Nel 1907 il giovane
Stalin visse qualche mese esule a Venezia? Una leggenda o una verità
storica misconosciuta? Raffaele K. Salinari (che avremo il piacere di
incontrare a Savona il 19 p.v. presso la libreria Ubik, ma di questo
parleremo nei prossimi giorni), già autore anni fa di un delizioso e
pionieristico libriccino sull'argomento, recensisce un libro appena uscito in libreria che riapre la questione.
Raffaele K. Salinari
Intorno alla leggenda
veneziana di Koba il terribile
Parlare ancora di Stalin,
in questi tempi di revisionismo storico, può sembrare, da una parte,
un riflesso tardo ideologico, dall’altra il voler romanticamente
tornare su di una storia che, a tratti, rischia di assumere i toni
dell’agiografia, se non addirittura del mito. Eppure il libro di
Emanuele Termini, L’acqua alta e i denti del lupo (Exòrma,
pp. 192, euro 16), si muove con estrema destrezza ed agilità
letteraria tra questi due estremi, tornando a narrare la controversa,
quanto affascinante, vicenda del «magnifico georgiano» forse di
passaggio in Italia nel lontano 1907.
Il puzzle che lentamente
si compone attraverso i capitoli ben documentati, descrive infatti un
tornante della storia che, benché oramai relativamente lontano nel
tempo, riesce ancora a gettare la sua luce sulla nostra spesso
smemorata attualità, come quelle stelle morte da eoni ma la cui
immagine remota ancora ci giunge dalle profondità del cosmo. Qui,
nello spazio del «c’era una volta», in quel Grande Tempo
sottratto alle cronologie ordinarie, rivive dunque un’avventura
narrata certo altre volte, ma che come tutti i classici ogni volta si
rinnova, brilla come un caleidoscopio di suggestioni inesauribili.
Siamo agli inizi del
secolo breve, quando tutto ancora sembrava possibile perché ogni
utopia creava il suo essere, e per ognuna di esse vi erano donne e
uomini pronti a dare la vita. E il giovane rivoluzionario che viene
descritto nelle prime pagine del libro, molto tempo prima della sua
ultima mutazione nell’uomo d’acciaio, era certamente uno di
questi. Dalla prima giovinezza, sino all’avventura italiana, la
figura del protagonista si trasforma dunque seguendo le molteplici
tracce di un passaggio che l’autore ricostruisce con l’aiuto di
altrettante testimonianze, indizi, supposizioni, documentazioni, mai
definitive ma attente a donare al lettore qualcosa di sempre più
vicino alla verità dei fatti, per quanto possibile.
Sullo sfondo di un’Europa
già sull’orlo dell’abisso ed una Russia zarista oramai morente,
il nostro Koba, allora era questo il suo nome di battaglia, si
imbarca dunque su un cargo diretto da Odessa ad Ancona, e poi dalla
città della settimana rossa si avventura verso Venezia. Si trovano
le prime testimonianze di tutto questo nelle storie scritte da un
giornalista del Corriere Mercantile su una vecchia copia del Candido
di Guareschi, che Termini ha ritrovato, o nella voce stessa dei
proprietari dell’albergo Roma e Pace, oggi chiuso ma un tempo luogo
di gran lusso, che vide gli amori clandestini del Duce, e forse un
aitante georgiano chiedere lavoro.
L’autore ci propone
così un piccolo classico tra giornalismo investigativo e
ricostruzione storica. Passo dopo passo, intervista dopo intervista,
tra padri mechitaristi e vecchie emeroteche, si dispiega sinuosa come
un serpente ipnotico la leggenda di Giuseppe dal ghiaccio, come
ancora viene chiamato in laguna.
Ma allora, Stalin è
realmente venuto in Italia nel 1907? E se sì, perché? Ha fatto
veramente il portiere di notte? E il campanaro a san Lazzaro degli
Armeni? E Corto Maltese cosa c’entra in tutto questo? Perché Hugo
Pratt fa parlare i due al telefono salvando così il bel marinaio
dall’orecchio forato nientemeno che dal plotone di esecuzione?
Infine una confessione:
anche chi scrive questa modesta recensione ha avuto la fortuna di
vivere in prima persona la stessa passione del dare una risposta a
queste domande. Per questo possiamo solo dire, a chi avesse ancora
voglia di avventura e di avventurieri, di cosacchi e di
rivoluzionari, che una storia così non può certo mancarla.
Il manifesto, 10 ottobre
2019