TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 20 giugno 2019

I fuochi di San Giovanni. La notte delle streghe


    J.W. Waterhouse, the Magic Circle (1886)

Ultimo capitolo del libriccino sulla notte di San Giovanni. Questa volta parliamo di streghe, di quelle di Benevento, ma anche di quelle della nostra Liguria.

Giorgio Amico

I fuochi di San Giovanni

La notte delle streghe

Come ogni momento di passaggio, la notte di San Giovanni è densa di pericoli, popolata di forze malefiche. Da mezzanotte all'alba spiriti dei morti, demoni e streghe sono protagonisti di quel tempo sospeso. Nel Medioevo si pensava che in quella notte tutte le streghe d'Europa, guidate da Erodiade, Salomè e Diana, volassero nel buio per radunarsi a Benevento sotto un grande noce. Un albero, il noce, che godeva di una fama sinistra, perché considerato l’ultimo rifugio delle streghe condannate al rogo. Esse potevano salvarsi dal supplizio trasformandosi in spirito ed entrando nel più vicino tronco di noce, per poi riacquistare la libertà al momento dell’abbattimento dell’albero. Una credenza tanto diffusa che in molti luoghi il taglio di un noce doveva essere preceduto da particolari formule propiziatorie.

La leggenda aveva contorni molto sfumati. Ad esempio non era chiaro neppure agli abitanti di Benevento in quale località precisa sorgesse il noce plurisecolare attorno al quale le fattucchiere intrecciavano le loro danze sfrenate durante il solstizio d'estate. Ma tutti erano assolutamente certi che esistesse veramente e che le streghe vi giungessero in volo. Addirittura si conosceva la formula magica che queste usavano per poter volare, dopo essersi cosparso il corpo di un unguento magico:

“Unguento, unguento
mandame a la noce de Beneviento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne maltempo”.

Questa formula, universalmente conosciuta e che ritroviamo in tutti i racconti sulle streghe di Benevento, ha finito col rappresentare l'immagine di maggior potenza evocativa del rituale preparatorio al volo notturno ed è ritenuta espressione autentica del folklore popolare. (74) In realtà le cose stanno in modo molto diverso e fanno pensare che le origini di questa celebre formula siano da ricercare piuttosto negli ambienti inquisitoriali ed in particolare in un processo per stregoneria svoltosi a Todi nel 1428 nei cui atti si ritrova per la prima volta. Un processo simile a tanti altri, istruito nei confronti di una certa Matteuccia di Francesco, una contadina di circa quarant'anni, herbaria (cioè guaritrice con le erbe), nel corso del quale la poveretta rivelò sotto tortura ai giudici di essersi recata più volte in volo al grande sabba di Benevento e di averlo potuto fare proprio grazie a quella formula. E' nelle carte di Todi che si ritrova per la prima volta la celebre formula e dunque non nei cosiddetti «secoli bui» di un Medioevo barbarico, ma solo pochi decenni prima della scoperta dell'America. Esaminate con attenzione, quelle carte e quelle procedure fanno pensare che le dichiarazioni della disgraziata Matteuccia non fossero poi tanto spontanee. In sostanza la donna si sarebbe limitata, come il più delle volte accadeva in quel tipo di processo, ad ammettere ciò che le veniva richiesto, sottoscrivendo quanto, episodi e formule, gli inquisitori le sottoponevano. (75)

Qualunque sia stata la genesi della formula, essa si rivelò subito popolarissima, anche perché andava a rafforzare la credenza popolare, questa si davvero antichissima, che in certi periodi dell'anno le streghe potessero introdursi nelle case per fare dispetti o portare la malasorte. Proprio a Benevento le streghe erano chiamate Janare a causa della loro propensione a penetrare nelle case attraverso le porte («ianua» in latino) lasciate incustodite. È per questo motivo che durante la notte di San Giovanni si usava mettere sale grosso sui davanzali delle finestre o scope di saggina dietro le porte. La strega, curiosa di conoscere il numero dei chicchi di sale o dei fili di saggina, si sarebbe messa a contarli perdendo così tempo finché la luce dell’alba non l'avesse costretta a fuggire via. Una credenza diffusa anche in Liguria ancora nel Novecento, tanto che il cantautore genovese Fabrizio De Andrè la riprende nella canzone «A Cimma»:

“ti mettiàe ou brùgu rèdennu’nte ‘n cantùn
che se d’à cappa a sgùggia ‘n cuxin-a stria
a xeùa de cuntà ‘e pàgge che ghe sùn
‘a cimma a l’è za pinn-a a l’è za cùxia.”

[Metterai la scopa dritta in un angolo/ che se dalla cappa scivola in cucina la strega/ a forza di contare le paglie che ci sono la cima è già piena e già cucita]

Storie analoghe si trovano un po' in tutta Italia. Lo scrittore ottocentesco Cesare Cantù narra in un suo racconto di ambientazione medievale come nella notte di San Giovanni le campane dei villaggi lombardi non smettessero di suonare affinché le streghe "a cui, se nol sapeste, è spaventosissimo lo scampanio, non potessero cogliere le erbe nocive, nè impedire con loro malizie che fossero colte le profittevoli". (76)

Tanti erano i rimedi per proteggersi dalle streghe in quella notte. A Roma si credeva che fosse sufficiente portare dell'aglio sotto la camicia, insieme ad un mazzetto di iperico, ruta ed artemisia. Un uso che troviamo citato in un sonetto del Belli del 1834:

“Domani è San Giuvanni? Ebbè fio mio,
qua stanotte chi essercita er mestiere
de streghe, de stregoni e fattucchiere
pe la quale er demonio è er loro Dio,
se strasformeno in bestie; e te dich'io
ch'a la fisionomia de quelle fiere,
quantunque tutte-quante nere nere
ce pòi raffugrà più d'un giudio.
E accussì vanno tutti a San Giuvanni,
che lui è er loro santo protettore,
pe lo meno che sia, da un zeimillanni.
Ma a me, co 'no scopijo ar giustacore
e un capo-d'ajo o dua sott'a li panni,
m'hanno da rispettà come un zignore”. (77)

Non legato alle streghe, ma comunque connesso al carattere magico della festa, e ancora oggi diffusissimo un po' in tutta Italia, è l'uso di mangiare nel giorno di San Giovanni un piatto di lumache ritenendo che porti fortuna. Una credenza che si ricollega al simbolismo arcaico delle corna: “ Già si è spiegato – scrive Cattabiani – che il Cancro, all'inizio del quale cade il solstizio estivo, è un segno d'acqua a causa della luna. La lumaca, a sua volta, è un simbolo lunare, che indica la rigenerazione periodica con i suoi cornetti che mostra e ritira alternativamente, così come la luna appare e scompare nel suo ciclo perenne di morte e rinascita. Sicché la lumaca è simbolo di movimento nella permanenza e di fertilità, dunque di animale omologo alla porta solstiziale.” (78)

Un simbolismo che si perde nella notte dei tempi, ancora oggi tanto popolare che portare un corno o fare il gesto delle corna è considerato da molti la più efficace protezione contro la sfortuna.



E per finire... Sibilla Aleramo

Come tutte le cose anche la festa di San Giovanni non è passata indenne al vaglio del tempo. I falò continuano ad illuminare le notti di giugno, ma hanno perso quasi completamente la loro carica magica e sono diventati un semplice spettacolo, vestigia di un passato di cui nessuno comprende più l'autentico significato. E' una gioia malinconica quella dei nostri falò, che ben si adatta ad una umanità che ha perso la capacità di cogliere la magia profonda insita nel cosmo. Non è un caso se nel corso di questo nostro breve viaggio lungo i sentieri del mito abbiamo incontrato tanti poeti. Forse davvero oggi per cogliere a fondo la carica potentemente magica della festa di San Giovanni occorre avere cuore e occhi d'artista, o forse di bambino.

Matrimonio del Sole e della Luna, del Fuoco e dell'Acqua, fusione degli elementi primordiali, la notte di San Giovanni custodisce gelosamente il segreto stesso della vita e per questo non smette di affascinare anche noi, abitanti disincantati di un mondo senza più misteri. E' il fascino dolcemente malinconico delle cose di un tempo che si conservano con cura anche se non servono più. Ce lo ricorda Sibilla Aleramo in suo appunto del 1938:

"Legna che arde. Crepitio nel silenzio. Alari. Bastan due tizzi, spirito reduce, e un palpitar di fiamma azzurra. Riassunta tutta la miracolosa vivacità degli elementi. Più fresca d'un acqua corrente, più vicina del vento alla segreta gioia della terra, cuore del tempo, rosso ganglio eterno. Due tizzi fra alari anche di camino straniero, in una sosta anche di un'ora sola. O un falò sotto fredde stelle, un rombo, una scossa han destato minacciosi le case, s'esce al freddo aperto, i campi s'accendono come in una notte di San Giovanni." (79)


74. Paolo Aldo Rossi, L'unguento per volare al sabba, in: http://www.airesis.net/
75. Domenico Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di Francesco (Todi, 20 marzo 1428), CISAM (Centro Italiano studi sul Basso Medioevo) 2013.
76. Cesare Cantù, Margherita Pusterla, Torino, Stabilimento tipografico Fontana, 1843, p. 177.
77. Giuseppe Gioachino Belli, San Giuvan-de-giugno, in I sonetti, Milano, Feltrinelli, 1976, Vol. II, p. 1159.
78. Cattabiani, Calendario, cit. p. 240.
79. Sibilla Aleramo, Orsa Minore. Note di taccuino e altre ancora, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 98.

10. Fine