Nel
1947 Giulio Andreotti è nominato (su input Vaticano) sottosegretario
allo spettacolo. Inizia il decennio nero del cinema italiano. Non si
salverà nessuno: neppure Totò e Humphrey Bogart. La Resistenza
sparisce dagli schermi cinematografici.
Giorgio Amico
Gli anni grigi della
censura (1951- 1960)
Introdotta in epoca
fascista con la creazione di una Direzione generale per la
cinematografia, la censura prevedeva forme di controllo sulla
circolazione dei film tramite la concessione di appositi nulla osta.
Nel dopoguerra normativa e apparati erano rimasti immutati: presso la
Presidenza del Consiglio continuava a funzionare un Ufficio Centrale
per la Cinematografia. Dal 1947 sottosegretario allo spettacolo sarà
il giovane Giulio Andreotti, nominato a soli 28 anni da De Gasperi su
consiglio di monsignor Montini (il futuro Paolo VI) allora esponente
importante della Curia romana. Andreotti (a cui dalla fine del 1953
succederà un ancora più rigido Oscar Luigi Scalfaro, allora
esponente della destra DC) si accanisce a tagliare tutto quello che
può sembrare una minaccia anche minima alla pace sociale e alla
morale cattolica.
Sotto i colpi di forbice
di Andreotti (e Scalfaro) finiscono tutti i film che trattano
argomenti scomodi, come l'esistenza in Italia di un partito comunista
di cui non si doveva assolutamente parlare. Così si taglia ne La
Spiaggia (bellissimo film di Lattuada girato nel 1954 a
Spotorno), la figura del sindaco comunista. E poco importa se il film
non ha intenti politici. E' rimasta celebre la scena di Totò e
Carolina, in cui Totò poliziotto alla guida di una jeep finita
fuori strada viene soccorso da una camionetta carica di militanti
comunisti che cantano Bandiera rossa e naturalmente il canto è
cancellato e ai giovani si fa cantare una canzone patriottica “Di
qua di là dal Piave”.
Per tutto il decennio la
Resistenza sarà la grande rimossa dal cinema italiano, dedito ormai
a sfornare a getto continuo prodotti di pura evasione: i melodrammi
strappalacrime di Raffaello Mattarazzo, una sorta di “neorealismo
popolare” (riscoperto e riabilitato proprio a Savona in una
rassegna del 1976 da Tatti Sanguinetti e da un giovanissimo Carlo
Freccero), i film comici ricalcati sul varietà e l'avanspettacolo
con Totò, Rascel, Macario, le commedie tipo “Pane, amore e
fantasia” di Luigi Comencini (1953) o “Poveri ma belli” (1956)
e a partire dal 1958 una lunga serie di film storico-mitologici, i
cosiddetti “peplum”, destinati ad essere soppiantati negli anni
'60 dal filone degli spaghetti western. Tutti film a basso costo che
incassano moltissimo rispetto al capitale investito.
In attesa della
televisione che sta per arrivare il cinema resta la forma di svago
preferita dagli italiani e il numero delle sale cresce costantemente
passando dalle 6500 del 1948 alle quasi 10.000 del 1954 un terzo
delle quali gestite dalle parrocchie. Anche la Chiesa attraverso il
Centro Cattolico Cinematografico (CCC) passa al vaglio i film. Sulla
porta delle chiese soprattutto nelle città sono elencati i titoli
dei film in programmazione con a fianco un voto (per tutti, adulti,
adulti con riserva, escluso) che indicava cosa si potesse vedere e
cosa no. L'attività del CCC condiziona pesantemente i produttori:
potendo influenzare sensibilmente la riuscita economica di un film,
il giudizio della Chiesa rappresenta una forma tacita, ma efficace di
censura preventiva.
Persino le Forze Armate
hanno titolo nella valutazione di cosa gli italiani possono vedere.
Nel 1954 il film “Senso” di Luchino Visconti ambientato nel 1866
viene amputato di una scena in cui i patrioti criticano il
comportamento dell’esercito. Il titolo stesso, che doveva essere
“Custoza”, viene cambiato perchè non si può neppure quasi un secolo
dopo mettere in risalto una pagina poco gloriosa della storia
d'Italia.
Anche “Casablanca”
(1942), un film ancora oggi di culto, non passa indenne al vaglio dei
censori: il protagonista, gestore disincantato di un night, ha un
passato di militante rivoluzionario che lo ha condotto in Etiopia a
appoggiare la resistenza contro gli invasori fascisti. Ma questo non
si può dire e nella versione italiana tutto si trasforma in un
innocuo “aiuto ai cinesi”.
Stando così le cose non
è strano che per quasi un decennio la Resistenza scompaia dagli
schermi. Un lungo silenzio interrotto solo nel 1955 dal film di un
esordiente “Gli sbandati” di Francesco Maselli. Presentato a
Venezia, il film racconta la vita di un un gruppo di giovani
altoborghesi sfollati nella campagna milanese nei mesi immediatamente
successivi all'8 settembre. Il tempo trascorre tra discussioni
includenti sul che fare (andare in montagna o cercare di espatriare
in Svizzera?). Solo uno, innamoratosi di una giovane operaia,
deciderà di raggiungere i partigiani, ma la storia terminerà
tragicamente con l'arrivo dei tedeschi informati da un delatore.
Il film, sostanzialmente
una storia d'amore, non piacque alla sinistra che lo trovò
eccessivamente intimistico, ma esprime perfettamente come una nuova
generazione di cineasti, non proveniente per motivi anagrafici dalla
militanza partigiana o comunque antifascista come la generazione
precedente, si avvicinasse alla Resistenza senza più gli entusiasmi
o le speranze degli anni '40, ma animata dalla voglia di capire. Il
tempo delle decisioni si dilata, la Resistenza di Maselli è una
Resistenza problematica, osservata più che partecipata.
(Giorgio Amico, Da "Roma
città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza
nella filmografia italiana 3)