Come
per i celti d'Inghilterra l'antica Stonehenge, anche noi Liguri
abbiamo alle nostre origini un antico santuario, una vasta area
sacra: il Monte Bego e le sue valli.
Giorgio
Amico
Ligures.
“Il santuario delle nostre genti” il Monte Bego
Il
Monte Bego (2872m. slm) è con le valli che lo circondano un immenso
altare di pietra. La sua vetta è spesso coperta di nubi e sconvolta
da tempeste terribili. Alle sue falde il viaggiatore incontra enormi
massi erratici segnati dai fulmini, laghi e sorgenti. Un luogo di una
bellezza straordinaria che ha qualcosa che immediatamente attrae e
affascina. Non c'è da stupirsi che i nostri antichi progenitori
avvertissero così forte la presenza del sacro da trasformarlo in un
gigantesco tempio a cielo aperto.
La
montagna e le valli circostanti (Valle delle Meraviglie, Val
Fontanalba, Val Masca e Val d'Inferno) sono luoghi ricchi di
incisioni rupestri, (oltre 40 mila) soprattutto sui costoni rocciosi
nudi ed esposti, sottoposti ad erosione dalle glaciazioni
quaternarie. Un tipo di pietra liscia che si presenta come una
perfetta lavagna che anno dopo anno, secolo dopo secolo, millennio
dopo millennio rappresentò l'immaginario profondo di quegli uomini
(soprattutto pastori) che di lì passarono o addirittura si
radunarono in momenti precisi dell'anno per compiere grandi riti e
ottenere la fertilità delle donne, degli animali, dei campi. In una
parola, che la vita potesse continuare e garantire a ciascuno
un'esistenza serena.
Il luogo è
impervio e fa sentire chi lo percorre l'insignificanza della
condizione umana di fronte alla grandezza e al mistero della montagna
e del cosmo. Niente, come una notte in quelle valli sotto un cielo
bianco di stelle e l'ombra gigantesca della montagna, fa sentire
piccoli e insignificanti e fa nascere domande sul senso vero e
profondo della nostra esistenza.
Una realtà
molto varia, con valli verdi, ricche d'acqua e di laghi (Fontanalba)
e altre pietrose e quasi impraticabili, come la Val d'Inferno di cui
lo storico e geografo Emanuele Celesia (1821-1889) scrive:
« Valle
d’Inferno, nome che ben le si addice per la desolazione che regna
d’ intorno, pel tetrico color delle rupi che d’ogni banda
l’accerchiano, per il difetto di ogni vegetazione da poche erbe
infuori nell’estiva stagione e per l’orridezza del luogo. Il
pauroso silenzio di quella sconsolata vallea non è rotto che dagli
stridi dei falchi e delle aquile che formano tra quei dirupi i lor
nidi ».
In realtà
le prime descrizioni sono molto più antiche. Possiamo trovare un
primo riferimento scritto nel 1460 in un lettera di Pierre de Monfort
che scrive. "C'etatit lieu infernal avec que figures de diables
et mille démones partout taillez en rochiers" (Era un luogo
infernale con figure di diavoli e mille demoni scolpiti nelle rocce).
da qui il nome che gli resterà di Val d'Inferno.
In una guida
del 1650 il nizzardo Pietro Gioffredo (1629-1692), autore di una
monumentale storia delle Alpi Marittime (oggi comodamente leggibile
su Internet), descrive i luoghi sulla base della relazione di Onorato
Lorenzo, parroco del paese di Belvedere.
"I
laghi su menzionati sono detti laghi delle Meraviglie perché nei
loro pressi sono state rinvenute, e ciò è motivo di grande
meraviglia nei visitatori, rocce di vari colori, quasi levigate, che
portano incise un migliaio di figure".
Nel
XIX secolo è la volta di numerosi naturalisti, storici, geologi che
osservano, rilevano e interpretano quelle sorprendenti incisioni. Per
il grande geografo francese Elisée Reclus (1830-1905) le incisioni
sono il ricordo del passaggio di Annibale attraverso le Alpi. Una
teoria molto immaginifica a cui risponde il genovese Arturo
Issel (1842-1922), primo vero grande studioso delle caverne del
Finalese:
"L’ipotesi
che attribuisce i bizzarri geroglifici ad Annibale, raccolta da
Elisée Reclus, come quella che li vuol tracciati per opera dei
Cartaginesi guidati dai duci che militavano col celebre condottiere,
caldeggiata da Fodérè, son prive di ogni sussidio storico,
etnografico ed archeologico. Superfluo il dimostrare, pur ammettendo
il transito pel varco di Tenda di un’oste cartaginese, quanto è
assurdo supporre che si sia indugiata a scolpir migliaia di figure
sulle rupi, in regione lontana da ogni via praticabile e nella quale
regna quasi perennemente il rigor dell’ inverno".
Se
non erano cartaginesi, le incisioni erano di origine fenicia. Questa
la tesi di Emanuele Celesia, secondo cui gli autori delle incisioni
di Val d’Inferno e di Val Fontanalba erano Fenici approdati in
tempi antichi, per ragioni di commercio, ai lidi della Liguria e
saliti poi sulle Alpi alla ricerca di metalli.
Per
una soluzione definitiva del mistero delle incisioni occorre
attendere il 1897 e l'arrivo di un inglese, un po' stravagante almeno
agli occhi degli indigeni, Clarence Bicknell (1842-1918).
Clarence è
un pastore anglicano, scienziato naturalista per passione, dotato di
buone risorse economiche. Nel 1878 si stabilisce a Bordighera e
subito si dedicò allo studio della flora, non solo della riviera, ma
anche delle vicine Alpi Marittime. Nel 1881 sale in val Fontanalba,
sul Monte Bego, per studiare la flora locale e nota alcune incisioni
rupestri. Dal 1897 al 1918 passa le estati a Casterino documentando
per la prima volta in modo scientifico le incisioni. Del suo lavoro
restano ben 16 mila calchi e
migliaia di fotografie.
Arturo
Issel, di cui abbiamo già parlato, studia i materiali
di Bicknell e nel 1907 trae le sue conclusioni:
I. Le figure
incise risalgono a tempi remotissimi. Alcuni dei manufatti
rappresentati si riferiscono a tipi propri alla così detta prima età
del bronzo.
II. Esse
furono eseguite da gente dedita all’agricoltura e alla pastorizia,
ben più che alla caccia e alla guerra. Le immagini di aratri e di
erpici escludono che gli artefici fossero esclusivamente pastori.
Tali immagini, associate ad altre assai più numerose di teste e
corpi cornuti, le prime provviste di orecchie o senza, i secondi
muniti o no di gambe e di coda, dimostrano che queste figure cornute
non sono il noto emblema fenicio, ma rappresentano bovi liberi od
aggiogati per servire a lavori campestri.
III. Mentre
molte figure rappresentano manufatti, animali od uomini, altre sono
indubbiamente ridotti a schemi ed avevano, secondo ogni
verosimiglianza, significato simbolico.
IV. Gli
artefici delle incisioni non vivevano abitualmente nelle alte valli
in cui tracciarono quelle misteriose figure, ma in ragioni
coltivabili, più ospitali dal punto di vista del clima e delle
produzioni; non provenivano però dalla Liguria Marittima. I
territori più vicini in cui si danno le condizioni opportune per la
prosperità di tribù dedite all’agricoltura sono le valli della
Vesubia e della Roia a sud, quelle del Vermenagna e d’altri
affluenti del Po a nord.
V. Non v’ha
una sola figura che rappresenti con sicurezza un animale esotico.
VI. Il
numero delle figure, il lungo e malagevole lavoro a prezzo del quale
furono ottenute, le condizioni climatologiche, l’asprezza e la
sterilità dei luoghi, disadatti alla dimora dell’uomo, porgono
chiara prova che si annetteva loro grande importanza e furono
eseguite a gran distanza dalle abitazioni in territori remoti,
difficilmente accessibili, inospitali, per preservarle dal pericolo
di andar distrutti e forse anche per sottrarle alla vana curiosità
degli estranei. Un tal sentimento si concilia agevolmente co’
supposto che i geroglifici avessero un significato religioso o
politico.
VII. Lo
stile dei disegni si accosta principalmente a quello delle figure che
si vedono scolpite o graffite in buon numero di monumenti megalitici
(dolmen e menhir), sui quali bene spesso sono rappresentati l’accetta
di bronzo inmanicata, rozzi stemmi (cartouches), ornamenti svariati,
come circoletti, spirali ecc. ed anche immagini d’uomini e
d’animali.
VIII. La
mancanza di avanzi umani sepolti o combusti presso le rupi scolpite,
ed altri caratteri, escludono assolutamente il sospetto che si tratti
di iscrizioni funerarie.
Le ipotesi
da tenersi in maggior conto, circa il significato delle nostre
scolture, sarebbero a parer mio le seguenti : а) Che fossero
destinate a perpetuare la memoria di un culto misterioso o di
sacrifizi offerti alla divinità.
b) Che
fossero in certo modo un archivio destinato a conservare il ricordo
di eventi memorabili, come vittorie conseguite, paci o tregue
concluse, controversie composte, nuovi ordinamenti amministrativi o
politici, alleanze, matrimoni.
c) Che
avessero per oggetto di determinare i confini di territori soggetti a
singole tribù o nazioni, o di definire titoli di proprietà o
diritti di pascolo, che fossero in certo modo lodi, giudizi
arbitrali, trattati, intesi a risolvere contestazioni tra popoli o
tribù.
Grazie
al lavoro di Bicknell e poi di Issell subito dopo la prima guerra
mondiale finalmente lo Stato italiano (allora la zona del Bego era
ancora italiana, diventerà francese dopo la seconda guerra mondiale
nel 1947 con il Trattato di pace) inizia a farsi carico del problema
della catalogazione e dello studio sistematico delle incisioni.
Il primo
lavoro archeologico sistematico è avviato nel 1920 da Piero
Barocelli (1887-1981). Animato da una visione lungimirante,
l'archeologo costruisce un rifugio a 2000 metri di altitudine nei
pressi del Lago Lungo Superiore per ospitare le spedizioni di
studio che, negli anni successivi, saranno necessarie per
interpretare l'immensa quantità di incisioni. Nel 1930 conferisce
l‘incarico di iniziare i lavori a Carlo Conti, scultore di
Borgosesia che ispeziona le valli intorno al Monte Bego e
scopre migliaia di rocce incise, ne fa l’inventario, le riproduce, ne realizza dei calchi in gesso. È il primo a creare un
sistema di riferimento per situarle nello spazio: divide la regione
in settori, i settori in zone, le zone in gruppi e attribuisce un
numero a ogni roccia incisa secondo un preciso percorso geografico.
Il suo “Corpus della zona I” è stato pubblicato nel 1972.
La
guerra interrompe queste ricerche. Le valli e gli stessi crinali del
Bego sono devastati dalla costruzione di strade militari, fortini,
casermette ancora oggi visibili. Molte delle incisioni vengono
distrutte o fortemente danneggiate.
Nel 1967, il
francese (come si è visto, si tratta ormai di territorio francese)
Henry de Lumley riprende lo studio
delle incisioni della regione del Monte Bego con l’obiettivo
di realizzarne un corpus completo e dettagliato. Il ricercatore,
basandosi sulla cartografia di Carlo Conti, riprende la sua
spartizione in zone e gruppi. Nel 2003 vengono pubblicati i primi due
tomi, dei ventiquattro complessivi, della monografia del Monte Bego, Ogni volume
presenta una zona sotto tutti gli aspetti: geologia, geomorfologia,
vegetazione, rilevazione di tutte le rocce incise,
protostoriche e storiche, lo studio delle incisioni, le mappe dei
diversi ricoveri sotto massi e delle costruzioni militari, come pure
un tentativo di interpretazione del sito.
Secondo
questa metodologia le incisioni possono essere suddivise in tre
grandi categorie: corniformi (80%, bovidi), armi (7.5%, pugnali e
alabarde), reticolati (12.5%, reticoli ortogonali e incisioni
topografiche).
Le incisioni
più antiche sono quelle geometriche, interpretabili come
composizioni topografiche così come quelle simili della Val Camonica;
risalgono al Neolitico (V-IV millennio a.C.). Ad esse seguono
numerose figure di armi, in particolare pugnali e alabarde le quali,
grazie ai confronti archeologici, possono essere attribuite all'età
del Rame (III millennio a.C.), e in misura minore all'antica età del
Bronzo (2200-1800 a.C.).
Le
rappresentazioni di armi indicano tuttavia che è durante l’Età
del Rame, verso il 3300 a.C., che vengono realizzate la maggior parte
delle incisioni rupestri della zona del Monte Bego. Gli uomini della
prima Età del Bronzo continuano l’opera scolpita dai loro antenati
mantenendo e attualizzandoli, i simboli.
Questo
millenario lavoro di incisione si interrompe in epoca storica, tra
la fine della prima Età del Bronzo e il periodo dell’impero
romano: un’incisione del II secolo d.C. attesta, infatti, il
passaggio di un uomo, che incide una frase scurrile
“Hoc qui scripsit patri mei filium pedicavit“, un po' come un
tempo si faceva nei gabinetti pubblici e oggi, purtroppo, su....
Facebook. Poi, fino al Medioevo più nulla. In questa
epoca e nei secoli seguenti, sono incise sulle rocce iscrizioni e
figure schematiche, a volte, appena visibili, rappresentanti pastori,
militari, viandanti, forse anche pellegrini sul cammino di san
Giacomo, e perfino immagini di barche. Le incisioni sono spesso
accompagnate da date che ne determinano con precisione il periodo. di
nuovo il Bego diventa un grande santuario all'aperto, questa volta
cristiano. Marinai scampati a naufragi e tempeste salgono fin lassù
per incidere sulle pietre rozzi ex-voto. Una dimostrazione della
sacralità intrinseca dei luoghi, al di là dell'avvicendarsi delle
religioni.
Perchè
il Bego è una montagna sacra. Il luogo dove si manifesta in
tutta la sua potenza (il fulmine) il numinoso, il luogo dell'incontro
con Dio. proprio come il Monte Sinai dove Mosè ricevette le tavole
della Legge o il tibetano Monte Meru centro dell'universo dove si
trova il Paradiso, o il monte Olimpo degli antichi greci. Per
millenni luogo di raduno di pastori transumanti provenienti
dall'attuale Provenza, Liguria di Ponente e Piemonte Occidentale,
ossia dalle terre dei Liguri. In quelle occasioni le tribù sparse
ritrovavano la loro antica origine comune, rinsaldavano legami di
alleanza, regolavano l'so dei pascoli, delle fonti e delle vie di
passaggio.
Per questo
Nino Lamboglia ha definito il Bego “il santuario delle nostre
genti”, una definizione che coglie perfettamente la natura di quei
luoghi e lo spirito di coloro che si spingono fin lassù. Perchè
salire sul Bego o attraversare le valli che lo serrano in un
abbraccio, non è una escursione in montagna come le altre. Quei
luoghi, quelle incisioni, così cariche di mistero producono
sensazioni che è difficile far comprendere a chi non c'è stato.
Una
magia profonda, già dal nome, che viene dall'indoeuropeo Beg. La
stessa radice è alla base del nome del monte Beigua, dove non a caso si trovano incisioni dello stesso tipo. Un luogo
sacro al signore delle tempeste, fecondatore della terra che fa
scendere la pioggia a fecondare la terra, far crescere l'erba e gli
armenti. Da qui le corna, simbolo universale del potere fecondante,
simboleggiato poi dal pugnale, dalla lama che trafigge come un raggio
solare, segno della potenza celeste fonte di vita e di luce.
In due
figure, quella del mago e quella dell'orante, ritroviamo questa
simbologia ed una traccia di quegli antichi riti. L'orante diventa
l'axis mundi, il mediatore tra cielo e terra, come l'albero cosmico o
appunto la montagna sacra. La vetta, avvolta da nubi e sconvolta dal
rombo di tuoni e dal bagliore accecante dei fulmini, è il luogo
della ierofania, dello sposalizio rituale del cielo con la terra, il
punto di congiunzione dell'elemento maschile e di quello femminile,
l'origine della vita.
Visto così,
davvero, anche per noi moderni, disincantati e laici, il monte Beigua
rappresenta ancora "il santuario delle nostre genti".
Avvertenza:
Per un
corretto approccio al materiale ricordiamo ancora che si tratta solo
di appunti per un ciclo di lezioni svolte negli anni scorsi e non di
materiali strutturati.
3.
Continua