Che esista oggi un
vuoto politico a sinistra è cosa sotto gli occhi di tutti.
Altrettanto evidente è che da questa situazione non si esce con
soluzioni estemporanee, uomini della provvidenza o semplici cartelli
elettorali. Occorre un ripensamento profondo della storia passata che
analizzi sia la trasformazione profonda degli assetti repubblicani
che la crisi della sinistra nelle sue diverse accezioni (comunista,
socialista, post-sessantottina). Negli anni Ottanta i due processi
andarono avanti infatti di pari passo, in parallelo con il mutamento
della situazione internazionale e il trionfo del neoliberalismo.
Pubblichiamo oggi una riflessione di Franco Astengo sul tema, centrale
dalla Liberazione a tutti gli anni '80, dell'alternativa. Una
alternativa di “sistema” che sulla spinta delle lotte operaie
modificasse in profondità il sistema o semplicemente una
alternativa“democratica”, giocata principalmente a livello
parlamentare e che dunque, come poi avvenuto, lasciasse in piedi i
meccanismi di potere esistenti salvo correzioni marginali a livello
sovrastrutturale. Superfluo dire che fu la seconda ipotesi ad
affermarsi, lasciando intatto il sistema di potere DC. Fu proprio
l'incapacità di pensare una radicale alternativa, che sapesse andare
oltre gli slogan della sinistra rivoluzionaria e i tentennamenti di
quella istituzionale, che permise, al momento dell'implosione della prima repubblica fondata sulla centralità della DC, la nascita
e l'affermazione del berlusconismo come nuova forma di equilibrio dei
poteri “forti” che ancora oggi con vari passaggi (Renzi, M5S,
Salvini) nella sostanza regge il paese.
G.A.
Franco Astengo
Alternative
“Democrazia bloccata”,
“conventio ad excludendum”, “consociativismo”: su questi tre
punti si è sviluppato il processo che, in ragione di fattori
derivanti sia dal vincolo esterno (caduta del muro di Berlino,
trattato di Maastricht) sia dal vincolo interno (Tangentopoli) ha
portato all’implosione di quella che, nella definizione di “Pietro
Scoppola”, è stata la realtà della “Repubblica dei Partiti”.
Nella sostanza la fase
repubblicana sviluppatasi tra il 1945 e il 1980 che si è frantumata
di fronte all’assenza di una alternativa che non fosse quella
“politicista” del cambiamento della legge elettorale.
Una fase contrassegnata
dal permanere della posizione “pivotale” da parte della
Democrazia Cristiana, dal progressivo adeguamento alle logiche di
governo da parte del Partito Socialista fino all’assunzione della
“logica” della governabilità nella fase della segreteria Craxi,
dalla tensione consociativista del PCI quale riflesso della ricerca
“togliattiana” sull’identità nazionale.
Un periodo nel corso del
quale si segnò la ricostruzione del paese realizzata attraverso il
piano Marshall e i grandi sacrifici imposti ai lavoratori:
ricostruzione come base verso l’affermarsi del consumismo, avvenuto
nell’esaurimento delle logiche “comunitarie” del welfare
keynesiano nei trent’anni gloriosi fino all’affermarsi
dell’individualismo dello sfrangiamento sociale.
Collegare questo quadro
per analizzare l’eredità politica di Lelio Basso, come richiesto
dall’intelligente intervento di Giorgio Amico, non può che
stimolare la riflessione su di un punto: acclarata l’assenza di
un’alternativa si potrebbe discutere oggi di un appuntamento
mancato attorno ad almeno 3 visioni d’analisi emerse nel movimento
socialista e comunista e mai raccolte all’interno di un progetto
politico che pure, a giudizio di chi scrive, poteva anche risultare
possibile?
Le tre visioni
riguardano:
1) La critica iniziale
portata avanti da Basso fin dalla natura del CLN e quindi rispetto
all’origine stessa della Resistenza, della Costituzione, della
Repubblica. L’interrogativo posto da Basso all’origine
del CLN riguardava, rispetto al ruolo dello
PSIUP, l’opportunità di stringere quel tanto di alleanza che
nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia
non soltanto organizzativa di partito, ma di autonomia politica di
classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanze delle riforme di
struttura.
Nel giudizio di Basso
l’avere accettato l’impostazione paritetica ed indiscriminata dei
C.L.N. aveva aperto facilmente le porte ai sabotatori della
Resistenza: nella sua valutazione, infatti, sarebbe stato sufficiente
che una parte di coloro stessi che avevano sostenuto il fascismo, che
ne avevano approfittato durante un ventennio e che avrebbero
volentieri continuato ad approfittarne, venissero a cercare un alibi
in seno a qualche partito riconosciuto come antifascista. Basso
lamentava anche la mancanza di un programma di rivendicazioni sociali
che caratterizzasse i partiti proletari e sulle quali si sarebbe
forse potuto, nel clima della Resistenza, ottenere il consenso anche
dei partiti borghesi. L’impostazione della politica
postfascista non si realizzò così come una rottura del ventennio ma
fu invece tutta dominata dalla preoccupazione di assicurare la
continuità politica e giuridica col vecchio stato sabaudo-fascista,
e di soffocare ogni tentativo di rinnovamento sotto uno scrupolo di
legalità formale, senza riflettere sul fatto che si trattasse di
legalità fascista, perché fasciste erano le leggi in vigore. La
mancanza di una qualsiasi riforma sociale nei programmi dei primi
governi Parri e De Gasperi e il loro rinvio alla Costituente prima e
alle Camere Legislative poi, avrebbe finito con lo svuotare la lotta
politica italiana di ogni serio contenuto, capace di orientare ed
educare democraticamente le masse popolari, lasciandole così preda
della demagogia dei programmi e della retorica dei disborsi, anziché
del chiaro linguaggio dei fatti. Comunque la lotta politica in
Italia, dall’aprile 1945 fino alla rottura del Tripartito, fu
dominata da questo equivoco. In omaggio all’idea dell’unità, il
C.L.N. non aveva elaborato un programma su cui fosse possibile
dividersi, e in omaggio alla stessa unità le sinistre rinunciarono
ad elaborarlo per proprio conto e a lottare per esso. La critica di
Basso arrivava così al cuore della politica dei partiti di
sinistra:lontani al mettere in chiaro le differenze, erano apparsi
anch’essi dominati dal desiderio di confondere le tinte, di
attenuare le distinzioni, di mettere in ombra le caratteristiche
particolari, per apparire anch’essi come dei bravi democratici
antifascisti che si distinguevano dagli altri democratici
antifascisti quasi soltanto per il maggior impegno che ponevano nel
realizzare le comuni rivendicazioni.
2) La critica avanzata da
Panzieri. Attraverso l’elaborazione sviluppata su Quaderni
Rossi, Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto
largamente ignorati come la IV sezione del I libro del Capitale, il
“frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il Capitolo VI del
Capitale (inedito), facendo emergere nel dibattito i concetti di
sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro al capitale
per indagare i processi di trasformazione economico – sociale e per
analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro.
Su queste basi Panzieri
elaborò i concetti di “operaio massa” e di “composizione di
classe”.
Panzieri considerava
l’operaio massa, tecnicamente dequalificato rispetto all’operaio
di mestiere, come portatore di una potenzialità conflittuale molto
forte.
La composizione di classe
indicava il nesso tra i connotati oggettivi della forza lavoro in un
certo momento storico e i suoi connotati politici soggettivi.
Secondo Panzieri non
esisteva alcune tendenza immanente al superamento della divisione del
lavoro, così come non esisteva alcun limite allo sviluppo del
capitale.
L’unica costante nel
modo di produzione capitalistico era rappresentato dalla crescita
(tendenziale) del potere del capitale sulla forza lavoro e l’unico
limite al capitale è la resistenza della classe operaia.
Panzieri ipotizzava che,
in ragione della crisi della teoria economica, il capitalismo avesse
perduto il suo pensiero classico nell’economia politica e avesse
ritrovato la sua scienza non volgare nella sociologia, la quale
segnalava il passaggio del problema del funzionamento del meccanismo
economico a quello dell’organizzazione del consenso.
Tale trasformazione
corrispondeva a un mutamento del rapporto tra ricchezza e potere.
Il rapporto tra ricchezza
e potere si trasformava in una concezione del potere inteso ad
asservire la ricchezza, in una funzione del denaro utilizzato come
mezzo per conseguire il dominio politico.
Una analisi che, anche in
questo caso, può essere ben considerata come profetica e di
fortissima attualità.
Panzieri indicava la
strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la
richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre,
per chi produrre).
L’avanzamento di questa
domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla
fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del
movimento operaio, tutte intente – in quella fase – a muoversi
sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei
bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo
italiano”).
Le lotte di fabbrica di
quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale tutta
incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla
necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della
capacità produttiva del lavoro.
Una tesi, quella del
marxismo italiano “ufficiale” compresa tra la programmazione
giolittiana e il sostegno al “capitalismo straccione” di
Amendola, che Panzieri contrastò vivacemente come altri fecero
in diverse sedi (a partire dal convegno dell’Istituto Gramsci sulle
“tendenze del capitalismo italiano” svoltosi nel 1962 di cui
si parlerà in seguito).
L’ analisi di Panzieri
incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di
realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica.
L’eredità teorica di
Panzieri rimase così sullo sfondo nell’elaborazione della sinistra
italiana.
3) La posizione emersa
nella sinistra comunista in particolare nell’occasione del già
citato convegno organizzato nel 1962 dall’Istituto Gramsci sulle
“Tendenze del Capitalismo italiano”.
In quel convegno la
futura “sinistra comunista” che avrebbe fatto capo a Ingrao
(assente nell’occasione) e rappresentata dagli interventi di
Trentin e Magri fu capace di sottolineare le novità qualitative che
stavano emergendo nel capitalismo italiano. Dal subbuglio del
neocapitalismo arrivavano al dunque problemi e bisogni che andavano
oltre la semplice redistribuzione del reddito e/o la modernizzazione
del sistema (come pensava Amendola). Si trattava di far prendere
forma all’insieme dei rapporti politici e sociali in mutamento nel
corso di quegli anni aprendo due filoni principali di riflessione:
a) quello con la classe
operaia nell’ambito di una relazione che non fosse soltanto quella
sindacale, ma quello di una lotta operaia urbana ad alta densità
politica. L’industrializzazione doveva accompagnarsi con la
modernizzazione. Su questo punto il collegamento con Panzieri che
chiosando i Grundrisse ne aveva ripreso un concetto fondamentale: “
Verrà il momento che lo sfruttamento materiale sarà ben misera cosa
per misurare la ricchezza, perché emergeranno nuovi bisogni e
criteri per misurare il progresso e la ricchezza”
b)quello di una
battaglia, della quale si erano già visti elementi concreti nei
fatti del Luglio ‘60 nel corso dei quali i giovani erano stati
l’anima dell’antifascismo, che indicasse come la lotta contro il
fascismo non fosse finita con l’obiettivo di sradicare quanto
ancora ci fosse di fascismo nelle istituzioni e nella società.
In entrambi i punti
emergono con chiarezza gli elementi di collegamento nel pensiero tra
questi soggetti e protagonisti politici.
Quanto fosse possibile
costruire un’alternativa alla dimensione dominante dei partiti di
massa rimane un interrogativo la cui risoluzione è ormai
circoscritta al segno della storia.
Forse lo PSIUP avrebbe
potuto rappresentare un punto di coagulo intellettualmente
all’altezza se all’interno di quel partito fosse stato possibile
misurarsi con i temi della classe e del rapporto tra essa e la
modernizzazione industriale in Occidente e le tendenze che essa
avrebbe suscitato nel movimento operaio.
Lo PSIUP, di cui Basso
era stato tra i promotori mentre Panzieri morì nel dicembre 1964
quando il partito era sorto da pochi mesi, si rivelò insufficiente
per eccesso di politicismo e di legame con lo schema bipolare (tema
che non si è affrontato in questa sede e che rimane comunque fattore
decisivamente insuperabile in quell’epoca se pensiamo a ciò che si
verificò, pochi anni dopo, con l’invasione della Cecoslovacchia).
Si sarebbe dovuta
rinvenire la capacità di uscire dall’egemonia dello schema
togliattiano di lettura di Gramsci del “Risorgimento incompiuto”
e dell’identità nazionale della classe operaia.
I due punti che Togliatti
mutuò da Gramsci attraverso la pubblicazione “ragionata” dei
Quaderni e che rimangono comunque le stimmate di identità peculiare
del comunismo italiano anche rispetto al materialismo dialettico
sovietico.
Un’identità
consolidata ed egemone che poteva essere affrontata attraverso la
rilettura, assieme ai nuovi classici della sociologia americana
dell’epoca e dei teorici della Scuola di Francoforte anche di un
altro Gramsci: quello di “Americanismo e fordismo”.
Dei “se” e dei “ma”
però sono piene le fosse e in questo caso ne ho compiuto un utilizzo
colpevolmente abusivo.
Vale la pena, comunque,
di continuare a scavare in quel periodo senza soffermarsi troppo sul
gusto amaro delle occasioni perdute.