Nell'ambito del corso di aggiornamento
per docenti a cura dell'ANPI di Savona La Resistenza nelle scuole. Fonti e
metodi 2
22 marzo 2018
ore 16.00
presso l'ISS Patetta
Via XXV Aprile – Cairo M.
La Resistenza nella filmografia
italiana
a cura di Giorgio Amico
L'incontro è aperto al pubblico
Anticipiamo la prima parte della relazione.
Giorgio Amico
Resistenza e Cinema
Non sono molti i lavori
che il cinema italiano ha dedicato alla Resistenza. Una sessantina di
film in tutto, ma sufficienti a disegnare una sorta di percorso di
come l'Italia repubblicana si è posta di fronte alla guerra di Liberazione.
Un percorso complesso e
contradditorio, segnato dall'alternarsi degli stati d'animo
collettivi e del clima politico, riassumibile in alcune grandi
stagioni che segnano la storia del cinema italiano e al contempo
quella del dopoguerra dalla Liberazione alla attuale “Seconda
Repubblica”. Un po' schematicamente si può parlare di sei periodi:
1. Il primo dopoguerra e
il cinema neorealista (1945-1951)
2. Gli anni grigi della
censura (1951- 1960)
3. Il risveglio del
cinema italiano negli anni ’60
4. La grande
contestazione del '68 e dei primi anni '70
5. Il riflusso degli anni
'80 e il declino del cinema impegnato
6. Il nuovo millennio
Pur nel mutare delle
situazioni e delle sensibilità, cambiamento che come vedremo
presentò anche in alcuni casi aspetti traumatici, si possono
tuttavia notare nella rappresentazione cinematografica del tragico
periodo 1943-1945 alcune caratteristiche di fondo che restano
inalterate nel tempo.
La prima è il carattere
unidimensionale degli eventi presentati. Quella narrata dal cinema è
più la storia della guerra di liberazione che della Resistenza nella
sua integralità. Anche per motivi spettacolari l'attenzione è
rivolta quasi esclusivamente al racconto di episodi o storie della
lotta armata. Poco trattata è quella che è stata definita da alcuni
storici la “Resistenza passiva”, il rifiuto quotidiano
dell'occupazione nazista, il sostegno ai partigiani fatto di piccoli
gesti, l'abbraccio protettivo di territori interi come le Langhe,
l'Apennino ligure e quello tosco-emiliano, senza il quale la stessa
lotta armata non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopravvivenza e
di riuscita.
Lo evidenzia Beppe
Fenoglio in una pagina bellissima dei suoi Appunti partigiani:
battere i tedeschi e i fascisti, scrive, “non fu abilità nostra.
Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la
nostra grande madre Langa”. Una realtà ovviamente presente nella
filmografia resistenziale, ma mai da protagonista, sempre come sfondo
(qualche volta anche sfuocato), tranne che per “Il partigiano
Johnny”, film del 2000, straordinariamente atipico e bello proprio
in quanto prima di tutto robustissimo film di paesaggio.
Altrettanto assente è la
Resistenza dei soldati italiani deportati in Germania
dopo l’8 settembre e utilizzati come manodopera forzata nelle
industrie e nelle miniere tedesche. Un popolo di schiavi, decimato
dalla fame e dalle malattie, la cui condizione era di poco migliore
di quella degli ebrei e che nonostante questo rifiutò l'adesione
alla Repubblica Sociale e il ritorno in Italia. Una realtà
trascurata anche dalla storiografia tanto che il libro “L'altra
Resistenza. I militari italiani internati in Germania” di
Alessandro Natta (pubblicato con poca fortuna nel 1954) restò per
lungo tempo la sola opera in materia. Una storia dimenticata anche
dal cinema, l'unico riferimento rintracciabile è un brano di un film
comico interpretato da Totò, Siamo uomini o caporali di Camillo
Mastrocinque del 1955, in cui viene rappresentata (anche se in
maniera semifarsesca) la condizione dei soldati italiani internati
nei lager. In entrambi i casi comunque una Resistenza “militare”,
una questione prevalentemente maschile con le donne, messe sullo
sfondo come la rivolta silenziosa delle madri ne “Le quattro
giornate di Napoli” di Nanni Loy o protagoniste di singoli episodi
come la Anna Magnani “Pina” (non a caso premiata come migliore
attrice non protagonista) nella sequenza più famosa di
“Roma città aperta”.
All'interno di questa
caratterizzazione prevalentemente maschile tipica (a partire da
quello americano) del cinema “di guerra”, genere in cui (con
qualche forzatura) si può far rientrare anche il filone
resistenziale, si inseriscono poi autocensure e vere proprie
rimozioni al fine di salvaguardare il mito degli “italiani brava
gente” e una visione meramente patriottica della guerra di
Liberazione. Quasi sempre i cattivi sono i soldati tedeschi,
rappresentati come simbolo impersonale di una ottusa e bestiale
ferocia. Poco si parla dei repubblichini, fascisti si, ma pur sempre
italiani. Poco si parla, soprattutto, delle differenziazioni
politiche fra le formazioni partigiane, del carattere di classe della Resistenza nelle fabbriche, della lotta nelle città. Una
pagina scomoda, quella della guerra dei GAP, fatta di attentati e
di esecuzioni di spie e di repubblichini, che poco aveva di spettacolare
e molto di politico. Un terreno scivoloso per molti motivi (a partire
dalla natura terroristica delle azioni), una materia difficile da
trattare, non a caso ripresa (con qualche ambiguità), proprio negli
anni bui del terrorismo. Pochissimo trattato, infine, il tema della
guerra civile, vero e proprio tabù a sinistra almeno fino agli anni
'90 quando Claudio Pavone pubblicherà il suo “Una guerra civile”,
opera fondamentale per comprendere la complessità della Resistenza,
al contempo guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe.
Quello che di certo non
c'è nei film sulla Resistenza italiana è il trionfalismo. E' sempre
con un certo pudore che il cinema si è accostato alla vittoria
finale dei partigiani. Solo in “Mussolini ultimo atto” di Carlo
Lizzani una lunga sequenza è dedicata all'insurrezione vittoriosa
rappresentata come uno sventolio di bandiere rosse issate sulle
ciminiere delle fabbriche da operai in armi. Per il resto silenzio.
La Liberazione è spesso evocata, mai descritta. Esemplare resta il
finale di Paisà: un cielo livido sovrasta il Po che ha appena
inghiottito i corpi di un gruppo di partigiani fucilati dai nazisti.
Uno scenario spettrale su cui appare la scritta “Due mesi dopo la
guerra era finita”. Tutto è silenzio, solo il sibilare del vento
che fa ondeggiare le canne delle paludi. Qualcuno ha parlato di
“rimozione”, ma non di questo si tratta. Per il cinema italiano,
da “Roma città aperta” a “Il partigiano Johnny”, il punto
nodale non è tanto il 25 aprile, quanto l'8 settembre, quando tutto
è cominciato, il momento delle scelte, quello in cui un popolo
diseducato da vent'anni di dittatura e disorientato dalla sconfitta
inizia faticosamente a risollevarsi e a prendere nelle proprie mani il
destino di un paese devastato.