Hypnos e Thanatos, il
Sonno e la Morte. I «gemelli veloci», come li definisce Omero
nell’Iliade. Una affascinante riflessione di Raffaele K. Salinari.
Raffaele K. Salinari
Narciso e la narcosi, da Amleto a
Diabolik
Amleto e Diabolik, uomini
che appartengono a immaginari apparentemente diversi, ma accomunati,
oltre che dalla immancabile calzamaglia nera, da una vicinanza intima
con la morte e dall’amore assoluto per una donna che scandisce il
ritmo ed il senso della loro vita. Ma, oltre a questo, li lega
qualcosa di più… etereo, come vedremo.
E allora, «essere o non
essere, questo è il problema… Morire, dormire, forse sognare. Sì,
perché in quel sonno di morte quali sogni possono venire dopo che ci
siamo sottratti a questo groviglio letale…». Il dilemma amletico
sull’essere o il non essere, assume così finalmente la forma della
relazione tra il sonno e la morte, tra i sogni e il sognatore, tra
l’immagine e il suo riflesso. Il Principe di Danimarca epitomizza
nel suo tragico monologo tutti gli elementi di una tensione vecchia
quanto la storia della coscienza, o forse ancora più arcaica, che
risale al tempo in cui la «mente bicamerale» non era ancora
crollata, come ci dice J. Jaynes nel suo omonimo libro, organizzando
la scissione tra noi e l’essere del Mondo.
Ma Amleto, nel dubbio,
ritrova anche antiche certezze: che il Sonno e la Morte, insieme,
animano le visioni oniriche portatrici delle verità ultime e,
ancora, come a volte i sogni siano quei guaritori che fanno uscire il
corpo risanato al risveglio. La sua tormentata ricerca anela, allora,
a qualcosa di più intimo: al segreto del sonno come mezzo per
allontanarsi dal crinale scosceso che porta dal dolore fisico sino al
reame della morte. Una strada a ritroso che muove i suoi passi dalla
storia del Narciso, il fiore simbolo dell’oblio, della narcosi (da
narkan, diventare torpido, paralizzarsi), dell’abbandono al sonno
profondo e senza sogni. Passando per piante legate ad altrettante
tradizioni, l’oppio, la mandragola, l’hascisc, sino alle moderne
tecniche di anestesia, la mitologia e la medicina si intrecciano per
donare così all’umanità forme diverse di beatitudine e speranza.
I gemelli veloci
E dunque, morire,
dormire, forse sognare… Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte. I
«gemelli veloci», come li definisce Omero nell’Iliade, erano in
apparenza indistinguibili l’uno dall’altro (da qui la celebre
locuzione latina consanguineus lethi sopor, il sonno è parente
della morte). Solo i loro emblemi li rendevano distinguibili
nell’altrimenti impercettibile differenza: Thanatos era raffigurato
con una fiaccola spenta, simbolo della vita oramai finita, o con le
gambe intrecciate, come usava posizionare i morti nell’antichità;
Hypnos dispensava invece petali di papavero. Nelle teogonie
classiche, come quella di Esiodo, il Sonno e la Morte sono in
relazione essenzialmente complementare, come polarità opposte di una
stessa unità, quella che ordina il ciclo dell’esistenza. É questo
ciò che intimamente li accomuna come stati che trapassano l’uno
nell’altro: Hypnos specchio di Thanatos.
Entrambi, infatti,
nascono da Nyx, la notte, e da suo fratello Erebo, la tenebra infera.
Sono tra i primi figli di Caos, da cui poi, per separazioni
successive, venne tratto il Cosmo, l’ordine che diede vita al
Mondo. E dunque, seppure generati dalla combinazione delle stesse
Potenze – la notte che porta il sonno e la esiziale tenebra eterna
– le esprimono in proporzioni differenti, il che li rende speculari
sì, ma niente affatto identici.
Anche la loro dimora li
separa ed al tempo stesso li accomuna: mentre il Sonno sosta
nell’antro che si affaccia sull’Ade in prossimità del fiume Lete
– in cui scorrono eterne le acque dell’oblio delle quali bevono
le anime prima di reincarnarsi, come ci narrerà Er nel mito
platonico a conclusione del Libro X della Repubblica – la
Morte abita invece il suo tenebroso interno. La loro somiglianza è
dunque solo formale; il Sonno, insieme ai suoi figli, pertiene allo
stato dell’essere: entra ed esce dai corpi, «senza fare o subire
alcuna violenza» – come afferma Platone riferendosi
al daimon Eros, che con esso fa mostra di un’affinità
evidente – e, al contrario della Morte, permette ai corpi di uscire
ed entrare in lui.
Il suo gemello senza
figli, «dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo», pertiene
invece allo stato del non essere: entra nel corpo e separa da esso
l’anima eterna. In questo e per questo è l’opposto sia del Sonno
che di Eros poiché, come ci ricorda Bataille nella sua celebre
definizione, l’erotismo è tutto ciò che «porta la vita sin
dentro la morte», inclusa quella peculiare narcosi erotica prodotta
dalle endorfine.
Eppure, ed è un
particolare rimarchevole, entrambi i gemelli sono belli poiché,
appartenendo al Cosmo, fanno parte della sfera della cosmesi che, al
tempo stesso, come ci ricorda Salustio nel suo Degli dei e del
mondo, significa sia bellezza che ordine.
Morfeo
Morfeo
Il Sonno ed i suoi sogni
Abbiamo detto che Hypnos
ha dei figli; tra questi Morfeo, Momo e Fobetore sono gli Oneiroi,
i signori dei sogni, che li recano agli uomini a seconda della loro
specialità. Morfeo (colui che porta la forma), infatti, era il
governatore dei sogni popolati da figure, Momo (il biasimo) quello
delle immagini inconfessabili, Fobetore (che porta il pauroso) degli
incubi. Tutta la mitologia dei Greci è attraversata da sogni e
apparizioni oniriche ma, per coloro i quali decidevano di avvicinarsi
agli dei e non solo di rispettarli, esisteva una particolare
tipologia di sogni che poteva essere generata solo dai due gemelli
insieme: la visione onirica iniziatica. Tanto sul piano mitico quanto
sul piano storico, infatti, il procedimento iniziatico era legato sia
ad una sorta di simbolica discesa all’Ade, sia all’incubazione:
il dormire in un luogo sacro.
Come ci ricorda D.
Susanetti nel suo La via degli dei, «l’iniziazione è una
esperienza di morte o, meglio, è l’emozione stessa del morire e di
ciò che accade dopo quell’istante». Di tutto questo il momento
culminante è ciò che ad Eleusi si chiamava epopteia, cioè la
visione di «quelle cose». Come dice l’inno omerico a Demetra:
«Beato colui che ha visto quelle cose: conosce la fine della vita ed
il suo principio». E dunque Sonno e Morte rinnovano il significato
simbolico della loro gemellarità nel dare all’uomo la visione, il
sogno lucido delle cose ultime.
D’altra parte i Greci
non parlavano mai di «avere» o «fare» un sogno, ma sempre
di vederlo. Ancora, non solo il sogno visita il sognatore, ma
«gli sta sopra», dice Erodoto; «stava sopra la sua testa» canta
Omero a significare la potestà onirica di influenzare profondamente
la realtà soggettiva del dormiente.
E dunque, anche se ora
sembra un dato dimenticato, nacque dalla Grecia il nostro mondo,
dalla civiltà che eresse templi-clinica ai sogni, dove non si mirava
soltanto a guarire le malattie, ma anche ad incubare rivelazioni.
Dice Platone nella Repubblica (IX, 1) che è disgustoso il
sogno banale (l’unico a noi rimasto?); insegnava Zenone che la
bontà si misura dalla purezza dei sogni, e Filostrato racchiuse
tutta la sua dottrina nella frase «la divinazione nel sogno è la
parte più divina dell’uomo».
Il Sonno senza sogni
E allora vediamo bene
come tra sogno e guarigione passa una relazione altrettanto stretta
di quella che lega sogno, morte iniziatica e visione del divino. Ma
se Hypnos aveva il potere di addormentare e far sognare uomini e dei
– come ricorda Omero nel XIV libro dell’Iliadequando narra come
Era lo pregasse di addormentare Zeus affinché Poseidone potesse
portare aiuto ai Greci – o di lenire i dolori assicurando un
temporaneo oblio, non era altrettanto potente nel non farli ridestare
a fronte di un dolore che colpisse violentemente il corpo.
E allora, sin dagli
albori, la medicina è stata alla ricerca di un sonno che fosse tanto
profondo per cui, anche un dolore fisico a livello viscerale, non
potesse svegliare il dormiente: una anestesia. La storia del sonno
indotto, dunque, è antica quanto l’umanità; la prima
osservazione, che ritroviamo già nella civiltà babilonese tremila
anni a.C., è quella che il freddo aumenta la soglia del dolore, in
altre parole addormenta la parte. Ecco che, allora, per
certi interventi come quelli di estrazione dentaria o ricomposizione
di una frattura, si utilizzavano impacchi gelati. Anche la medicina
egizia usava correntemente queste pratiche, sostenute da una vasta
farmacopea a base di oppio ed hascisc, o combinazioni di altre piante
cosiddette narcotiche, capaci cioè di indurre uno stato di
passeggero
intorpidimento che
inibiva la percezione dolorifica.
Ma per interventi più
profondi, che mettevano in gioco la sensibilità diffusa del
soggetto, bisognava ricorrere al sonno, ad Hypnos. Questo si otteneva
comprimendo le carotidi dai due lati del collo per generare così una
forma di ischemia temporanea al cervello che induceva uno svenimento,
e dunque un certo livello di incoscienza, atto a sostenere
l’analgesia, l’amnesia ed il rilassamento. Sono tre
caratteristiche importanti che, tutte insieme, fanno una buona
anestesia, termine introdotto solo nel XIX secolo dal medico e poeta
O. W. Holmes, che lo mutuò dal greco ἀναισθησία (cioè
mancanza della facoltà di sentire). L’incoscienza, infatti, ha a
che vedere sia con l’amnesia, cioè la soppressione del ricordo,
che come si può intuitivamente capire gioca un ruolo non secondario
nel processo stesso di guarigione, sia con l’analgesia, cioè la
soppressione del dolore, che serve per non scatenare quelle reazioni
a livello di sistema nervoso viscerale che possono portare alla morte
per shock. Il rilassamento, d’altra parte, favorisce le manovre
chirurgiche.
Con la nascita della
filosofia Scolastica ed il conseguente incremento dello studio dei
fenomeni naturali visti come parte della verità divina, entra ancora
più in gioco, almeno in Europa, l’uso delle erbe. Già conosciute
nell’antichità, in quel periodo, e sino all’epoca dei Lumi,
venivano studiate nelle loro caratteristiche farmaceutiche combinate,
sempre al fine di ottenere un sonno più profondo e prolungato.
Mandragora, luppolo, valeriana, tiglio, meliloto, passiflora, oltre
ai classici oppio e hascisc, sono i componenti più utilizzati in un
periodo nel quale anche la medicina, pensiamo solo alla Scuola medica
salernitana, comincia la sua strada come disciplina autonoma. I punti
di debolezza di queste droghe, usate come anestetico, sono
sostanzialmente due: la lunghezza e la profondità dell’anestesia.
Se si ha bisogno di più tempo si rischia di avere a che fare con un
paziente che si sveglia, con tutte le conseguenze che si possono
immaginare, ma anche la profondità della narcosi non copre lo
scatenarsi di quei riflessi che causano lo shock mortale, specie se
si tratta di operare direttamente sui visceri.
Gabinetto di riflessione
Gabinetto di riflessione
Da V.I.T.R.I.O.L. a
Diabolik
Ecco allora che bisogna
chiamare in causa gli alchimisti per cominciare la storia
dell’anestesiologia moderna, legata ad una sostanza affatto
particolare: l’etere etilico. È infatti l’alchimista Raimondo
Lullo che viene indicato come lo scopritore di questo composto, nella
seconda metà del XIII secolo. L’ipotesi è sostenuta dal nome
stesso del prodotto, chiamato «olio dolce di vetriolo» (oleum dulci
vitrioli) poiché era stato originariamente ottenuto tramite
distillazione di una miscela di etanolo e acido solforico (noto
all’epoca come vetriolo).
Ma l’acronimo,
V.I.T.R.I.O.L., che compare nell’opera Azoth del 1613
dell’alchimista Basilio Valentino, significa in latino: «Visita
Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», cioè
«Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai
la pietra nascosta». La frase continuava alle volte con le
parole Veram Medicinam, a indicare che la «pietra» (quella
filosofale) è anche il «vero rimedio» per ogni malattia. La
locuzione si trova ancora oggi nella simbologia massonica, associata
alla discesa all’interno della propria coscienza per operarne la
risalita verso la luce del divino, scopo di ogni autentico Libero
Muratore.
Fu Paracelso, altro
medico-alchimista e fondatore della spagirica, a scoprire, nello
stesso periodo, il potere analgesico dell’etere. Il nome
di etere venne attribuito alla sostanza da A. S. Frobenius
nel 1730; lo chiamò così mutuandone il nome da Etere, una divinità
primigenia dell’antico pantheon Greco pre-olimpico, potenza del
cielo superiore e più puro, dell’aria rarefatta ed… eterea che
solo gli dei respirano. Anche lui, non a caso, è fratello di Hypnos
e Thanatos: Esiodo nella sua Teogonia (v. 124-125) ce lo
indica come figlio di Erebo e Nyx, i genitori dei «gemelli veloci».
Ma dovevano passare più
di cento anni prima che le doti anestetiche dell’etere fossero
applicate direttamente alla medicina: il dottor C. W. Long fu il
primo chirurgo ad utilizzarlo per un’anestesia generale nel 1842,
senza però pubblicare i risultati. L’uso della sostanza divenne di
dominio pubblico solo con l’anestesia compiuta da W. G. Morton nel
1846, che dunque può considerarsi il primo anestesista moderno.
Comincia così la storia
dell’anestesiologia attuale, che vede il rapido susseguirsi di gas
anestetici e prodotti chimici di varia famiglia, pensiamo al
Pentothal o «siero della verità», un barbiturico spesso usato
anche da Diabolik nei suoi interrogatori. Il principe del crimine,
infatti, è uno specialista nell’uso dei narcotici, e ne ha sempre
una scorta pronta nei suoi vari e fantastici rifugi.
Concludendo, sempre più
gestibili ed efficaci, questi farmaci sono oggi in grado di poter
portare chiunque in una sala operatoria e fargli vivere l’esperienza
del sonno senza sogni ma anche, e non è poco, quella del risveglio.
Il Manifesto/Alias – 24
febbraio 2018