Asger Jorn, Manifesto del Maggio
1968: la contestazione (come viene chiamata allora la rivolta giovanile che scuote le metropoli) rimette in causa anche il mito della Resistenza.
Giorgio Amico
La grande
contestazione del '68 e dei primi anni '70.
Preparata dai fermenti
degli anni '60 nel 1968 inizia la stagione della protesta, esplodono
le contraddizioni e le tensioni che si sono via via accumulate negli
anni del boom e poi del riformismo mancato del centrosinistra. Il
1968-69 sono gli anni della grande contestazione, prima studentesca e
poi operaia, della rimessa in discussione di tutti i valori (reali e
presunti) su cui si è retto un ventennio. Tutto è rimesso in
discussione. La rivolta è politica e sindacale, ma soprattutto
generazionale. E' il mondo dei padri che viene radicalmente rifiutato
con una forza mai vista prima.
Prima che una rivoluzione, il '68 è
un rito collettivo con cui simbolicamente ci si vuole lavare dalle
colpe dei padri. Una rivolta, non priva di riflessi edipici, che
trova la sua prima rappresentazione in “I pugni in tasca” (1965),
film di esordio di un giovanissimo Bertolucci. Film che fa scandalo
per l'aggressività dei toni e la ferocia con cui si disseziona il
quadro fino ad allora rassicurante della famiglia cattolica,
borghese, benpensante.
Anche la Resistenza è radicalmente ripensata.
Torna il mito della Resistenza tradita, della rivoluzione mancata nel
1945 per la viltà opportunistica di un partito comunista che non ha
avuto il coraggio di andare fino in fondo, costi quello che costi. E
fino in fondo vogliono andare i giovani, insofferenti ad ogni
mediazione, ad ogni riforma parziale. “Siate realisti, chiedete
l'impossibile” recita uno slogan del Maggio francese. “Corri,
compagno, il vecchio mondo è dietro di te” incita un altro. Il
mondo si è messo davvero a correre e non solo in Italia. In Vietnam
la superpotenza USA non riesce a piegare la resistenza di un piccolo
popolo di contadini, l'America Latina è nel segno del Che un solo
focolaio guerrigliero, a Praga e a Varsavia i giovani si rivoltano
contro il dispotismo sovietico, il Potere nero scuote le metropoli
americane. Tutto sembra possibile, non è più il tempo delle
mediazioni. E' l'ora del fucile proclama una canzone del 1971.
Gli anni di piombo sono dietro l'anno, ma i giovani ancora non lo
sanno. Inizieranno a comprenderlo nel dicembre '69 con i morti di
Piazza Fontana. E' il momento della perdita dell'innocenza, l'inizio
delle deriva che porterà in breve alla lotta armata. Anche al cinema
l'antifascismo diventa militante e più che narrare la Resistenza
parla del presente. Non a caso il decennio si apre con “Corbari”
di Valentino Orsini, dove i partigiani sembrano guardie rosse della
Rivoluzione culturale cinese (manca solo il libretto rosso di Mao) e
i padroni delle fabbriche (naturalmente fascisti) vengono
sequestrati, sottoposti a un processo popolare e appesi per i piedi.
Ma non è solo trionfo della retorica “rivoluzionaria”, è anche
il momento del ripensamento critico.
Gli anni Settanta portano con
sé, lo abbiamo visto, la morte dei padri, la fine delle certezze, la
crisi delle narrazioni ufficiali dell’antifascismo. L'Italia
presente, gattopardesca, conformista e ipocrita, proietta una luce
ambigua anche sulla Resistenza. “La strategia del ragno” (1970)
di Bernardo Bertolucci è l'espressione più intensa di questo stato
d'animo. Ispirato al tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis
Borges, il film è interamente girato nel segno dell’ambiguità,
della linea sottile che separa realtà e finzione. Bertolucci racconta la storia di Athos Magnani, figlio di un eroe
antifascista il quale, tornato trent’anni dopo nella bassa padana,
scopre che la verità è un'altra, che il mito paterno non ha
fondamento eppure ha un senso e uno scopo. E decide di tacere.
Gli anni '70 sono anche
gli anni della rivolta femminista, della riscoperta di uno specifico
femminile sempre negato. A suo modo anche il cinema della Resistenza
ne tiene conto. “L'agnese va a morire” di Giuliano Montaldo
(1976) rompe finalmente il silenzio del cinema sul ruolo avuto dalle
donne nella Resistenza. Tratto dal libro di Renata Viganò edito nel
1949, il film (che è anche un commosso omaggio al Rossellini di
Paisà) si mantiene fedele al romanzo nel disegnare la figura di una
contadina analfabeta che sceglie di stare con i partigiani non per
scelta ideologica o politica, ma perché contro le “cose ingiuste”
e che nella lotta trova finalmente per portare allo scoperto una
identità sua propria, femminile, che gli uomini, a partire dal marito
comunista, non le hanno mai davvero riconosciuta.
(Giorgio Amico, Da "Roma
città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza
nella filmografia italiana 5)