Se davvero siamo fatti
della materia di cui sono fatti i sogni allora per riprendere a
sognare dobbiamo attraversare lo specchio e tuffarci in noi stessi.
Raffaele K. Salinari
Attraverso lo specchio
come fosse acqua (seconda parte)
Narciso: lo
specchio d’acqua
Se lo specchio di
Alice diventa una nebbiolina, e quello di Orfeo
trasmuta in acqua, nel mito di Narciso è l’acqua
stessa che si materializza in specchio per farsi
riflesso dell’eroe.
Narciso era figlio
dell’azzurra ninfa Liríope, che un giorno il dio del fiume Cefiso
aveva avvolto nella sua liquida presenza, fecondandola.
Liríope, che significa «dagli occhi sfacciati», aveva
trasmesso la caratteristica del suo sguardo al
figlio, che lo usò per ricongiungersi a se stesso.
Il veggente
Tiresia aveva detto a Liríope, la prima persona che
lo avesse mai consultato: «Narciso vivrà sino
a tarda età, purché non conosca mai se stesso»,
curioso capovolgimento speculare del motto
delfico.
E così, mentre
Narciso è nel bosco, si imbatte in una pozza profonda
e si accosta presso di essa per bere. Non appena vede, per
la prima volta nella vita, la sua immagine riflessa, si
innamora perdutamente del giovane che stava
fissando: è chiaro che il rispecchiamento
acquoreo è un ritorno alla sua essenza.
E dunque Narciso
non si innamora della sua immagine, o non
semplicemente almeno, ma della sua stessa acqua
riflessa nell’immagine, in altre parole del riflesso immaginale
della sua essenza acquorea.
«E ancora più
profondo è il significato della storia di
Narciso, che non potendo afferrare l’immagine dolce
e tormentosa che vedeva nella fonte, vi cadde dentro
e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in
tutti i fiumi e negli oceani. È l’immagine
dell’inafferrabile fantasma della vita, ed è questa
la chiave di tutto». Così dice Ismaele, la voce narrante di
Moby Dick.
Ma tutti siamo fatti
d’acqua. E allora, per farsi affascinare dal nostro
riflesso bisogna tuffarcisi dentro,
attraversare lo specchio d’acqua, impegnarsi
più a fondo perché l’immaginazione torni a sognare.
Così la forza poetica, che era debole nel semplice gioco
dei riflessi superficiali, si esalta; l’acqua,
diventata più pesante, più scura, più profonda, più
avvolgente, la «materializza» in noi e per noi
all’improvviso.
Lo sguardo acquoreo
di Narciso potrebbe essere quello di ognuno di noi davanti ad
uno specchio d’acqua riflettente: una rêverie
sulla bellezza di noi stessi come parte della bellezza del
Mondo, della nostra capacità di partecipare
alla bellezza del Mondo con la nostra stessa bellezza.
L’immagine
frantumata
Ma lo specchio può
essere attraversato anche come decide di fare Lord
Patchougue, protagonista racconto
del dandy dadaista Jacques Rigaut, distruggendo
insieme allo specchio l’immagine della sua stessa vita.
«È seduto a un
tavolino, concentrato su un gioco di pazienza.
Esiste? È fra due carte, poi è nel passaggio
da una carta a un’altra: è in quell’istante a cui
è ridotto l’universo — nove di cuori su dieci di fiori —
Fatto. Lord Patchogue risolleva il capo, l’universo
si rianima.
Le comparse, da un
lato all’altro della stanza, fanno un gran baccano. Sul muro
di fronte, in una grande specchiera, Lord Patchogue
scorge la sua immagine, dice: vi riconosco. Non vi ho
scambiato né per uno struzzo né per un riverbero, né
per il mio amico Charles. Siete l’immagine di Lord
Patchouge, se non addirittura Lord Patchouge in
persona. Ah! Chi di noi due ha fatto la prima mossa? Chi segue
l’altro? Lord Patchouge si è alzato. In piedi si
esamina davanti allo specchio: cinque sensi non
bastano ai suoi vicini occasionali; ancora una volta
perderanno lo spettacolo, totalmente
impreparati come sono a percepire la
prossimità di un mistero o pensare alla morte.
Lord Patchouge e la
sua immagine si fanno lentamente incontro l’una
all’altra. Si studiano in silenzio, si fermano,
s’inchinano. Da quale vertigine è stato colto Lord
Patchouge? Fu breve, facile e magico: Lord Patchouge
si è lanciato a testa bassa. Lo specchio
all’urto, al trapasso, vola in pezzi, ma in quanto a lui
eccolo dall’altra parte. Sono tutti in piedi. Il meraviglioso
non è raro, l’incredulità è più forte dei miracoli.
I miracoli fanno fatica a reclutare testimoni,
tanto è esiguo il numero di coloro disposti a dare
la propria adesione al soprannaturale. Lord
Patchouge per primo non era poi così sicuro di aver compiuto
il grande passo.
Nessuno fra quanti
gli si raccoglievano intorno si accorse della
stupefacente sparizione dell’amico. Lo
circondavano come fosse stato ancora presente,
mostravano di riconoscerlo, di sentire la sua
voce. Subentrò tuttavia un certo disagio. Come
mai Lord Patchouge non si era ferito più gravemente?
Quel sottile, unico taglio di traverso sulla fronte non
era sufficiente: non è cosa di tutti i giorni
che uno attraversi impunemente uno specchio; si
sarebbero sentiti tutti alquanto più sollevati
se avessero avuto un gran numero di ferite da contare con
tanto di perdita di sangue. Non c’era che una persona,
la stessa che avrebbe officiato per il resto della serata,
a sospettare il carattere fatale del sottile
filo rosso che scalfiva la fronte del Lord. Un miracolo
non viene mai da solo; sa qual è il suo dovere e perciò
si fa accompagnare da manifestazioni
collaterali straordinarie…
All’indomani due operai vennero a sostituire
lo specchio. Una volta terminato il lavoro, Lord
Patchouge era scomparso».
Qui il personaggio
prima rompe lo specchio, poi fa in modo di farlo sostituire
per non tornare mai più, affinché la sua immagine
sia per sempre altrove. L’attraversamento-scomparsa di Lord
Patchouge è quella di un dandy che vive
consapevolmente la sua vita nell’opposizione
totale al processo di sviluppo borghese e che,
con gesto radicale, afferma compiutamente la sua
irriducibilità.
L’uomo di vetro
Seguendo le
suggestioni sugli stati di trasmutazione
della materia vitrea troviamo, all’opposto polare
dell’acquoreo specchio di Narciso, quello dell’Uomo di
vetro di Paul Valéry: qui è una vita che diventa rifesso di
se stessa.
In questo capitolo
dal romanzo Una serata con il Signor Teste del 1903 assistiamo,
per così dire, alla vetrificazione di un uomo, di un
testimone (Teste), totalmente assorbito dalla
speculazione — dunque dal rispecchiamento
— sul suo stesso pensiero: «Si droite est ma vision, si pure
ma sensation, si maladroitement complète
ma connaissance, et si déliée, si nette ma
représentation, et ma science si achevée que
je me pénètre depuis l’extrémité du monde jusqu’à ma
parole silencieuse; et de l’informe chose qu’on désire se
levant, le long de fibres connues et de centres ordonnés,
je me suis, je me réponds, je me reflète et me répercute, je
frémis à l’infini des miroirs. Je suis de verre».
«Così retta è la
mia visione, così pura la mia sensazione, così
maldestramente completa la mia conoscenza,
così sottile e nitida la mia rappresentazione,
e la mia scienza così compiuta, che io penetro me
stesso dall’estremità del mondo fino alla mia parola silenziosa;
e muovendo dall’oggetto informe del desiderio
che nasce lungo le fibre conosciute e i centri
ordinati, io seguo me stesso, mi rispondo, mi rifletto
e ripercuoto, fremo dinanzi all’infinità degli
specchi. Io sono di vetro» (traduzione di pb).
«Io sono di vetro»,
ecco la metamorfosi finale: l’uomo diviene lo specchio
che egli stesso ha generato con la sua riflessione
perspicua, con la sua speculazione.
L’ultimo attraversamento sarà penetrarsi
dall’estremità del mondo intelligibile per
trasmutarsi nella sua vitrea essenza, divenire la
fonte luminosa delle sue riflessioni, un puro
e trasparente cristallo di lux perpetua
nel gioco infinito dell’emanazione.
Nel dionisismo
orfico il dio crea il Mondo osservando i suoi pensieri
allo specchio, Tommaso D’Aquino, nella Summa
teologica, parla di claritas per definire
lo stato percettivo delle cose ultime. Già nella seconda metà
del Seicento, Perrault aveva raccontato la
storia del signor Orante (dal greco «veggente»,
«mostrante»), trasformatosi in uno specchio
veneziano per troppa distaccata obbiettività.
Chi è allora
Teste? Un testimone, senza dubbio, di un’epoca
trascorsa, un individuo, per dirla con Walter
Benjamin «che, sul punto di attraversare la
soglia della scomparsa storica, già ombra, risponde
un’ultima volta al richiamo della sua identità, prima di
tuffarsi là dove nessuno più lo aspetta» ma anche
l’avanguardia disperata di un mondo del quale i suoi
contemporanei non distinguono ancora
i contorni, le determinanti simboliche
effettive.
L’uomo di vetro
riprende dunque il sogno eterno dell’orthotheron
blepoi, la «retta visione» cui fa allusione Platone
ne La Repubblica e sulla quale Cartesio fonderà
la sua axiologia nel Discorso sul metodo.
È
qui che l’affermazione di Teste esprime tutta la sua valenza
profetica, perché l’idea di massima
trasparenza, simboleggiata dalla sua
trasformazione nel puro specchio riflettente
dei pensieri, lungi dall’essere il delirio di un
singolo, è invero l’anticipazione dell’oscuramento
del sacro, cifra della modernità di matrice
giudaico-cristiana.
Di tutte le idee legate
alla visione stessa del divino, infatti, la trasparenza
è quella che ha subito una degenerazione
assoluta, proprio perché legata a questa
suggestione di identificazione col
Tutto, di ricongiungimento tra noi e l’eternità.
Prima della Caduta vi
era accesso diretto all’illuminazione divina, nulla ci divideva
dal Creato. Poi, con l’invenzione del peccato originale,
della colpa, la luce radiante che trasformò la pelle di Mosè
in uno specchio mistico (Esodo, XXXIV, 29–30), si allontanò
dall’umanità; San Paolo, il fondatore della teologia
politica, introdusse la metafora dello specchio
affermando che si poteva contemplare Dio solo per
speculum in aenigmate.
Via via
secolarizzata, ritroviamo la trasparenza
come instrumetum regni filtrata dalle grandi vetrate
nell’architettura ascensionale delle cattedrali
gotiche descritte da Panofsky, in cui la manifestatio
divina era oramai solo allusa, mediata dalle figure dei santi,
per arrivare poi, con la rivoluzione industriale,
alla materialità corpuscolare
dell’illuminismo ed infine alla società dello Spettacolo
che l’ha progressivamente catturata
nei neon dei centri commerciali, oramai
strumento consensuale ed inappellabile
del dominio mediatico-politico liberista di altri
idoli totalmente secolarizzati e desacralizzati.
Per questoPaul
Virilio parla di un accecamento del nostro
psichismo, che si è ulteriormente
aggravato sino alla elusione ottica di cui parla il
geografo Franco Farinelli — commentando
l’assenza di fotografie autentiche del
cadavere di Bin Laden — in cui «ogni relazione tra quel
che vediamo e quel che accade è messa talmente in
forse da essere due cose che non soltanto non hanno tra loro
nessun necessario rapporto ma si oppongono
al punto da ridefinire proprio in tale opposizione
la natura della realtà».
A differenza
dell’intimo e discreto fremito emanante dal vetro
di Monsieur Teste, questa trasparenza oscurante
deve, nell’era mediatico-politica, essere mostrata ed esibita
in pubblico affinché il suo display possa garantire
non più l’accesso all’epifania del divino, ma l’opacità
assoluta del dominio effettivo.
Ma, forse, senza
scomodare i poeti e le antiche Potenze,
come forma essenziale della nostra re-esistenza personale
e collettiva, basterebbe che ognuno di noi
tornasse con la memoria a quando, bambini, ci
mettevamo in mezzo a due specchi e cercavamo
di vedere dove finiva la nostra immagine riflessa verso
l’infinito per rivivere l’incantesimo dell’attraversamento
e ritrovare un poco della nostra trasparenza
interiore.
Il Manifesto – 20
dicembre 2013