno oltre la
normale portata dell’umana conoscenza. L’idea di apocalisse è
dunque di considerevole importanza nella storia della tradizione
giudaico-cristiana ed islamica, dal momento che questioni come la
natura del male, lo scopo dell’esistenza, il perché della sua
origine, trovano qui un’esplicita risposta. E dunque, vediamo bene
come nel concetto di apocalisse sia contenuta una tensione positiva
verso il disvelamento delle verità ultime, del fine stesso della
vita e non certo l’immagine della sua fine. L’involuzione
semantica deriva evidentemente da un’ellisse del sintagma
giovanneo apokalypsis eschaton, cioè «rivelazione degli eventi
della fine dei tempi». Per ciò il titolo dell’ultimo libro del
canone della Bibbia, il Libro della Rivelazione o Apocalisse di san
Giovanni apostolo, viene comunemente, ma molto riduttivamente,
interpretato come profezia della fine dei tempi e del tempo della
fine.
Ed invece, pienamente in
accordo col significato originario del termine, forse è vero che noi
viviamo un tempo apocalittico, solo che le rivelazioni sul senso
della nostra esistenza non vengono da profeti umani bensì, come nei
romanzi di Blish e Heinlein, suggerite direttamente un organismo che
trattiamo di fatto come un alieno, ma così intimo da potersi servire
del nostro stesso corpo per passarcele: il covid-19. Anche il suo è
un messaggio che, per molti, potrebbe sembrare simile a quello del
Maligno, ma non è esattamente così. Senza di lui, infatti, la folle
corsa che ci ha portato pericolosamente sul baratro dell’estinzione
non sarebbe perlomeno rallentata, la forzata riflessione sul senso
dell’unità del vivente sarebbe rimasta nelle sole mani degli
attivisti dei Friday for future.
Dunque siamo in piena
apocalisse, nel senso più pieno, globale, ed autentico del termine:
un «apocalisse eterotopico». La definizione di eterotopia, infatti,
come concepita da Foucault, è tratta non a caso dal vocabolario
medico. Sono quei fenomeni che si originano in sede diversa dalla
normale: ad esempio stimoli elettrici nati al di fuori del cuore, ma
che provocano extrasistoli. Il termine compare nella prefazione
di Les mots et les choses prima di assumere la sua forma
compiuta in Eterotopia, e in particolare nel primo scritto, Spazi
altri; una lettura incredibilmente interessante in questi giorni di
confinamento forzato.
Il filosofo amplia dunque
l’orizzonte degli spazi eterotopici sino a definire tali «quei
luoghi reali, riscontrabili in ogni cultura ed in ogni tempo,
strutturati come spazi definiti e che hanno la particolare
caratteristica di essere connessi a tutti gli altri, ma in modo tale
da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme di questi
rapporti». Foucault porta ad esempio il cimitero e l’ospedale; e
sin qui il rovesciamento della relazione è evidente: l’ospedale è
il luogo dove la morte organizza la vita, il cimitero è addirittura
la città dei morti. È esperienza comune il senso di rovesciamento
quando entriamo. Ma quando percepiamo l’eterotopia che irradia
dalla condizione del presente, dalle città vuote, dalle scuole
chiuse, in pratica da tutti i luoghi che oggi simboleggiano la nostra
condizione pandemica, ebbene allora sentiamo che dappertutto si
costruisce, si costituisce e si costudisce la consapevolezza
dell’apocalisse.
Ora, se gli spazi
eterotopici sono una specie di contesto al contempo onirico e reale,
il loro tratto distintivo sembra essere quello di avvolgere, per così
dire, chi li frequenta in una sorta di aura fantastica. Come
un Aleph borgesiano essi la coagulano intorno, ed al tempo
stesso la trasmettono al soggetto. Le eterotopie sono dunque luoghi
«ai confini della realtà», territori il cui statuto ontologico
viene sospeso, rovesciato. Ogni civiltà e ogni epoca ha prodotto le
proprie eterotopie, ma sono sempre state delimitate spazialmente,
temporalmente e culturalmente. Al tempo del covid-19, invece, forse
per la prima volta nella storia dell’umanità, il dominio
dell’eterotopia si estende a tutto il mondo.
Si svuotano le
autostrade, le stazioni e gli aeroporti: quelli che una volta erano i
non-luoghi descritti da Marc Augé come i templi secolarizzati della
modernità, oggi ci sono preclusi, chiusi. La loro aura nevrastenica
è svanita, annichilita dalla nostra stessa assenza. Gli occhi di
Medusa delle enormi vetrine che sino ad un recentissimo, quanto
fantasmatico passato, ci pietrificavano, ora sono spenti; scomparso è
lo spleen convulso delle megalopoli globali. Come un tessuto fragile
ed esposto, oramai troppo vecchio e logoro per tenere, la trama della
realtà si sta lacerando irreversibilmente, e noi lo sentiamo nel
nostro stesso corpo. L’esperienza della pandemia ci dice già che
non torneremo allo status quo ante, che ognuna delle guarigioni non
sarà una semplice restitutio ad integrum ma una
trasformazione; e queste lo saranno all’ennesima potenza poiché
sono al tempo stesso individuali e collettive, personali e globali.
Basterebbe questa consapevolezza a restituirci la potenza simbolica
necessaria per ripensarci.
La caduta
Ma un luogo eterotopico è anche il giardino: almeno nell’immaginario rinascimentale, ma ancor prima nel mondo arabo medioevale, era inteso come un microcosmo in cui tutte le forme dell’esistenza potevano trovarsi in armoniosa relazione, il Giardino per eccellenza essendo il Paradiso terrestre. Troviamo in questa eterotopia forse l’immagine più ispiratrice: se, infatti, oramai è chiaro che il covid-19 è, tra le altre cose, figlio delle nostre aggressioni all’ambiente, della produzione industriale di carne, della riduzione degli spazi biologici che si devono ad ogni forma vivente per la sua giusta sopravvivenza, ebbene ecco che il Giardino terrestre diventa il luogo da ricostruire dopo la rovinosa Caduta nel «Regno della Quantità», come René Guénon, l’iniziato Muratore, definiva il nostro mondo senza Spirito. Ed anche questo suggerimento lo dobbiamo al nostro sgradito ospite alieno.
Il Dybbuk: la figura del
perturbante
Max Ernst nel suo libro di fotomontaggi, tutti rigorosamente eseguiti a mano solo con forbici e colla, Una settimana di bontà, introduce la figura di Perturbazione, sorella del grande uccello Lop Lop. Le sue apparizioni sono sempre coerenti col nome: ci invita, con i suoi gesti pieni di grazia, ad entrare dentro una serie di immagini vertiginose: familiari ma con qualcosa che si insinua indicandoci una prospettiva nuova, perturbante appunto. L’idea del «perturbante» (Unheimliche), come dice Freud nel suo omonimo saggio del 1919, è allora speculare al «familiare» (Heimliche), è il suo Doppio: da ciò che sembra conosciuto, improvvisamente emerge, o scompare, qualcosa che snatura quello che pure sentiamo appartenerci profondamente; insomma il perturbante è l’eterotopia della nostra percezione sentimentale del mondo.
E cosa c’è di più
familiare, e dunque estremamente perturbante, della morte? Seppellire
i defunti, o essere vicino ai propri cari nel momento del trapasso,
sono i gesti della familiarità con la morte; ma lasciarli confinati
dietro un vetro e non vederli morire, o non poterli neanche
accompagnare nell’ultimo viaggio terreno, non è forse perturbante?
Ecco che il nostro alieno virale aggiunge alla pandemia anche questa
nuova tonalità. E allora cerchiamo, tra le immagini di antiche
credenze, qualcosa che possa aiutarci a immaginare un diverso
rapporto con questa entità che dà la morte ma sottrae i morti al
nostro sguardo: il dybbuk.
Nella tradizione popolare
ebraica polacca e tedesca, è lo spirito al quale è stato vietato
l’ingresso in Paradiso per aver commesso peccati mortali ma un po’
speciali, come il suicidio per amore. Ad alcuni di questi viene data
la possibilità di emendarsi condividendo l’anima di un altro
corpo, ed avere così una seconda possibilità. Nelle vecchie
sinagoghe si narra che i dybbuk vengono dalla gehennaa,
un termine ebraico traducibile liberamente con «luogo dei miasmi»,
un po’ come l’ambiente che genera i virus. Ma ciò che ci
restituisce il senso simbolico del dybbuk è l’etimologia,
che deriva dall’ebraico davok, «attaccarsi»:
il dybbuk dunque è un qualcosa che si attacca ad un
vivente per coabitare in esso, in altre parole lo «contagia»:
questa simbiosi forma un dibbukim. Ma l’arcano del dybbuk è
che una grande responsabilità viene data al corpo ospitante: è lui
che deve farsi carico della natura di ciò che lo contagia, non solo
per salvarsi ma anche per salvarlo. In altre parole deve trovare per
il male una giusta collocazione, un luogo in cui tornerà a se
stesso, compirà il proprio destino abbandonando l’ospite. Ecco che
la metafora del dybbuk ci narra la nostra storia: non
dobbiamo solo combattere il virus ma anche fare la pace con esso,
dargli cioè gli spazi che sono a lui propri: i serbatoi animali e
naturali dai quali viene e con i quali è in equilibrio. Se vogliamo
uscirne rafforzati è bene comprendere, sin da ora, come dicono gli
studi epidemiologici più completi, che ricreare queste condizioni è
l’unica maniera per mantenerne la morbilità nella soglia del
fisiologico.
il ManifestoAlias - 18
aprile 2020