Seconda parte della
nostra piccola storia popolare della rivoluzione cubana (uscita nel
1995), in cui si tratta della gioventù di Fidel Castro, della
fallita insurrezione del 1953 e del processo che ne seguì.
Giorgio Amico
Storia popolare della
rivoluzione cubana
2. IL GIOVANE FIDEL
Figlio di un piantatore
di canna da zucchero della provincia di Oriente, laureatosi in legge
all' Università della Avana, dove si era messo in mostra come il
principale leader della organizzazione degli studenti democratici,
sul finire degli anni Quaranta Fidel Castro aveva intrapreso la
libera professione, assumendo, spesso gratuitamente, il patrocinio
legale di operai, contadini e prigionieri politici. Il coraggio e
l'assoluto disinteresse personale dimostrato in un mondo politico
caratterizzato dalla più bieca viltà e corruzione, lo avevano in
breve tempo imposto all'ammirazione degli elementi più avanzati
della gioventù democratica e nazionalista. Attorno a lui si era così
venuta creando una rete di compagni e di cellule che, pur non avendo
ancora un programma politico né una forma organizzata, aveva
tuttavia assunto le caratteristiche tipiche di un movimento
cospirativo. E in effetti Fidel Castro fu il primo a comprendere che
l'intero quadro politico era ormai radicalmente cambiato e che nella
nuova fase aperta dal colpo di stato militare occorreva far fare al
movimento democratico un salto di qualità. Se fino al marzo 1952 si
trattava di restaurare pienamente la democrazia parlamentare, ora
diveniva necessario rovesciare con le armi la dittatura militare.
Sentiamo la sua testimonianza:
" Cominciai a
pensare a restaurare la situazione anteriore e a unire tutti per
liquidare quella cosa infame e reazionaria che era il golpe di
Batista. Cominciai a organizzare personalmente i militanti poveri e
battaglieri della gioventù ortodossa ed entrai in contatto con
alcuni leaders di quel partito che si dicevano favorevoli alla lotta
armata. Ero convinto della necessità di sconfiggere Batista con le
armi per poter tornare alla situazione anteriore, al regime
costituzionale (...) In poche settimane organizzai i primi
combattenti e le prime cellule. Installammo stazioni radio
clandestine e diffondemmo un piccolo giornale ciclostilato. Avemmo
dei problemi con la polizia, che in seguito ci servirono da
esperienza; da allora in poi, infatti, adottammo metodi estremamente
cauti nella selezione e nell'organizzazione settoriale dei compagni".
(1)
Dopo un anno di intensa
attività cospirativa, l'organizzazione di Fidel poteva contare su
circa duecento giovani militanti, in prevalenza studenti ed operai,
pronti a mettere in gioco la propria vita in un'impresa quasi
disperata: la presa della Caserma Moncada, alla periferia di
Santiago.
L'ASSALTO ALLA CASERMA
MONCADA
La presa del Cuartel
Moncada, per importanza strategica la seconda base militare
dell'isola, avrebbe dato il segnale d'avvio dell'insurrezione
destinata a spazzare via la tirannia di Batista. Il piano,
accuratamente predisposto da Fidel, che stava per compiere 27 anni,
da suo fratello Raúl di 22, da Abel Santamaría e Jesús Montané
Oropesa,(2) prevedeva l'attacco di sorpresa alla caserma, la cattura
dei mille uomini della guarnigione, l'occupazione delle stazioni
radio e il lancio di un appello al popolo cubano perché si unisse
agli insorti. Mentre il grosso dei ribelli avrebbe attaccato il
Moncada, un secondo gruppo di una trentina di uomini sarebbe andato
all'assalto del presidio di Bayamo, importante nodo strategico sulla
strada che collega Santiago con il resto dell'isola. Nonostante il
grande divario di forze, l'impresa poteva avere buone possibilità
di riuscita a condizione però di poter contare sul fattore sorpresa.
Alle cinque della mattina del 26 luglio 1953 i rivoltosi partirono
alla volta degli obiettivi assegnati. Prima ascoltarono un breve
discorso di Fidel:
"Fra poco - egli
disse - sapremo se saremo vincitori o vinti. Se saremo vincitori,
avremo realizzato le aspirazioni di José Martí. (3) Se saremo
vinti, la nostra azione servirà da esempio al popolo di Cuba e sarà
ripresa da altri. In ogni modo il movimento trionferà". (4)
L'attacco, pur condotto
con grande eroismo, si rivelò fin dalle prime battute un disastro.
Dei tre gruppi che dovevano impadronirsi della caserma di Bayamo, due
furono subito quasi interamente sterminati. Il terzo riuscì a
entrare nella caserma, ma fu sopraffatto dalla guarnigione. Anche a
Santiago l'effetto sorpresa andò subito perduto. Per difficoltà
intercorse nell'attraversamento della città solo la metà dei
novantacinque uomini che dovevano impadronirsi della caserma, si
trovarono sul posto al momento dell'attacco. Così Fidel ricostruisce
l'azione:
"Eravamo circa 120
uomini. Un gruppo occupò alcuni edifici, come quello del Tribunale
che dominava un angolo della caserma; altri occuparono le case sul
retro della caserma e il nostro gruppo puntò verso l'ingresso
principale per fare irruzione sul davanti. Io mi trovavo nella
seconda macchina. La sparatoria cominciò al mio fianco, quando
incrociammo una pattuglia di ronda (...) Avendo incontrato quella
pattuglia, la battaglia si sviluppò fuori della caserma e non
dentro, come era stato previsto. I soldati furono messi in guardia,
erano oltre mille uomini, e noi perdemmo il fattore sorpresa e il
nostro piano fallì". (5)
Fallita la sorpresa, gli
insorti, costretti a battersi contro un nemico soverchiante,
dovettero ritirarsi. I soldati circondarono l'ospedale, occupato dal
gruppo di Abel Santamaría e dopo un aspro combattimento catturarono
tutti i 21 combattenti, fra cui due donne. Quasi tutti furono
assassinati subito dopo feroci torture. A Abel, prima di ucciderlo,
strapparono gli occhi. In tutta l'isola venne scatenata una
gigantesca caccia all'uomo per catturare Fidel e gli altri superstiti
dell'attacco. Uno dopo l'altro gran parte dei ribelli vennero
catturati. Molti di essi furono assassinati sul posto. In tutto i
caduti furono settanta. Il 29 luglio venne arrestato Raúl Castro, il
1 agosto fu la volta di Fidel, catturato mentre con alcuni compagni
tentava di raggiungere le montagne della Sierra Maestra. La pressione
di un'opinione pubblica disgustata dalla brutalità dell'esercito e
l'intervento dell'arcivescovo di Santiago valsero a fermare la
carneficina. Fidel e i suoi compagni furono sottratti alla ferocia
della soldataglia e affidati alle autorità civili.Rinchiuso nel
carcere di Boniato, in attesa di processo di fronte al tribunale di
Santiago per aver organizzato e diretto l'assalto alla caserma
Moncada, Fidel divenne famoso in tutta Cuba e il leader riconosciuto
dell'opposizione alla odiata tirannia di Batista. Grande impressione
destò nell'opinione pubblica cubana, anche nella componente più
moderata, il coraggioso atteggiamento tenuto dal giovane avvocato
durante il processo. Nonostante fosse in pericolo di vita, si seppe
poi che lo stesso Batista aveva ordinato il suo assassinio in
carcere, Fidel Castro trasformò il processo in una tribuna da cui
accusare la dittatura per i crimini commessi contro il popolo cubano
e i patrioti insorti.
LA STORIA MI ASSOLVERA'
Il 21 settembre 1953
presso la Corte di giustizia di Santiago si aprì il processo contro
122 imputati, accusati di insurrezione contro i poteri dello Stato.
Orgogliosamente Fidel, che in quanto avvocato aveva rifiutato il
patrocinio legale per difendersi da solo, rivendicò la legittimità
dell'attacco, affermando che i ribelli avevano il diritto di tentare
di rovesciare Batista proprio in nome della Patria e della
Costituzione. Invitato a rivelare i nomi degli ispiratori della
rivolta, con estrema dignità dichiarò ai giudici:
"Il solo autore
morale di questa rivoluzione è José Martí, l'apostolo della nostra
indipendenza". (6)
Di fronte a questo
atteggiamento irriducibile che trasformava il dibattimento in un
processo alla dittatura e all'imperialismo, il governo cercò in ogni
modo di impedirgli di prendere la parola. Fidel, costretto ad un
regime di rigido isolamento carcerario, fu fisicamente impedito di
partecipare al processo. La sua posizione fu stralciata e il nuovo
dibattimento si tenne il 16 ottobre. Il processo si svolse a porte
chiuse e fu consentita solo la presenza di alcuni giornalisti che non
poterono pubblicare nulla a causa della censura. Fidel Castro fu
condannato a quindici anni di carcere. In quell'occasione egli parlò
per due ore a sua difesa, pronunciando un discorso destinato a
diventare il manifesto della rivoluzione cubana. Pacatamente, quasi a
bassa voce, Fidel Castro espose le ragioni politiche e sociali che
rendevano storicamente irreversibile la via rivoluzionaria:
"...Caso insolito,
quello che si stava verificando, signori magistrati: un regime che
aveva paura di presentare un imputato davanti ai tribunali; un regime
di terrore e di sangue che si spaventava davanti alla convinzione
morale di un uomo indifeso, disarmato, isolato e calunniato. Così,
dopo avermi privato di tutto, mi si privava infine del processo nel
quale ero il principale imputato (...)
Vi ricordo che le vostre leggi di
procedura stabiliscono che il processo è "orale e pubblico";
nonostante questo, si è completamente impedito al popolo di
assistere a questa udienza. Si sono lasciati passare solo due legali
e sei giornalisti sui cui giornali la censura non permetterà di
pubblicare una sola parola. Noto che quale unico pubblico, nelle sale
e nei corridoi, ho un centinaio fra soldati e ufficiali. Grazie per
la seria e cortese attenzione che mi si sta prestando ! Magari avessi
davanti a me tutto l'Esercito ! Io so che un giorno brucerà dal
desiderio di lavare la macchia terribile di vergogna e di sangue che
hanno gettato sull'uniforme militare le ambizioni di un gruppetto
senza coscienza... Da parte del governo si è ripetuto con molta
enfasi che il popolo non assecondò il movimento. Non avevo mai
sentito un'affermazione così ingenua e, nello stesso tempo, così
piena di malafede. Si vuole in questo modo evidenziare la
sottomissione e la pusillanimità del popolo; manca poco a che si
dica che esso appoggia la dittatura (...)
Non è mai stata nostra
intenzione combattere contro i soldati della caserma: contavamo
piuttosto, approfittando della sorpresa, di impossessarci del suo
controllo e di quello delle armi, di lanciare un appello al popolo,
quindi riunire i militari e invitarli ad abbandonare l'odiosa
bandiera della tirannia e ad abbracciare quella della libertà; a
difendere i grandi interessi della nazione e non i meschini interessi
di una cricca di persone; a girare le armi e a sparare contro i
nemici del popolo e non contro il popolo in cui si trovano i loro
figli e i loro genitori (...)
Le nostre possibilità di successo si
fondavano su ragioni di ordine tecnico e militare e di ordine
sociale. Si è voluto creare il mito delle armi moderne quale
presupposto di qualsiasi impossibilità di lotta aperta e frontale
del popolo contro la tirannia... Nessuna arma, nessuna forza è
capace di vincere su un popolo che si decida a lottare per i propri
diritti...
Ho detto che la seconda ragione sulla quale si basava la
nostra possibilità di successo era di ordine sociale. Perché avevamo la sicurezza di poter contare sul popolo ? Quando parliamo
di popolo non consideriamo tale quei settori agiati e conservatori
della nazione ai quali sta bene qualsiasi regime di oppressione,
qualsiasi dittatura, qualsiasi dispotismo, i quali si prostrano
davanti al padrone di turno fino a spaccarsi la fronte al suolo.
Consideriamo popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa
irredenta cui tutti promettono e che tutti ingannano e tradiscono,
quella che anela a una patria migliore, più degna e più giusta;
quella che è mossa da ansie ancestrali di giustizia per aver
sofferto l'ingiustizia e lo scherno generazione dopo generazione;
quella che aspira a grandi e sagge trasformazioni in ogni ordine e
che per riuscirci è disposta, allorquando crede a qualcosa e in
qualcuno, soprattutto quando crede in se stessa, a dare fino
all'ultima goccia di sangue. La condizione primaria della sincerità
e della buona fede in un proposito è di fare, appunto, quello che
nessuno fa, vale a dire, di parlare con tutta franchezza e senza
paura (...)
I rivoluzionari devono proclamare le loro idee
coraggiosamente, definire i loro principi ed esprimere le loro
intenzioni perché non si inganni nessuno, né amici né nemici. Noi
chiamiamo popolo, quando si parla di lotta, quei seicentomila cubani
che sono senza lavoro e che desiderano guadagnarsi il pane
onestamente senza dover emigrare dalla propria patria alla ricerca di
sostentamento; quei cinquecentomila braccianti che vivono nei miseri
bohios (7), che lavorano quattro mesi all'anno e che per il resto
soffrono la fame e spartiscono la miseria con i figli, che non hanno
neanche un fazzoletto di terra su cui seminare... quei
quattrocentomila lavoratori dell'industria e quei manovali le cui
pensioni, tutte, vengono defalcate, le cui conquiste vengono
strappate, le cui abitazioni sono le stanze infernali delle
cuarterias (8), i cui salari passano dalle mani del padrone a quelle
dello strozzino e il cui futuro è la riduzione del salario e il
licenziamento, la cui vita è il lavoro perenne e il cui riposo è la
tomba; quei centomila piccoli agricoltori che vivono e muoiono
lavorando una terra che non è loro... che devono pagare i loro
appezzamenti, come servi della gleba, con una parte del loro
prodotto, che coltivano una terra che non possono amare, né migliorare, né abbellire... perché non sanno qual'è il giorno in
cui verrà l'ufficiale giudiziario con la guardia rurale a dire loro
che devono andarsene... Questo è il popolo, quello che patisce tutte
le avversità ed è pertanto capace di combattere con estremo
coraggio (...)
Il problema della terra, il problema
dell'industrializzazione, il problema della casa, il problema della
disoccupazione, il problema dell'educazione e il problema della
salute del popolo; ecco in concreto i sei punti alla cui soluzione
sarebbero stati indirizzati risolutamente i nostri sforzi, unitamente
alla conquista delle libertà civili e della democrazia politica...
Il futuro della nazione e la soluzione dei suoi problemi non possono
continuare a dipendere dall'interesse egoista di una decina di
finanzieri, dai freddi calcoli sui profitti che dieci o dodici
magnati progettano nei loro uffici con l'aria condizionata... I
problemi della repubblica troveranno una soluzione solo se ci
dedichiamo a lottare per essa con la stessa energia, rettitudine e
patriottismo che le dedicarono i nostri liberatori per crearla...
Un
governo rivoluzionario con l'appoggio del popolo e la stima della
nazione, dopo aver ripulito le istituzioni dai funzionari venali e
corrotti, procederebbe immediatamente all'industrializzazione del
paese... dopo aver sistemato sulle loro parcelle di terra nella veste
di padroni i centomila piccoli agricoltori che oggi pagano i canoni,
procederebbe a risolvere definitivamente il problema della terra...Un
governo rivoluzionario risolverebbe il problema della casa riducendo
drasticamente i canoni del cinquanta per cento, esentando da ogni
tributo le case abitate dai loro proprietari, triplicando le imposte
sulle case affittate, demolendo le infernali cuarterias per innalzare
al loro posto edifici moderni e finanziando la costruzione di
abitazioni in tutta l'isola....Infine, un governo rivoluzionario
procederebbe alla riforma integrale dell'istruzione (...)
"Un
popolo istruito sarà sempre forte e libero"... No, questo non è
inconcepibile. Quello che è inconcepibile è che ci siano uomini che
vanno a dormire con fame mentre c'è anche un solo metro di terra
incolta; quello che è inconcepibile è che il trenta per cento dei
nostri contadini non sappia firmare... A coloro che per queste cose
mi chiamano sognatore, dico come Martí: "Il vero uomo non
guarda da quale parte si vive meglio, ma da quale parte si trova il
dovere... ed è questo l'unico uomo pratico il cui sogno di oggi sarà
la legge di domani" (...)
Concludo la mia difesa, ma non lo farò
come fanno sempre tutti gli avvocati chiedendo la libertà del
patrocinato; non posso chiederla quando i miei compagni stanno
patendo un'ignominiosa prigionia nell'Isola dei Pini. Mandatemi
assieme a loro a condividere la loro sorte; è più concepibile che
gli uomini onorati vengano uccisi o fatti prigionieri in una
repubblica dove come presidente c'è un ladro criminale... In quanto
a me, so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per
nessuno, gravido di minacce, di vile e codardo accanimento, ma non lo
temo, come con temo la furia del tiranno miserabile che strappò la
vita a settanta fratelli miei. Condannatemi, non importa, la storia
mi assolverà". (9)
NOTE:
- Frei Betto, op. cit. , pag.133
- Abel Santamaria, studente, comandante in seconda dell'assalto al Moncada. Catturato dai soldati, fu assassinato dopo feroci torture. Jesús Montané Oropesa, impiegato, dopo l'assalto al Moncada e la successiva aministia raggiunse Fidel in Messico. Membro della Direzione nazionale del movimento 26 Luglio, venne catturato subito dopo lo sbarco e trasferito all'Isola dei Pini dove trascorse tutto il periodo della guerra rivoluzionaria. Dopo la rivoluzione rivestì la carica di direttore delle carceri e poi di ministro delle comunicazioni. Membro del Comitato Centrale del PCC.
- Scrittore e poeta. Padre dell'indipendenza cubana, caduto in combattimento contro gli spagnoli nel 1895. In italiano è da poco apparsa la traduzione di: Vitier-Fernández Retamar, Martí, Roma 1995.
- S. Tutino, L'Ottobre cubano, Torino 1968, pag. 203.
- Frei Betto, op. cit., pp.139-140
- T. Szulc, Fidel, Milano 1989, pag. 212.
- Tipica abitazione dei contadini poveri, fatta con tavole di palma, tetto di foglie e pavimento di terra.
- Le cuarterias erano abitazioni popolari prive di servizi igienici e in grave stato di degrado, ubicate soprattutto alla periferia delle città.
- F. Castro, op.cit., pp. 22-80